Il livello attuale del mare lungo la costa atlantica dell’Africa è più alto di oltre 100 metri rispetto a 30mila anni fa. Il dato emerge da uno studio coordinato dal professor Matteo Vacchi del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Nature Communications.

La ricerca ha mostrato come il livello dell’Atlantico sia stato fortemente influenzato dai cambiamenti climatici e dalla fusione delle calotte glaciali. «Studiando le fluttuazioni avvenute negli ultimi 30mila anni – spiega Vacchi – potremmo affinare i modelli climatici e migliorare le previsioni sulle reazioni del sistema Terra rispetto ai cambiamenti attuali. Molte regioni costiere africane, comprese città densamente popolate e ambienti naturali sensibili, sono direttamente minacciate dall’innalzamento del livello del mare. Studi come questo aiutano a comprendere la vulnerabilità di queste aree e a sviluppare strategie di adattamento e mitigazione. Infatti, dalla fascia costiera i paesi dell’Africa occidentale ottengono circa il 56 per cento del prodotto interno lordo e ciò la rendono una risorsa economica e sociale chiave altamente vulnerabile ai cambiamenti del livello del mare causati dal clima».

La ricerca ha evidenziato tre fasi evolutive principali. Nell’epoca del massimo glaciale (circa 30.000 - 19.000 anni fa) il livello del mare era molto più basso rispetto a oggi, circa 99-104 metri in meno, principalmente per la grande quantità di acqua intrappolata nelle calotte glaciali. Nella successiva fase di deglaciazione (19.000 - 7.500 anni fa), con il riscaldamento globale e la fusione delle calotte, il mare ha iniziato a risalire sempre più rapidamente sino a raggiungere il livello attuale. Il trend è continuato nel corso dell’Olocene (7.500 anni fa - oggi): il mare ha continuato a salire, ma con un ritmo più moderato, fino a raggiungere un massimo tra 5.000 e 1.700 anni fa con valori che hanno superato anche il livello attuale per poi ridiscendere. Dopo questa fase, c’è stata una sostanziale stabilizzazione, fino al nuovo recente innalzamento dovuto al riscaldamento globale che ha riguardato gli ultimi 100 anni.

«Il nostro studio fornisce una ricostruzione dettagliata e senza precedenti delle variazioni del livello del mare lungo la costa atlantica dell’Africa dal massimo glaciale fino all’epoca moderna – dice Matteo Vacchi – si tratta di dati fondamentali per comprendere i trend attuali e prevedere le future variazioni del livello del mare con implicazioni molteplici che toccano diversi ambiti scientifici e applicativi. Nonostante l’intero continente africano contribuisca solo per il 4 per cento alle emissioni globali di gas serra, il cambiamento climatico avrà effetti molto significativi in Africa occidentale, dove il 31 per cento della popolazione e le principali infrastrutture sono concentrate nella zona costiera».

Il battito nascosto del pianeta

Due volte al giorno la Terra partecipa a una danza invisibile con la Luna e il Sole. La sua superficie si solleva e si abbassa leggermente, in un movimento impercettibile per noi, ma misurabile per la scienza. Questo fenomeno, noto come marea terrestre o marea solida, è causato dalle stesse forze gravitazionali che generano le maree negli oceani, ma con effetti molto più sottili sulla crosta terrestre. Mentre l’acqua degli oceani risponde in modo evidente all’attrazione lunare e solare, formando onde che si infrangono sulle coste, la litosfera — rigida e compatta — subisce una deformazione minima, di appena pochi millimetri. Tuttavia, in alcune strutture scientifiche d’avanguardia, questa oscillazione invisibile viene non solo rilevata, ma anche, per necessità, “corretta” in tempo reale.

Uno degli esempi più affascinanti è l’Advanced Photon Source (Aps), un sofisticato acceleratore di particelle presso l’Argonne National Laboratory negli Stati Uniti. Qui, un team di fisici guidato da Louis Emery ha misurato con estrema precisione gli effetti delle maree terrestri sulla gigantesca struttura dell’Aps, un anello di oltre un chilometro di circonferenza dove gli elettroni viaggiano quasi alla velocità della luce.

Quando la crosta terrestre si allunga e si comprime sotto l’effetto delle maree, ogni struttura costruita su di essa — edifici, alberi e persino l’acceleratore — si sposta leggermente. L’Aps, come per tutto il resto, subisce variazioni di diametro che possono raggiungere i 30 micron, circa lo spessore di un capello umano. Sebbene questa fluttuazione sia minuscola, ha implicazioni significative per il funzionamento del laboratorio. Il fascio di elettroni che circola nell’acceleratore infatti, non segue i movimenti fisici dell’anello. Quando la struttura si deforma, la traiettoria del raggio si disallinea, richiedendo correzioni per mantenere la stabilità dell’esperimento.

Per gestire questo fenomeno, l’APS utilizza un sistema di 500 monitor di posizione, che rilevano deviazioni con una precisione incredibile, fino a un micron. Grazie a un sofisticato sistema di feedback, questi sensori correggono continuamente il percorso degli elettroni. Le cavità a radiofrequenza distribuite lungo l’anello forniscono energia al raggio, compensando la naturale perdita di energia e sincronizzando il suo movimento con la lunghezza del perimetro dell’acceleratore. Tuttavia, quando l’anello si espande o si contrae sotto l’effetto delle maree, la frequenza deve adattarsi per evitare disallineamenti. Se ciò non avviene, il fascio introduce piccole oscillazioni nel suo percorso per mantenere costante il tempo di rivoluzione. L’Aps è in grado di apportare correzioni automatiche ogni secondo, garantendo che la qualità dei raggi X prodotti rimanga costante. È stato proprio studiando questi dati che, oltre 20 anni fa, Emery si è accorto di un curioso schema: ogni 12 ore il sistema modificava sistematicamente il fascio.

