Per Facebook, il 2021 è un anno pessimo. Nonostante gli 85 miliardi di dollari di fatturato dello scorso anno (più 20 per cento rispetto a quello precedente), il colosso fondato da Mark Zuckerberg inizia infatti a mostrare parecchie crepe. Prima di tutto, la crescita degli utenti del più grande social network al mondo ha subìto un forte rallentamento: nell’ultimo trimestre, Facebook è cresciuto di soli 15 milioni di utenti, raggiungendo – secondo i dati Statista – quota 2,9 miliardi. Si tratta del minore incremento mai messo a segno dalla società di Menlo Park, che in tutti i report trimestrali del recente passato aveva sempre potuto vantare una crescita attorno ai 50/100 milioni di utenti.

Peggio ancora: nei due più importanti mercati del mondo la crescita si è completamente fermata. In Unione Europea, Facebook non ha aggiunto un solo utente nel corso di tutto il 2021, restando inchiodato a quota 423 milioni.

In Nord America (Stati Uniti e Canada), la crescita è stata di soli 2 milioni di utenti: da 259 a 261. A peggiorare ulteriormente il quadro c’è la fuga dei giovani: gli utenti adolescenti di Facebook sono scesi del 13 per cento negli ultimi due anni e si prevede che caleranno di un ulteriore 45 per cento da qui al 2023. Si prevede anche un calo da parte dei giovani adulti, che dovrebbe scendere di un 4 per cento nello stesso lasso di tempo. In poche parole, Facebook è ormai considerato – come si dice in effetti da tempo – un social network “da vecchi”.

Essere deboli

©Solen Feyissa

Tutto ciò non sarebbe particolarmente preoccupante se non fosse che anche Instagram – che fino ad oggi ha rappresentato il motore della crescita complessiva della società – sta iniziando a mostrare i primi segni di cedimento. La quantità di contenuti postata dagli adolescenti su Instagram è scesa del 13 per cento nel giro di un solo anno, un segnale definito “molto preoccupante” anche in un report interno, e che mostra quanto la concorrenza di TikTok (che ha raggiunto un miliardo di utenti) si sia fatta durissima.

E poi ci sono i Facebook papers: la gigantesca mole di rivelazioni emerse grazie alle soffiate della ex dipendente Frances Haugen, che una volta per tutte stanno dimostrando ciò che da tempo si sospetta: il social network – tra le altre cose – non è in grado di fermare la disinformazione e la propaganda più incendiaria, non sempre è intenzionato a farlo e anzi in alcuni casi avvantaggia di proposito i contenuti più divisi e pericolosi proprio perché consapevole di come questi aumentino l’interazione degli utenti sul breve periodo.

Facebook, la cui società è stata da poco ribattezzata Meta, si trova quindi in una posizione particolarmente debole proprio mentre i principali organi di vigilanza gli stanno addosso: non solo l’antitrust statunitense, che considera la società un monopolio del settore e potrebbe quindi chiedere una sua separazione strutturale, ma anche e soprattutto le autorità dell’Unione europea.

«A Bruxelles, i funzionari stanno dando gli ultimi ritocchi a delle leggi che potrebbero richiedere a Facebook di condurre audizioni regolari e indipendenti su come stia gestendo i contenuti potenzialmente dannosi», scrive Politico. «Obbligheranno anche l’azienda ad aprire ai regolatori gli algoritmi, finora gelosamente custoditi e utilizzati per promuovere determinati contenuti sul newsfeed degli utenti».

Nel caso in cui non dovesse adempiere a questi e altri impegni – tra cui quello di rimuovere immediatamente i contenuti d’odio – il colosso di Menlo Park potrebbe ricevere multe fino al 10 per cento del suo fatturato annuale (e quindi svariati miliardi di dollari).

Messaggi promozionali

©Tom Sodoge

Come si esce da una situazione di questo tipo? A giudicare dalle varie manovre messe in atto da Facebook/Meta nelle ultime settimane, si può ipotizzare che la strategia sia, da una parte, quella di far dimenticare il prima possibile al grande pubblico gli scandali e le debolezze che hanno coinvolto il social network e, dall’altra, quella di mettere in atto una massiccia campagna di moral suasion che contribuisca a stemperare gli animi di quelli che Mark Zuckerberg potrebbe considerare i suoi nemici.

