La canzone Rock’n’Roll Ni**er di Patty Smith che viene eliminata da Spotify per questioni legate al politicamente corretto. Le stampanti HP che smettono di funzionare se vengono utilizzate cartucce non originali.

I trattori John Deere che rendono impossibile ripararli in autonomia. Che cos’hanno in comune queste tre situazioni così diverse tra loro e che riguardano ambiti così distanti?

A unirli è il fatto di essere tre esempi di ciò che può avvenire quando ci si affida all’economia degli abbonamenti (in inglese “subscription economy” o “subscription as a service”): un modello di business che negli ultimi dieci anni è cresciuto del 435 per cento e prevede – con parecchie variazioni – che al centro dell’interazione economica tra azienda e cliente non ci sia più un prodotto acquistato, ma i servizi offerti in cambio di una qualche forma di abbonamento.

I vantaggi sono evidenti: i software vengono regolarmente aggiornati, i cataloghi a cui abbiamo accesso sono illimitati e l’utente si libera di una parte di responsabilità (per esempio la manutenzione o la conservazione).

Nonostante ciò, è sempre più chiaro come dietro alla promessa di entrare nella cosiddetta economia dell’esperienza si nasconda un prezzo nascosto per l’utente.

Addio alla proprietà

La questione si può riassumere così: nel momento in cui ciò che acquistiamo non è il prodotto, ma un servizio erogato online in abbonamento, il controllo sul prodotto che pensiamo di aver comprato resta in realtà in mano all’azienda.

Nessuna società privata si sarebbe mai sognata di intrufolarsi in casa nostra per portarsi via un CD o un libro considerato non più appropriato.

Allo stesso modo, nessuna azienda sarebbe mai arrivata a guastarci fisicamente la stampante per vendicarsi della nostra decisione di utilizzare cartucce non originali.

Eppure, adesso, le cose funzionano esattamente così: Spotify o Amazon Kindle esercitano sempre più controllo sul nostro intrattenimento, mentre il mercato delle stampanti è diventato il simbolo stesso dei mali dell’economia dell’abbonamento.

Le stampanti si prestano infatti perfettamente a questo modello, perché il dispositivo che pensiamo di acquistare a prezzo stracciato – la stampante – è in realtà solo un espediente necessario a venderci una costante fornitura a pagamento di cartucce originali, sempre più spesso proposta con la formula dell’abbonamento.

E così – come racconta Charlie Warzel sull’Atlantic – si arriva alla paradossale situazione in cui le stampanti HP possono smettere di funzionare se, dopo averle acquistate, non vogliamo più pagare l’abbonamento mensile alle cartucce o se proviamo a utilizzarne di non originali. «Ho comprato un dispositivo e dovrei essere in grado di utilizzare succo di mirtillo come inchiostro se lo volessi», scrive ironicamente Warzel.

È per questa ragione che oggi siamo spronati in ogni modo – e in alcuni casi proprio costretti – a collegare la nostra stampante a Internet per farla funzionare (quando basterebbe un cavo o un collegamento bluetooth): in questo modo l’azienda mantiene – tramite internet – il controllo da remoto sulla nostra stampante e può interromperne il funzionamento qualora se ne faccia un utilizzo sgradito (per esempio, usare cartucce ricondizionate o portarla a riparare nel negozietto sotto casa invece che in quello autorizzato).

Lo stesso vale per le console, che oggi per funzionare devono essere obbligatoriamente connesse a Internet – anche per giocare in solitudine a videogame che abbiamo già scaricato – e che in questo modo possono continuare a mostrarci pubblicità, a spronarci a fare nuovi acquisti “in-game” e altro ancora.

Lo stesso discorso si potrebbe ovviamente ampliare a smart TV, termostati connessi e moltissimi altri dispositivi.