La sua intuizione? Le maree terrestri erano responsabili di questo fenomeno. Oltre alla marea solida, l’Aps registra anche le onde di compressione generate dai terremoti in qualsiasi parte del mondo. Proprio grazie a questo sistema, Emery riuscì a identificare un terremoto nei dati che stava analizzando. Ma la sensibilità dell’acceleratore non si ferma qui: durante l’allineamento Sole-Luna — come nelle fasi di luna piena o nuova — gli effetti mareali si amplificano, richiedendo aggiustamenti ancora più significativi.

Persino i cambiamenti stagionali influenzano l’anello: d’inverno la sua circonferenza può ridursi di circa un millimetro, una variazione minima ma rilevante. Ciò che rende straordinario l’Aps non è solo la sua funzione di acceleratore di particelle, ma la sua capacità di misurare, registrare e correggere anche i più piccoli movimenti della Terra. Più che una semplice infrastruttura scientifica, si è trasformato in un sensore planetario in miniatura, capace di rivelare i sottili effetti della gravità terrestre con una precisione sorprendente.

L’esempio di Marte

L’umanità guarda a Marte come la prossima frontiera da esplorare e, forse, da abitare. Nei prossimi decenni, missioni robotiche e con equipaggio cercheranno di capire se il pianeta rosso potrà un giorno ospitare insediamenti umani. Per riuscirci, serviranno materiali da costruzione, acqua, tecnologia avanzata e sistemi abitativi autosufficienti con supporto vitale biorigenerativo (Blss). In sostanza, i pionieri di Marte dovranno ricreare un ecosistema sostenibile, ma per questo dovranno portare con sé molto materiale da Terra. Ma l’ambizione va oltre i singoli insediamenti: si sogna di rendere Marte più simile alla Terra, un processo noto come terraformazione. A quel punto l’uomo potrà lavorare su Marte proprio come fa qui sulla Terra. Da oltre cinquant’anni, gli scienziati studiano come trasformare il pianeta e un recente studio propone un metodo innovativo: l’uso di aerosol nanometrici di grafene e alluminio per riscaldare l’atmosfera.

Secondo i ricercatori, le dinamiche atmosferiche marziane permetterebbero il riscaldamento mirato degli aerosol, che potrebbe rappresentare il primo passo concreto per la terraformazione. Il progetto è guidato dal professor Edwin Kite dell’Università di Chicago, con il contributo di esperti di istituzioni come il Mit, la Nasa e il Jet Propulsion Laboratory. I risultati dello studio sono stati presentati alla Lunar and Planetary Science Conference 2025 e propongono una strategia a tre fasi per la terraformazione:

- Riscaldare l’atmosfera, per fondere calotte polari e permafrost.

- Ispessire l’atmosfera, per aumentare la pressione e favorire condizioni più simili a quelle terrestri.

- Rilasciare gas serra, per amplificare il riscaldamento e mantenere una temperatura stabile.

Il processo si innescherebbe con il sublimarsi del ghiaccio secco dalle calotte polari, liberando grandi quantità di anidride carbonica, che contribuirebbe a un ulteriore riscaldamento. Secondo lo scienziato Robert Zubrin, questo potrebbe portare la pressione atmosferica a 300 millibar, circa il 30 per cento della pressione terrestre a livello del mare. In queste condizioni, gli esseri umani potrebbero camminare all’aperto senza tute pressurizzate, anche se sarebbero necessari abiti pesanti e ossigeno supplementare.

Negli anni, sono state avanzate numerose ipotesi per il primo passo della terraformazione: dalla dispersione di materiale scuro sulle calotte polari (Sagan, 1973) all’introduzione di clorofluorocarburi (CFC) e ammoniaca nell’atmosfera (Lovelock/Alleby, 1984). Alcuni hanno persino ipotizzato di importare gas da Venere o Titano, ma queste strategie richiederebbero enormi risorse e tecnologie avanzate. Gli aerosol, invece, potrebbero offrire una soluzione più semplice ed efficace. Il modello utilizzato dagli scienziati ha simulato il rilascio di nanodischi di grafene e nanobastoncini di alluminio, dimostrando che si diffonderebbero globalmente in un anno e ispessirebbero l’atmosfera superiore. In dieci anni, il riscaldamento potrebbe superare 35 gradi centigradi, sufficiente per iniziare la fusione ai poli e avviare il processo di trasformazione del pianeta.

Oltre ad aumentare la temperatura, il riscaldamento accelererebbe la circolazione atmosferica, raddoppiando la velocità dei venti di superficie e modificando le correnti d’aria tra equatore e poli. Il rilascio di aerosol dovrebbe essere continuo fino a quando l’atmosfera non avrà raggiunto una densità sufficiente a mantenere le temperature elevate. Seppur promettente, il piano presenta ancora sfide da superare: gli scienziati devono trovare il modo di prevenire l’agglomerazione degli aerosol e includere nel modello i complessi cicli dell’acqua di Marte. Tuttavia, questa strategia potrebbe rappresentare il primo passo concreto verso la terraformazione e avvicinarci al sogno di rendere Marte abitabile per le generazioni future.

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