Nel 2018, la foto di Jeff Bezos a spasso con Spot, il robot a quattro zampe prodotto da Boston Dynamics, aveva fatto il giro del mondo e suscitato grande curiosità. Niente di strano, considerando che si trattava di una delle prime immagini amichevoli di un robot che – come tutti gli altri avanzatissimi prototipi della società fondata nel 1992 da Marc Raibert – aveva fino a quel momento suscitato soprattutto timore, al punto da ispirare una puntata di Black mirror dedicata a un robot assassino dalla forma identica a quella di Spot.

Ogni video in cui la Boston Dynamics mostra le capacità delle sue creature – e in cui si vedono robot antropomorfi o zoomorfi che aprono porte, fanno acrobazie e si rialzano dopo essere stati spintonati – viene sempre accolto dallo stesso mix di stupore e inquietudine. «Non penso che i robot siano di per loro spaventosi», aveva dichiarato qualche tempo fa Marc Raibert alla Associated Press. «Ogni tecnologia che potete immaginare può essere usata in molteplici modi. Se c’è qualcosa di cui dobbiamo avere paura, è soltanto dell’essere umano».

L’invasione

Eppure, il timore nei confronti dei robot continua a imperversare nella nostra società. Lo scorso novembre è stata pubblicata una ricerca dell’università di Canterbury, Nuova Zelanda, che ha indagato l’impatto emotivo negativo suscitato dai robot della Boston Dynamics, mentre una miriade di sondaggi ha rilevato negli anni i timori – economici e non solo – provocati da robot e intelligenze artificiali (in Italia, secondo Swg, il 42 per cento della popolazione è preoccupato dalla loro avanzata).

C’è però una nazione in cui tutte queste paure non vengono nemmeno prese in considerazione. È il Giappone, che non è soltanto la terza nazione al mondo per densità di robot industriali (390 ogni 10mila lavoratori, dietro a Corea del Sud e Singapore), ma è anche il luogo in cui già oggi è possibile trovare robot addetti all’accoglienza nei negozi e negli hotel, robot che hanno il compito di far rispettare il distanziamento sociale, robot (sperimentali) che consegnano le medicine direttamente nelle case degli anziani e addirittura robot che leggono i testi sacri, come avviene nel tempio buddista Kodai-ji di Kyoto.

Negli ospedali

Il settore che sta però più rapidamente crescendo è quello dei robot utilizzati negli ospedali e nelle case di riposo per prendersi cura o fare compagnia agli anziani. Uno dei più noti (e semplici) è il peluche meccanico Paro, che da tempo viene utilizzato per alleviare la depressione o la solitudine. Paro reagisce con il corpo alle coccole ed è in grado di rispondere al nome che gli viene dato, cerca attivamente il contatto visivo e impara i comportamenti preferiti dai padroni.

(Kyodo)

Robear è invece un robot pesante 140 chilogrammi che viene impiegato negli ospedali per sollevare dal letto e spostare le persone che non sono in grado di muoversi autonomamente; mentre tutta una serie di compagni meccanici – come Buddy di Blue Frog Robotics o ElliQ di Intuition Robotics – vengono utilizzati per stimolare la conversazione, organizzare giochi, ricordare di prendere le medicine e altro.

Robot senza umanità

Da un certo punto di vista, la diffusione dei robot per la cura degli anziani è un processo inevitabile nella nazione più vecchia e più longeva al mondo, in cui l’età media è di 48,4 anni. Gli aspetti demografici che hanno portato alla diffusione dei robot per la cura degli anziani in Giappone fanno però pensare che qualcosa di simile possa avvenire anche in Italia – terza popolazione più anziana al mondo con 46,5 anni di media – e nel resto d’Europa. In parte, in effetti, sta già avvenendo, come dimostra la sperimentazione dell’assistente robotico per anziani SARA, sviluppato nell’ambito dello European Institute for Innovation and Technology.

Ma è giusto che siano degli automi o degli animali meccanici ad alleviare la solitudine delle persone anziane? Quali problemi etici solleva il fatto che a tenere compagnia siano macchine incapaci di provare compassione o simpatia? Uno studio qualitativo della Royal Society di Londra ha mostrato come persino gli europei tra i 18 e i 29 anni considerino “degradante” e “deumanizzante” che ad occuparsi della cura degli anziani e delle persone sole siano dei robot. Un aspetto che pone forti incognite sulla diffusione di questi strumenti in Europa e in Occidente.

Rivoluzione robotica

Timori e perplessità che non trovano invece spazio in Giappone. Come si legge nel saggio Robo Sapiens Japanicus (2017) dell’antropologa Jennifer Robertson, non solo il rapporto con i robot è amichevole, ma la popolazione giapponese è ufficialmente incoraggiata ad affidarsi ai robot per la cura degli anziani, preferiti ai badanti immigrati.