Da quest’utimo punto di vista, potrebbe non essere un caso che proprio negli ultimi giorni si siano moltiplicate – su vari social network, ma perfino sui vecchi giornali di carta – le pubblicità in cui giovani imprenditori europei raccontano come l’utilizzo di Facebook sia stato cruciale nella loro strada verso il successo economico e quanto, in generale, questa piattaforma “aiuti la crescita delle nuove imprese in Europa”.

La promozione delle potenzialità di Facebook per le pmi è una storia ormai vecchia, sulla quale il social network aveva puntato moltissimo già nel 2016: una fase in cui ambiva a far crescere esponenzialmente gli investimenti delle pmi sulla piattaforma e per la quale si era spesa in prima persona Nicola Mendelsohn, ex vice-presidente di Facebook per Europa, Medio Oriente e Africa, e adesso responsabile della pubblicità globale.

La sensazione è che oggi, più che promuovere ulteriormente i vantaggi di Facebook per le pmi, questa recente campagna promozionale sia parte di una più ampia strategia per sottolineare quanto l’utilizzo di Facebook possa avvantaggiare giovani europei intraprendenti, contribuendo così alla ripresa economica del continente.

Quanto, insomma, Facebook possa essere un fattore positivo per la società. Non sarebbe assurdo neanche pensare che queste pubblicità siano approdate su molti quotidiani per provare a migliorare i rapporti tra Zuckerberg e il mondo editoriale, in una fase resa delicata non solo dalle inchieste giornalistiche sui Facebook Papers, ma anche dal recepimento, nel nostro paese, della direttiva europea sul copyright.

Assumere in Europa

Ma questo è un aspetto secondario rispetto al colpo di teatro messo in scena da Mark Zuckerberg: il cambio di nome in Meta e i faraonici (e forse improbabili) progetti per la costruzione del metaverso, il mondo virtuale e immersivo in cui dovremmo riversare una parte sempre più consistente della nostra quotidianità. Come segnalato dagli addetti ai lavori, un rebranding e un progetto di queste dimensioni non si possono improvvisare in risposta alle contingenze. Ciononostante, il tempismo è stato perfetto: da un giorno all’altro, il mondo ha smesso di parlare dei Facebook Papers e di come il marchio di questo social network sia ormai antiquato (se non direttamente tossico), mentre il metaverso è diventato l’argomento del mese, su cui si sono versati fiumi d’inchiostro, creati migliaia di meme e a cui sono state dedicate intere trasmissioni. Tutto ciò è riuscito nell’impresa di proiettare di nuovo nel futuro la società di Mark Zuckerberg, facendone inoltre crescere le azioni di un 7 per cento circa.

Sempre il metaverso è al centro di quella che sembra un’ulteriore manovra di Facebook/Meta per placare gli animi e migliorare la sua reputazione in crisi. Il 18 ottobre scorso, il vicepresidente Nick Clegg ha annunciato l’assunzione, nei prossimi cinque anni, di 10mila persone in tutta l’Unione Europea, allo scopo di sviluppare proprio questo mondo virtuale e immersivo su cui Zuckerberg sta scommettendo tutto. Ma perché assumere tutti proprio in Europa? Stando al comunicato, il nostro continente è «il luogo ideale per le aziende tecnologiche: un mercato di consumo di grandi dimensioni, con aziende all’avanguardia, università eccellenti e, soprattutto, talenti di alto profilo».

Non ci sono ragioni per dubitare che questi fattori abbiano davvero giocato un ruolo nella decisione di Facebook/Meta. Eppure, è difficile non sospettare che in questa scelta abbiano avuto un peso anche le recenti difficoltà di Facebook con le autorità di vigilanza europee che stanno studiando norme per rendere i social network maggiormente responsabili della loro condotta (e di quella dei loro utenti). Dimostrando la sua capacità di generare posti di lavoro in Europa quasi da un momento all’altro, è possibile che Zuckerberg stia cercando di porgere un ramoscello d’ulivo ai mastini europei.

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