Il 31 maggio 2020 Zhou Fengsuo, dissidente cinese tra i leader di piazza Tienanmen, organizza su Zoom una commemorazione digitale della repressione del 4 giugno 1989. Dalla sua abitazione negli Stati Uniti, dove vive da rifugiato politico, Fengsuo riesce a radunare sulla piattaforma di videoconferenze circa 250 persone, buona parte delle quali – secondo quanto riportato dalla sua ong Humanitarian China – provenienti proprio dalla Repubblica popolare (circa 4mila, in totale, hanno seguito l’incontro tramite i social media). Il 7 giugno, il suo account a pagamento su Zoom viene cancellato e le richieste di spiegazioni inviate al quartier generale di San José, in California, rimangono senza risposta. «Sembra plausibile che Zoom abbia agito su pressione del Partito comunista cinese per chiudere l’account», hanno fatto sapere da Humanitarian China. «Se così fosse, Zoom sarebbe complice nella cancellazione della memoria del massacro di piazza Tienanmen».

Compromessi

Accuse pesanti, che vennero avanzate anche da altri tre dissidenti cinesi e che Zoom rigettò solo in parte: «Dobbiamo rispettare la legge dei paesi in cui operiamo. Siamo molto dispiaciuti del fatto che alcuni recenti incontri, i cui partecipanti erano sia all’interno sia al di fuori della Cina, siano stati negativamente colpiti e che importanti conversazioni siano state interrotte». Secondo questa versione, Zoom avrebbe quindi dovuto interrompere alcune riunioni a cui stavano partecipando anche cittadini cinesi per obbedire alle richieste di Pechino: le ripercussioni su cittadini non cinesi o che non vivono in Cina sarebbero state un involontario effetto collaterale.

Complicazioni e compromessi inevitabili, per una società da 110 miliardi di capitalizzazione di mercato, diffusa a livello globale e che non vuole rinunciare alla presenza sull’enorme mercato cinese. A differenza di Twitter, Google, Facebook, Whatsapp e tantissimi altri, Zoom non è infatti bloccato in Cina, ma questa concessione ha avuto un prezzo da pagare: ottemperare nei tempi più brevi possibili alle richieste del governo. Come spiegato in un comunicato dalla stessa società, nel settembre 2019 il governo cinese prima ha sospeso Zoom e poi ha preteso per concedere la riattivazione, il trasferimento su server basati in Cina dei dati relativi a un milione di utenti cinesi, la creazione di un contatto locale che gestisse direttamente le richieste delle forze dell’ordine e anche lo sviluppo di una tecnologia che permettesse di analizzare automaticamente il contenuto delle riunioni, per interrompere quelle che violavano la legge cinese (Zoom afferma di non aver mai ottemperato a quest’ultima richiesta). Solo dopo, Pechino ha ripristinato il funzionamento di Zoom.

Messa così, può sembrare l’ennesima grave vicenda con protagonista un colosso digitale statunitense che, pur di non rinunciare al mercato cinese, decide di piegarsi alla censura e di adempiere alle richieste governative. Niente di nuovo: per quanto si sia trattato di progetti abortiti, negli anni scorsi si è vociferato sia del piano di Google – denominato Dragonfly – per la creazione di un motore di ricerca compatibile con la censura di Pechino, sia del tentativo di Facebook, riportato nel 2016 dal New York Times, di tornare operativo in Cina grazie allo sviluppo di un apposito strumento per la sorveglianza delle attività sul social network.

Il controllore

La vicenda con protagonista Zoom poteva quindi apparire come l’ultima di una lunga serie di pesanti compromessi – tentati o portati a termine – che i colossi del digitale sono disposti ad accettare per conservare una presenza sul mercato cinese. La situazione, però, è più complessa di così. Perché, infatti, sono stati temporaneamente cancellati gli account di dissidenti che vivono negli Stati Uniti, con cittadinanza statunitense, e su cui quindi Pechino non dovrebbe avere alcuna autorità? È proprio su questo aspetto che si concentra la denuncia penale che il dipartimento di Giustizia statunitense ha effettuato venerdì scorso in un tribunale federale di Brooklyn e che alza il velo su una vicenda ancora più delicata e complessa.

Il protagonista è Xinjiang Jin, un dirigente di Zoom che lavora proprio in Cina, dove la società ha circa un quinto dei suoi 2500 dipendenti. Secondo quanto ammesso dalla stessa azienda californiana, ha svolto il ruolo di contatto privilegiato con le forze dell’ordine e con i servizi segreti di Pechino, condividendo informazioni su utenti cinesi e interrompendo le videoconferenze su richiesta del governo.

