In sintesi, è andata così: l’improvvisa moltiplicazione di piattaforme concorrenti a Netflix avvenuta a partire dal 2019 – con la nascita di AppleTV+, Disney+, Peacock, Paramount+, Discovery+, ecc. – ci aveva illuso di poter ottenere un’enorme quantità di serie tv e film a prezzi stracciati (Disney+ costava inizialmente 6,99 euro, AppleTv+ addirittura 4,99 euro).

L’avvento del Covid e dei lockdown, e la conseguente impennata nel numero di abbonamenti, aveva ulteriormente rafforzato la convinzione che il settore dell’intrattenimento cinematografico e televisivo stesse attraversando un cambio di paradigma. Per gli addetti ai lavori, tutto ciò sembrava un’opportunità da cogliere assolutamente al volo.

D’altra parte, il solo annuncio della nascita di Disney+, nel novembre 2019, aveva fatto salire le azioni di Disney del 50 per cento. Qualcosa di simile era avvenuto con Apple, le cui azioni erano aumentate del 35 per cento nei due mesi successivi al lancio, sempre nel novembre 2019, di AppleTv+.

Dal canto suo, Netflix aveva annunciato di aver conquistato 36,6 milioni di nuovi abbonati nel solo 2020, la maggior crescita di sempre.

Nei due anni successivi, le piattaforme hanno così iniziato non solo a moltiplicarsi, ma ad approvare spese folli senza minimamente preoccuparsi che i costi fossero coperti. In questa fase, gli azionisti non prestavano nessuna attenzione ai bilanci, ma soltanto al numero di abbonati.

Se Netflix e gli altri erano in grado di mostrare una crescita negli abbonamenti, allora cresceva anche il valore in borsa, indipendentemente da tutto il resto.

Per molti versi, si è trattato di un’allucinazione collettiva: media company tradizionali come NBCUniversal (proprietaria di Peacock) o Paramount si sono improvvisamente lanciate nel mondo dello streaming, abbandonando, o almeno trascurando, il modello di business che aveva fatto le loro fortune nella speranza che ce ne fosse all’orizzonte uno ancora più redditizio.

Un’allucinazione che, però, ci ha permesso di essere travolti da un’enorme quantità di serie tv di altissimo livello, talmente tante da rendere impossibile seguire tutte le nuove serie “imperdibili” di cui si sentiva parlare. È un periodo che ha rappresentato l’apice della cosiddetta “Peak TV” o “Prestige TV”: la fase, iniziata nei primi Duemila, in cui le serie tv hanno iniziato a far concorrenza dal punto di vista qualitativo al cinema.

Sono stati assoldati registi di grido come David Fincher, Paolo Sorrentino, le sorelle Wachowsky, Alex Garland e tantissimi altri. Abbiamo visto attori del calibro di Nicole Kidman, Kevin Spacey, Meryl Streep, Anthony Hopkins, Winona Ryder comparire sul piccolo schermo (qualcosa che quindici anni prima sarebbe stato impensabile). Abbiamo goduto di capolavori mainstream come Game of Thrones o di nicchia come Killing Eve.

Crescono i costi

Oltre alla qualità, sono saliti alle stelle i costi per la produzione di ogni singola puntata. Nell’epoca precedente, anche serie tv di successo come Law & Order costavano meno di due milioni di dollari a episodio. Marc DeBevoise, ex dirigente di Paramount, ha raccontato alla CNBC di non ricordare di aver mai dato il via libera a serie tv che avessero un budget superiore a dieci milioni di dollari a episodio, mentre la maggior parte delle altre “costavano molto, molto meno”.

Negli anni della febbre da streaming, i costi sono invece decuplicati. Le varie serie tv della Marvel uscite su Disney+ sono costate circa 25 milioni di dollari a puntata. The Crown o Stranger Things di Netflix sono arrivate anche a 30 milioni l’una.

Il seguito di Game of Thrones, ovvero House of the Dragon, costa circa 20 milioni per episodio. Il picco è stato probabilmente raggiunto da Amazon Prime Video, che ha notoriamente speso 465 milioni di dollari per produrre la prima stagione di The Rings of Power (tra l’altro senza ottenere successo né di pubblico né di critica).