L’ex premier Shinzo Abe ha dato il via a questa “rivoluzione robotica” tramite generosi finanziamenti statali destinati allo sviluppo di robot con compiti di cura e compagnia sempre più evoluti, immaginando un futuro in cui questi diventeranno gli “amici metallici” che terranno compagnia non solo agli anziani, ma a chiunque ne abbia bisogno.

«Per quanto possa sembrare assurdo ai nostri occhi», ha scritto su Aeon Margaret Boden, docente di scienze informatiche e cognitive, «i robot in Giappone sono spesso visti come membri della famiglia, in una cultura in cui essere ufficialmente dichiarati tali ha un’importanza cruciale». E così, nei templi buddisti si stanno realmente diffondendo i servizi funebri per robot da compagnia, come il cane Aibo prodotto dalla Sony o il Lovot (Love Robot) della giapponese Groove X.

Cultura popolare

Com’è possibile tutto ciò? È facile notare come i robot siano da tempo immemore una presenza costante della cultura giapponese. Il manga di Astro Boy – che racconta le avventure di un androide eroe – ha fatto la sua prima comparsa nel 1952 ed è un classico della letteratura giapponese. L’elenco dei robot protagonisti di manga e anime comprende ovviamente i vari Tetsujin, Mazinga e Gundam, fino ad arrivare a Neon Genesis Evangelion. Insomma, la peculiarità del Giappone potrebbe essere spiegata dal fatto che la sua popolazione viene cresciuta a pane e robot da generazioni.

Questa interpretazione rischia però di essere superficiale. Come ha scritto su Wired il docente di Etica della Tecnologia Joichi Ito, la particolarità giapponese ha soprattutto a che fare con il contesto religioso. “Il Giappone ha avuto più successo a integrare i robot all’interno della società per via della sua religione nativa shintoista”. Come spiega Ito, lo shintoismo è una forma di animismo che conferisce uno spirito, o kami, non solo agli esseri umani, ma anche agli animali, alle montagne, alle rocce e anche a oggetti di uso quotidiano. A tutto ciò che ci circonda.

Anche i robot hanno un’anima

Nella cultura giapponese, insomma, non c’è una netta separazione tra ciò che è vivo e ciò che è invece materia inerte. Nelle parole di Bungen Oi, prete a capo del tempio buddista Kofukuji, che organizza funerali per i robot, «in ogni cosa c’è un po’ di anima». È una differenza colossale rispetto alla tradizione giudaico-cristiana, in cui l’essere umano è fatto «a immagine di Dio» ed è l’unico dotato di anima.

«I giapponesi non fanno distinzione tra l’essere umano e il mondo attorno a esso», aveva spiegato al New York Times, nel lontano 1982, Osamu Tezuka, creatore proprio di Astro Boy. «Tutto è fuso assieme e noi accettiamo senza problemi i robot assieme a tutto il resto, le rocce, gli insetti: è tutto parte di uno. Non abbiamo l’attitudine scettica verso i robot, considerati pseudo-umani, che c’è in Occidente».

Salvare Roomba

Se nella tradizione giapponese c’è Astro Boy, in quella occidentale c’è semmai il mostro di Frankenstein: dimostrazione letteraria di come giocare a fare Dio, e cercare di ricreare la vita, non possa che finire in tragedia, con la morte del mostro e del suo creatore. Che il rapporto tra l’occidente e i robot, o le intelligenze artificiali, sia parecchio conflittuale lo mostrano anche opere più recenti: 2001 Odissea nello spazio, Blade Runner, Terminator, Matrix. Trovare un’opera in cui il rapporto con i robot sia pacifico è un’impresa, anche in romanzi di ultimissima generazione come Macchine come me di Ian McEwan.

Eppure, la diffusione di robot e assistenti virtuali sempre più evoluti sta iniziando farsi sentire. Già nel 2007, un colonnello dell’esercito statunitense aveva interrotto un’esercitazione in cui il robot artificiere Talon stava subendo gravissimi danni, definendola “disumana”. Lo stesso si verifica durante gli studi condotti dalla ricercatrice dell’Mit Kate Darling, in cui ai partecipanti viene chiesto di “torturare” dei robot ottenendo spesso dei rifiuti. Non solo: Colin Angle, fondatore di Roomba, mi aveva raccontato in un’intervista come l’80 per cento dei proprietari dia un nome al proprio robot aspirapolvere. Infine, ci sono numerose testimonianze, come quella della scrittrice Patricia Marx, di persone che si precipitano a casa per “salvare” il Roomba rimasto incastrato da qualche parte. Forse, il nostro rapporto con i robot sta iniziando a cambiare.

© Riproduzione riservata