Non è quindi un caso che l’economia dell’abbonamento abbia iniziato a diffondersi in contemporanea con l’avvento della Internet of Things: essendo proprio la rete lo strumento che rende più semplice trasformare la vendita singola di un prodotto in un flusso costante e prevedibile di entrate, di offrire l’installazione immediata di funzionalità premium e – in definitiva – di mantenere il controllo sull’oggetto che pensavamo fosse diventato nostro.

La centralità di internet si intuisce anche dal fatto che il modello dell’abbonamento – per quanto esista in realtà da secoli (pensate per esempio all’acquarolo) – sia nato nella sua forma più recente proprio attraverso i software e le app a pagamento, che ormai non possiamo quasi mai acquistare, ma per le quali siamo costretti a sottoscrivere un abbonamento, rinnovando il pagamento per il loro utilizzo con cadenza mensile o annuale.

Tra Adobe e Tesla

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L’esempio classico è quello di Adobe, la società californiana produttrice dei software Acrobat, Photoshop, Illustrator e altri ancora. Come segnala sul suo blog il programmatore Cal Paterson, «Photoshop è stato per anni un programma di cui potevi felicemente comprare una copia e usarla per decenni, finché Adobe non ha intuito che sarebbe stato molto più remunerativo renderla disponibile sotto forma di abbonamento».

I software hanno fatto un po’ da cavia di questo nuovo modello economico, essendo stati i primi “oggetti” a poter essere controllati da remoto tramite internet.

E così, oggi qualunque programma o applicazione, anche quelli che non richiedono un costante aggiornamento (come per esempio una app per il riconoscimento delle piante o simili) richiedono necessariamente un pagamento ricorrente.

La cosa che forse colpisce di più, però, è come questo sistema sia partito dai software per poi arrivare – passando da stampanti e console – addirittura alle automobili e ai trattori.

Prendiamo per esempio le Tesla: non solo sulle auto dell’azienda di Elon Musk (come avverrà anche sulle prossime Mercedes e non solo) sempre più funzionalità che un tempo sarebbero state acquistabili a parte oggi richiedono un abbonamento (per esempio, l’assistente alla guida), ma alcune funzionalità vengono artificialmente limitate o potenziate via internet al fine di massimizzare i guadagni.

Questo aspetto è emerso definitivamente nel 2017, quando Tesla decise di aumentare la durata della batteria di tutti i veicoli che si trovavano nelle vicinanze dell’uragano Irma che al tempo minacciava la Florida.

La società venne lodata per questa azione, ma di fatto aveva semplicemente rimosso una limitazione software che riduceva artificialmente la durata delle batterie per creare due differenti fasce di prezzo.

Il caso più noto in assoluto riguarda invece il produttore di trattori John Deere, che per lungo tempo ha impedito ai proprietari di riparare in autonomia i propri prodotti, spronandoli inoltre a sottoscrivere servizi in abbonamento relativi agli aggiornamenti software e impedendo loro di decidere come comportarsi in caso di malfunzionamenti, procedendo a volte al blocco completo del mezzo.

Recentemente, i clienti di John Deere hanno vinto negli Stati Uniti la loro causa, conquistando così il diritto a riparare i trattori e segnando un importante passo in avanti in quella che è stata definita niente meno che «una battaglia per la nostra libertà digitale»: quella cioè di impedire alle aziende di mantenere il controllo su prodotti che abbiamo acquistato, di limitare la nostra possibilità di aggiustarli in autonomia o di bloccarne il funzionamento per le ragioni più disparate (il produttore di altoparlanti Sonos offre per esempio uno sconto sulla merce nuova a patto di bloccare i vecchi prodotti per impedirne la vendita sul mercato dell’usato).

È giunto il momento di pretendere di più: al movimento per il “diritto alla riparazione” dovrebbe affiancarsi quello per il "diritto al controllo” sui dispositivi che acquistiamo, mano a mano che diventa sempre più chiaro quanto – come ha scritto sempre Warzel – «la comodità promessa dai nostri dispositivi connessi ha l’effetto indesiderato di privarci di una piccola parte di autonomia decisionale, lasciandoci alla mercé di aziende a caccia di margini più ampi».

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