Chiara Ferragni la conoscete tutti. È una influencer di moda che grazie alla sua fama conquistata sui social ha costruito un piccolo impero economico: se in un post mostrava un abito o un articolo per il make-up, i suoi milioni di follower correvano a comprarlo. Poche settimane fa la scoperta. Si era lasciato intendere ai consumatori che acquistando un Balocco griffato Ferragni avrebbero contribuito a una donazione per l’Ospedale Regina Margherita di Torino, dove curano bambini malati di cancro. Non era vero: la Balocco aveva già fatto la donazione di 50mila euro mesi prima. Pare che Ferragni abbia ripetuto questo stesso comportamento dubbio in altre occasioni, e così la sua reputazione online è crollata.

Giovanna Pedretti era una signora di 59 anni, assieme al marito gestiva una pizzeria. Donna riservata e solitaria, dedita al lavoro, pare soffrisse ancora per la perdita del fratello, che qualche anno fa si era tolto la vita.

A inizio gennaio un anonimo cliente posta una rude recensione online: «Mi hanno messo a mangiare di fianco a dei gay, e a un ragazzo in carrozzina che mangiava con difficoltà. Mi spiace, ma non mi sono sentito a mio agio. Peccato perché la pizza era eccellente, ma non andrò più».

La signora Giovanna risponde seccata: «A fronte di queste bassezze umane e di pessimo gusto credo che il nostro locale non faccia per lei. Le chiedo gentilmente di non tornare da noi».

Sui social tutti la applaudono, molte testate e tv mostrano il suo post, la signora Giovanna diventa famosa. Solo che poi si scopre che forse quel cliente non esiste e la recensione è falsa, qualcuno ipotizza che l’abbia messa la stessa signora Giovanna per crearsi una reputazione di paladina dei più deboli. Sui social tanti la accusano di aver mentito, viene convocata dai carabinieri, passa una notte insonne e la mattina dopo, non riuscendo a sopportare la vergogna, la signora Giovanna si toglie la vita.

Vincent Plicchi è un ventitreenne di Bologna figlio di genitori separati, papà bolognese e mamma keniota. Timido e riservato, ama i tatuaggi e la musica, ha pochi amici cari, ma sui social si trasforma: su TikTok si fa chiamare Inquisitor Ghost, posta video in cui appare sempre con una maschera da teschio che gli copre il volto, un mantello nero addosso e in mano una spada laser, un travestimento ispirato al personaggio del gioco online Call of Duty, chiamato Ghost, che lui adora, e in breve tempo guadagna più di 100.000 follower. Una giovane TikToker che si fa chiamare Tequila, appassionata anche lei di Call of Duty, un bel giorno lo accusa pubblicamente online: «Inquisitor è un pedofilo, ci ha provato con me che sono minorenne», e mostra una chat in cui Inquisitor le ha scritto «Amore, ti sposerei».

Migliaia di follower cominciano a insultare Inquisitor Ghost, e pochi giorni dopo Vincent, devastato dalla vergogna, si suicida in diretta su TikTok. Però poi si scopre che le accuse erano false, era tutta una macchinazione ordita dalla giovane Tequila in combutta col suo fidanzato TikToker Tino, invidiosi della fama online di Vincent.

Lo studio di Cambridge e Londra

Sono tre casi di alter ego virtuali sui social, nei quali viene mostrata una immagine parziale di sé stessi. Quando la reputazione crolla, arriva la crisi.

Il fenomeno è noto. Esistono ormai centinaia di ricerche di psicologia e neuroscienze che analizzano questi processi, ma una delle più complete è lo studio “Il cervello online: come Internet sta cambiando la nostra cognizione”, opera di un gruppo di scienziati delle Università di Cambridge, Boston e Londra, guidati da Jerome Serra, dell’Università di Melbourne. Internet e i social sono la tecnologia che si è diffusa più rapidamente nella storia dell’umanità, e sta avendo profondi effetti sul modo in cui noi comunichiamo, stabiliamo relazioni e riceviamo informazioni, e sul nostro cervello.