Il compito di Jin era quindi quello di monitorare la piattaforma per identificare se fossero in corso riunioni in cui si discutevano temi politici o religiosi considerati inaccettabili da Pechino, fornendo inoltre al governo i nomi, gli indirizzi email e altri dati sensibili degli organizzatori, in alcuni casi anche se non residenti in Cina. Secondo un portavoce di Zoom (che sta collaborando pienamente con il dipartimento americano), Jin avrebbe condiviso con le autorità cinesi «una quantità limitata di dati» relativi a non più di dieci persone che si trovano al di fuori dalla Cina.

Prove false

Fa già una certa impressione che al servizio della censura cinese ci fosse il dipendente di una società statunitense. Il fatto che la censura e la diffusione di dati privati abbia colpito anche cittadini non cinesi getta un’ombra ancora più pesante sul modo in cui Zoom protegge le informazioni dei suoi utenti. A colpire sono però anche le modalità seguite per interrompere almeno quattro riunioni su piazza Tienanmen: secondo il dipartimento di Giustizia statunitense, Jin e alcuni suoi colleghi avrebbero fabbricato prove false per dimostrare che in quelle riunioni si discutesse di abusi su minori, razzismo, terrorismo e violenza.

In alcuni casi, Jin e i suoi collaboratori si sono intrufolati nelle riunioni con account fasulli per postare immagini pornografiche o legate al terrorismo, poi utilizzate come prove per interrompere le riunioni e sospendere gli account.

Jin non si sarebbe quindi limitato ad adempiere alle richieste cinesi relative a violazioni della legge sul suolo nazionale, ma avrebbe eseguito del vero e proprio spionaggio nei confronti di utenti che non si trovavano in Cina. Avrebbe fabbricato prove false, impedendo a cittadini statunitensi di esercitare il proprio diritto alla libertà d’espressione.

L’intreccio

Nel suo comunicato, Zoom ha affermato di avere immediatamente licenziato Jin e di avere messo in congedo altri dipendenti che lavorano in Cina, in attesa di concludere le indagini interne. La società ha inoltre ammesso di non essere stata all’altezza delle aspettative e che – invece di interrompere le riunioni su piazza Tienanmen – nel rispetto della legge cinese, avrebbe dovuto limitarsi a bloccare l’accesso ai partecipanti provenienti dalla Cina. Infine, Zoom ha fatto sapere di aver ripristinato gli account sospesi e che non accetterà più alcuna richiesta del governo cinese che possa colpire utenti che si trovano al di fuori della Repubblica popolare.

«Zoom era concentrata a rispettare la legge cinese e a soddisfare le aspettative delle forze dell’ordine», ha detto al Washington Post l’assistente procuratore generale per la Sicurezza nazionale, John Demers. «Ma col tempo queste aspettative continuano a crescere. E così si passa da “dovete rispondere alle nostre legittime richieste” a “dovete agire entro un minuto e interrompere qualunque cosa stia avvenendo sulla vostra piattaforma che possa urtare la sensibilità del governo cinese”, indipendentemente dal fatto che questo sia avvenendo in Cina o al di fuori».

Il caso che ha coinvolto Zoom ricorda da vicino altre recenti vicende: lo scorso anno, due ex dipendenti di Twitter vennero accusati di aver compiuto operazioni di spionaggio per conto dell’Arabia Saudita e di aver inviato informazioni personali di migliaia di persone, tra cui alcuni importanti dissidenti politici. A volte, invece, le parti sono rovesciate: è il caso di TikTok, il social network del momento (800 milioni di utenti nel mondo) di proprietà della cinese Bytedance. Oltre a essere accusato di censurare a livello globale le ricerche sul suo motore interno, per esempio quelle relative a Tienanmen o alle proteste di Hong Kong, TikTok è stato anche al centro delle preoccupazioni della Casa Bianca, che in un ordine esecutivo firmato da Donald Trump l’ha definito «una minaccia alla sicurezza nazionale».

Le democrazie da una parte, i governi autoritari dall’altra; i colossi della Silicon Valley e le emergenti realtà digitali cinesi. In mezzo, l’economia globale di internet e le straordinarie potenzialità in termini di sorveglianza create da buona parte delle piattaforme digitali. Un intreccio tanto difficile da sciogliere con il caso di Zoom che ne è solo un'ulteriore dimostrazione.

 

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