Uno dei miti contemporanei più duri a morire vuole che la dipendenza da smartphone sia un problema che riguarda soprattutto o esclusivamente i giovanissimi. Ma se le cose stanno così, perché noi millennials troviamo sempre più spesso i nostri ormai anziani genitori incollati al telefono, e impegnati per ore a scrollare sui social, a giocare a carte online o a inoltrare bizzarre catene su Whatsapp?

Perché abbiamo l’impressione che siano (anche) loro – gli stessi che, prima di adottarlo in massa, spesso lo consideravano la fonte di ogni male – a passare decisamente troppo tempo con lo smartphone in mano, manovrandolo e digitando sulla tastiera in quel modo curioso, che prevede l’utilizzo di un solo indice invece dei due pollici?

Il segreto di Pulcinella è che ci siamo storicamente preoccupati dell’uso eccessivo degli smartphone da parte dei più giovani per due ragioni. La prima è che parecchi studi – ma il dibattito è ancora in corso – hanno mostrato come un uso prolungato degli smartphone durante l’età della crescita potrebbe avere un effetto negativo sullo sviluppo cognitivo e sociale: un celeberrimo (ma anche criticato) articolo della sociologa Jean M. Twenge sosteneva addirittura che gli smartphone avevano “distrutto una generazione” (ovviamente, quella a cui appartengono i più giovani).

La seconda ragione è che sono i giovanissimi ad aver adottato gli smartphone per primi: nel Regno Unito, già nel 2012 l’86 per cento dei 16-24enni possedeva uno smartphone, venendo di conseguenza osservati come se fossero alle prese con un oggetto alieno dai loro preoccupati genitori (45-54 anni), tra cui la percentuale di utilizzatori si fermava invece al 46 per cento.

Rispetto a dieci anni fa, le cose sono però drasticamente cambiate: sempre nel Regno Unito (la nazione europea su cui si trovano i dati più completi e aggiornati), la diffusione degli smartphone ha raggiunto percentuali di utilizzo che vanno dall’89 al 100 per cento in ogni fascia demografica, esclusi solo i più anziani.

La pervasiva diffusione degli smartphone si è accompagnata (o avrebbe dovuto accompagnarsi) a una nuova consapevolezza: la dipendenza da questi oggetti luccicanti e rettangolari non riguarda solo i giovanissimi, ma colpisce una percentuale significativa di popolazione, indipendentemente dall’età o dalla classe sociale (anche se gli usi che se ne fanno sono ovviamente diversi).

Il fenomeno più evidente degli ultimi anni è però un altro, ovvero l’impressionante crescita degli smartphone nell’unica fascia di popolazione che ne era ancora rimasta indenne: le persone con più di 65 anni. Nel Regno Unito, la percentuale di utiizzatori tra gli over 65 è passata dal 3 al 67 per cento in un decennio. In Germania si arriva al 68 per cento e anche negli Stati Uniti si è andati dal 13 per cento del 2012 al 61 per cento odierno.

Questo rapidissimo aumento si è inevitabilmente accompagnato a una netta crescita del tempo che gli ultrasessantacinquenni passano davanti a schermi di ogni tipo (televisione, smartphone e computer), che oggi, nel mondo occidentale, ha raggiunto circa dieci ore al giorno. A differenza di tutte le altre fasce anagrafiche, inoltre, l’aumento dell’uso degli smartphone tra gli anziani non si è accompagnato a un contestuale calo delle ore trascorse davanti alla televisione (calo molto evidente soprattutto nella fascia 18-34 anni).

Dal 2015 a oggi, il tempo trascorso dagli anziani davanti alla televisione (o comunque con la televisione accesa) è infatti rimasto immutato, attorno alle sette ore al giorno. Nel frattempo, però, l’utilizzo degli smartphone è passato da una media di circa 15 minuti al giorno a oltre due ore: tempo sottratto – secondo uno studio di Pew Research – soprattutto alla lettura e alla socializzazione nel mondo fisico.

Tutto ciò creerebbe tra gli anziani anche problemi di tipo cognitivo: lo psichiatra giapponese Hiroyuki Yoshitake ha mostrato in una serie di articoli scientifici come la dipendenza da smartphone tra gli over 65 sarebbe correlata a un declino delle funzionalità cognitive e della capacità di elaborare informazioni. Non tutti però sono d’accordo con queste conclusioni: la neuroscienziata indiana Shweta Sunil ha infatti sostenuto in un paper accademico l’esatto opposto, ovvero che “l’utilizzo della tecnologia può aumentare le funzionalità cognitive, accrescere il senso di indipendenza e anche l’autostima tra i più anziani”.

Chi ha ragione? Ovviamente, come in tutte le altre fasce anagrafiche, dipende anche dall’uso che si fa degli smartphone: scrollare senza tregua su Facebook è diverso da vedere documentari su YouTube, leggere quotidiani online o anche solo utilizzare Whatsapp per restare in contatto con amici e parenti (che magari si ha sempre più difficoltà a incontrare di persona). È invece certo che – come dimostrato dagli studi giapponesi e indiani che abbiamo citato, a cui si aggiungono i tanti paper provenienti dalla Cina – il problema inizia a essere avvertito in tutto il mondo.

Sono anche facilmente intuibili le ragioni per cui gli smartphone stiano avendo tanta presa su una popolazione anziana, che in questo dispositivo trova spesso un rimedio alla solitudine e alle ridotte abilità motorie. “In un mondo ideale, gli smartphone sarebbero uno strumento ottimale per confontarsi con altre persone e limitare isolamento e alienazione”, si legge in un’analisi pubblicata su Japan Today. “Sfortunatamente, secondo alcuni studi il tempo eccessivo trascorso sugli smartphone sembra accrescere il senso di isolamento degli anziani”.

È lo stesso circolo vizioso che è stato osservato negli adolescenti: la solitudine porta a utilizzare maggiormente lo smartphone, che a sua volta accresce la sensazione di solutidine, disincentivando ulteriormente la socializzazione. Ma proprio il fatto che molti aspetti solitamente indagati per comprendere l’effetto degli smartphone sui più giovani – l’impatto sulle abillità cognitive e l’isolamento – stiano oggi venendo osservati anche tra i più anziani fa capire quanto sarebbe importante iniziare a studiare questo fenomeno con maggiore attenzione.

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