Prima vivevamo in un mondo in cui ognuno di noi aveva 4 o 5 amici intimi e un centinaio di conoscenti, e se facevamo qualcosa le conseguenze dei nostri atti e il giudizio degli altri arrivavano con lentezza perché le relazioni erano più labili. Invece oggi i cellulari e i social hanno cambiato il mondo perché, scrivono gli autori: «Gli smartphone hanno introdotto il comportamento diffuso e abituale per cui ognuno di noi controlla continuamente e velocemente questo dispositivo per monitorare il flusso di informazioni che giungono dai notiziari, dai social, o dai nostri contatti personali. Questa nostra abitudine viene rinforzata dai continui “premi di informazione” che noi riceviamo immediatamente ogni volta che controlliamo il cellulare, e che attivano il sistema cortico-striatale dopaminergico. Questo rinforzo perpetua il nostro comportamento, che diventa compulsivo».

La dipendenza

Detto in parole semplici: ogni volta che controlliamo il nostro cellulare e vediamo che qualcuno ci ha messo un like, il sistema cortico-striatale dopaminergico del nostro cervello – che regola la nostra felicità e il nostro tono dell’umore: se funziona poco siamo depressi, se funziona tanto siamo felici e motivati – si attiva. Oltretutto, questo sistema ha una precisione matematica: 10 like sul nostro cervello hanno un effetto inferiore di 100, figurarsi poi quando diventano 100.000.

Chi ha un ego più debole e una vita reale meno soddisfacente può sviluppare una dipendenza totale dal flusso di like che riceve sui social, che diventano come una droga. I post sui social possono raggiungere migliaia o milioni di persone, una cosa ben diversa da quel che ci accadeva quando le nostre relazioni erano limitate al mondo reale e potevano diffondersi al massimo entro la cerchia dei nostri pochi conoscenti.

Se un infortunio turba o distrugge la nostra reputazione sui social, quelli di noi più deboli, che basano la loro integrità psichica soprattutto su quei “premi di informazione” che ricevono dai social, possono deprimersi o persino soccombere.

Scrivono gli scienziati: «Le nostre relazioni e il nostro senso di connessione sono determinanti fondamentali della nostra felicità, del nostro benessere mentale e fisico, e persino della nostra mortalità. Nel decennio passato la quantità di interazioni sociali che abbiamo online sui social è cresciuta drammaticamente, e la nostra connessione con questi siti si mescola con quella che abbiamo con il nostro mondo offline», cioè col mondo reale.

«Essere respinti online fa aumentare l’attività delle nostre aree cerebrali che, nel bambino e nell’adulto, sono legate al riconoscimento sociale e al rifiuto nel mondo reale (la corteccia prefrontale mediale).

Ma mentre l’accettazione e il rifiuto nel mondo reale sono spesso ambigui e aperti alla interpretazione che noi stessi diamo, le piattaforme dei social media quantificano direttamente il nostro successo o il nostro fallimento sociale, perché ne forniscono una misura chiara sotto forma di “amici”, “follower” e “like”, e la loro perdita o assenza può essere potenzialmente dolorosa».

La religione dei feedback

In altre parole, mentre prima nel mondo reale potevi pensare: “Vabbè mi odiano, ma forse mi sbaglio”, adesso i social non ti lasciano scampo perché puoi misurare in ogni istante e con estrema precisione a quanti piaci e quanti ti odiano. «Affidarsi ai feedback online per derivarne la propria autostima può avere effetti negativi specie sui giovani, e in particolare su quelli che hanno un basso benessere sociale ed emotivo, a causa dell’alta frequenza di cyberbullismo che fa aumentare l’ansia, la depressione, e l’isolamento sociale».

Poi, noi abbiamo l’abitudine di paragonarci agli altri per migliorarci, ma «questo processo cognitivo nell’ambiente artificiale e manipolato dei social, che mettono in vetrina individui di super-successo che espongono costantemente la faccia migliore di sé, o usano persino la manipolazione digitale delle immagini per aumentare la propria attrattività fisica», può essere pericoloso, creare aspettative irrealistiche su noi stessi, che se deluse, possono diventare addirittura letali.

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