Questa settimana è stato pubblicato uno studio che analizza l’impatto dell’intelligenza artificiale sul mercato del lavoro. I suoi autori hanno esaminato i cosiddetti “modelli pre-addestrati” della famiglia Gpt. Questi software imparano da un gran numero di dati a svolgere compiti che poi adattano a nuovi contesti. Tre dei quattro autori di questo studio sono dipendenti di OpenAi, l’azienda che negli ultimi mesi ha lanciato Dall-E 2, un sistema che genera immagini, e ovviamente ChatGpt, l’assistente virtuale che è diventato un fenomeno culturale.

Secondo lo studio, circa l’80 per cento della forza lavoro potrebbe essere esposta a questa innovazione, e per alcuni di loro il 50 per cento delle attività potrebbe cambiare radicalmente. Anche le persone con un alto livello di istruzione sarebbero colpite da questo fenomeno.

Il condizionale è d’obbligo, perché lo studio ha più limitazioni che risultati. Si basa su dati opachi, adotta una metodologia astrusa e, ciliegina sulla torta, usa un Gpt per analizzare gli effetti degli altri Gpt.

Il nuovo Frey & Osborne

Lo studio è più importante per la sua ambizione che per i risultati. Non c’è dubbio che l’articolo vorrebbe essere il “rapporto Frey & Osborne degli anni 2020”, dal nome dei due ricercatori di Oxford che nel 2013 avevano pubblicato un’analisi che prevedeva la distruzione del 47 per cento dei posti di lavoro entro il 2030. Si tratta di un lavoro molto citato e criticato dato che, malgrado una pandemia, una crisi geopolitica e un’emergenza climatica, le loro previsioni sono molto lontane dal realizzarsi.

Tanto l’articolo di 2013 che quello appena pubblicato da OpenAi riducono il lavoro umano a una serie di “task”. Come tutte le analisi riduzionistiche, vanno accolte con sana diffidenza. Dire che il lavoro di un’infermiera si riduce a 10 operazioni (assistere malati, riempire formulari, ecc.) e dire che alcune di esse potrebbero essere esposte all’uso di ChatGpt, non significa che l’infermiera sarà licenziata. Il suo lavoro cambierà.

Un’operazione di marketing

Forse con la scusa che la nuova tecnologia fa risparmiare tempo, i datori di lavoro troveranno nuovi modi per aggiungere mansioni ai dipendenti, mantenendo i salari reali al minimo. Nonostante visioni e paure riguardanti l’automazione, storicamente questo è ciò che è accaduto, con buona pace dei ricercatori di OpenAi.

Pubblicazioni come la loro sono strumenti di marketing che aiutano la loro azienda a farsi notare dai media. Ogni volta che OpenAi lancia un prodotto, nei telegiornali e sui social si scatena un dibattito sulle minacce che l’intelligenza artificiale rappresenta per giornalisti, illustratori, insegnanti. Guarda caso i lavori che potrebbero sparire sono proprio quelli che l’azienda americana vende come servizi: generazione di testi e immagini, formazione, ecc. Non sono i robot che stanno distruggono posti di lavoro. È OpenAi che sta distruggendo la concorrenza.

Fuori controllo

Ma purtroppo non è una buona notizia. Gli effetti di queste tecnologie sul lavoro ci sono eccome, ma sono altri. Per trovarli dobbiamo leggere la documentazione di Gpt-4, l’ultimo software di OpenAi. In un centinaio di pagine sono descritti i test con cui l’intelligenza artificiale è stata addestrata. Spesso i collaudatori hanno spinto Gpt-4 a compiere azioni pericolose o illegali, per insegnare all’intelligenza artificiale ad evitarle.

Ma durante i test, Gpt-4 è sfuggito ai suoi controllori, e ha tentato un attacco hacker su un sito. Quest’ultimo però era protetto da ReCaptcha, quei controlli che richiedono di dimostrare di non essere un robot risolvendo un puzzle. Purtroppo per lui, Gpt-4 è un robot. Per risolvere il puzzle, ha allora usato una piattaforma di lavoratori a cottimo, per ingaggiare qualcuno che risolvesse il ReCaptcha per lui.

Micro job

Ma i ReCaptcha non sono solo una protezione contro i cyberattacchi. Servono anche ad addestrare delle intelligenze artificiali. Quando ci chiedono di trascrivere delle parole, le usano per digitalizzare i libri di Google Books. Quando riconosciamo un semaforo, calibrano i sistemi di guida autonoma Waymo. Ciò solleva una domanda che dà le vertigini: Gpt-4 può essere utilizzato per reclutare lavoratori che a loro volta addestrino altre IA?

In realtà, sistemi più o meno automatici per ingaggiare cottimisti per addestrare gli algoritmi esistono da decenni. Amazon Mechanical Turk è un sito dove, per qualche centesimo, le aziende reclutano per meno di un quarto d’ora centinaia di migliaia di persone che generano dati, trascrivono testi, filtrano immagini. Altre piattaforme, come l’australiana Appen, danno lavoro a più di dieci milioni di persone. Si può davvero parlare di lavoro? Questi sono micro job con paghe da fame, che sono in larga parte effettuati da lavoratori di paesi in via di sviluppo.

La sostituzione

Per colmo di paradosso, la stessa OpenAi si serve di questi “schiavi del clic”. Pochi mesi dopo il lancio di ChatGpt, un’inchiesta della rivista Time ha rivelato che dei lavoratori kenyani venivano pagati meno di 2 dollari all’ora per addestrare l’IA. In altri documenti scoperti poco dopo, l’azienda americana affermava di aver fatto addestrare i suoi algoritmi da lavoratori nelle Filippine, in America Latina e in medio oriente.

Ecco rivelato il vero impatto sul lavoro dei software Gpt. L’intelligenza artificiale automatizza il processo di selezione, assunzione, e licenziamento di lavoratori precari. Non è il solito scenario da fantascienza in cui i robot sostituiscono gli esseri umani. Sono i dipendenti permanenti che sono sostituiti con dei cottimisti sottopagati assunti e licenziati sulle piattaforme digitali. Questa tendenza è già in corso, e società come OpenAi la intensificano.

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