La pubblicità anticipa le recessioni e le riprese dell’economia, per cui non è un buon segnale che nel secondo trimestre del 2022 i ricavi di Meta-Facebook siano diminuiti dell’uno per cento (da 29,07 a 28,82 miliardi di dollari) e che ancora peggio sia andata con i profitti (-36 per cento), tanto che Mark Zuckerberg  già da maggio aveva iniziato a restringere l’organico degli 80mila dipendenti. Senonché, nello stesso trimestre, il bilancio pubblicitario di Alphabet (Google e YouTube) va alla grande (+13 per cento).

La crisi Di Meta è strutturale

È possibile che Meta-Facebook stia soffrendo di una crisi tutta sua? Se così fosse sarebbe entrato in crisi (molti diranno finalmente) un evento corsaro che tre lustri orsono, grazie ai soldi di astuti investitori, ha precocemente saturato il nascente business social. Di certo il mondo Meta è incalzato nel campo dell’utenza e in quello delle regole.

Gli utenti sono contesi da TikTok, che s’è irrobustito crescendo nel mercato cinese e ha un modello di raccomandazione assai diverso. Infatti non pompa il traffico con le enfatizzazioni tratte dalle fregole dei bot che, a centinaia di milioni, sono agiti da politici e mercanti nei cinque continenti, ma lascia che il simile scivoli da sé stesso verso il simile. Silvio Berlusconi ad esempio, che non è nato ieri, è andato su TikTok per risvegliare i cuori di qualche vecchiarello di passaggio (a quanto pare c’è riuscito) e non illudendosi d’infettare come un virus lo schermo e la testa di qualche giovane.  

Quanto alle regole i problemi pronti a esplodere sono la cosiddetta “moderazione” e l’esproprio dei dati degli utenti.

La moderazione dei contenuti e quella che spegne gli incendi ininterrottamente innescati dal pompiere. Gli algoritmi di Meta “enfatizzano” per ingrossare il traffico vendibile e, nel campo del comunicare, enfatizzare equivale a incendiare. Dopodiché, davanti alle proteste, si mostra il trofeo di qualche post cancellato a cose fatte.

Ma il punto è che il modello editoriale di Meta non è altro, seppur negato, che quello antico e piramidale in cui il vertice (o l’algoritmo predisposto dal medesimo) sceglie cosa e con quale evidenza debba finire sotto gli occhi della gente. Tuttavia la scala numerica dei post, reali o robotizzati, su cui opera il social è troppo grande per essere moderata a priori come gli articoli su un giornale o i programmi dentro un palinsesto. Quindi il social in quanto tale non è moderabile e l’unico intervento concreto e immaginabile consiste nel disperdere, grazie alla concorrenza, il peso e il fatturato del moloch che al momento ingombra il campo.

Mano a mano che questa persuasione si fa strada, Meta scoprirà, anzi a quanto pare già subodora, che parlamenti e dittatori, ognuno con lo stile e i modi propri, non avranno interesse alcuno a proteggerne gli affari ed eserciteranno i poteri degli stati per togliergli i dati e metterli in server propri – oppure degli stessi singoli utenti – per farli diventare materia disponibile a beneficio di una miriade di potenziali concorrenti cui verrà assicurata la “interoperabilità”, la principale garanzia per i piccoli che addentano i polpacci del colosso del momento.  

Musk appartiene al dopo Facebook

Nella sua follia, chi pare aver capito da quale parte tira il vento del social business, è Elon Musk (pur in mezzo al tira e molla di un’offerta d’acquisto di Twitter probabilmente smisurata). È in questo senso che leggiamo le sue intenzioni dichiarate di voler porre termine alla farsa della “moderazione” ivi compreso l’esilio a chi le combina troppo grosse (vedi Donald Trump).

Perché infatti rinunciare allo free speech nell’assetto di social non generalisti e politicamente meno distorcenti verso i quali gli interessi diffusi oggi convergono? Un non generalismo che comunque, sia che derivi dal funzionamento (come s’è detto di TikTok) sia che nasca per posizionamento editoriale, come le testate e i magazine comprati da chi gli somiglia, garantisce che tra somiglianti si potrà spararle grosse senza che fuori dalla cerchia alcuno se n’offenda.

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