Nonostante gli eccessi, per qualche tempo tutto è sembrato andare per il verso giusto: utenti contenti, critici soddisfatti, sceneggiatori fino a pochi giorni prima sconosciuti che si trovavano a gestire budget stratosferici e azioni alle stelle.

Peccato che fosse tutto troppo bello per essere vero: con il ritorno alla normalità pre-pandemica, i nodi hanno iniziato a venire al pettine. Il primo segnale è giunto nell’aprile 2022, quando Netflix ha annunciato di aver perso utenti per la prima volta nella sua storia, facendo crollare il titolo di oltre il 40 per cento in un solo mese.

Non potendo più lustrarsi gli occhi con grafici che mostravano un’inarrestabile crescita del numero di abbonamenti (e con la fine di un lungo ciclo di generalizzata euforia finanziaria), gli investitori hanno improvvisamente spostato le loro attenzioni su ciò che, teoricamente, avrebbe sempre dovuto attirarle: la sostenibilità economica delle piattaforme di streaming.

Da questo punto di vista, Netflix – nonostante le difficoltà del titolo in borsa, che oggi è comunque tornato quasi ai livelli massimi – è l’unica che può cantare vittoria: grazie ai tagli delle spese, alla stretta sulla condivisione delle password, all’aumento del prezzo degli abbonamenti e all’introduzione della pubblicità (in cambio di un abbonamento più economico), il colosso fondato da Reed Hastings ha potuto vantare nel 2023 guadagni per 5,4 miliardi di dollari.

Dalle altre parti, le cose non vanno così bene: nel corso del 2023, Warner Bros Discovery (proprietaria di Discovery+ e di Max) ha registrato perdite per 2,1 miliardi di dollari. Ancora peggiore la situazione di Peacock, in rosso per 2,8 miliardi (comunque meno dei tre miliardi attesi).

Persino un colosso come Disney+, forte di franchise come Marvel o Star Wars e dei suoi 150 milioni di abbonati, ha perso quasi 400 milioni di dollari nel solo ultimo trimestre del 2023. E così, sono partite le solite manovre: Disney ha licenziato migliaia di dipendenti, ha ridotto i costi per la produzione di serie tv e film (dai 30 miliardi del 2022 ai 25 del 2024) e, come avranno notato gli utenti, ha drasticamente aumentato il prezzo degli abbonamenti, che adesso arriva a costare anche 12 euro al mese (la metà con la pubblicità).

Pubblico vasto

È la strategia che si pensa seguiranno un po’ tutti: meno spese per le produzioni, migliaia di licenziamenti (annunciati anche da Warner Bros Discovery), pubblicità e prezzi più alti. Tutto ciò ha inevitabilmente ricadute anche sul servizio offerto: le serie cancellate dopo una sola stagione non si contano più (1899, American Gigolo, Paper Girls, Reboot, Shantaram e tantissime altre).

Altre sono invece state eliminate appena prima del debutto e senza troppi complimenti, tra cui l’attesissima serie fantascientifica Demimonde di J.J. Abrams (200 milioni di dollari di budget previsto). Per il futuro, la strada indicata dai colossi dello streaming sembra essere molto diversa da quella del passato: basta con le serie prestigiose e costosissime, che vincono premi e fanno parlare, ma sono apprezzate solo da una nicchia.

Via libera invece a serie meno costose, di livello inferiore, ma seguite da un pubblico generalista più vasto. «Il primo decennio dello streaming è stato paragonato alla New Hollywood degli anni Settanta, quando gli studios hanno brevemente ceduto il controllo a dei giovani hippy illuminati, che hanno creato alcune delle opere più importanti della storia di questo mezzo», scrive Vulture.

«Nel momento in cui le piattaforme si convertono alla disciplina finanziaria, è facile pensare che la prossima fase assomiglierà di più all’industria cinematografica degli anni Ottanta, quando la creatività fu soffocata».

Se le cose andranno effettivamente così, possiamo scordarci di vedere nuovi capolavori di originalità come Fleabag o Undone, opere coraggiose come Transparent, narrazioni importanti come Succession e tutto il meglio a cui ci siamo abituati durante l’era della Peak TV.

Il futuro probabilmente assomiglierà di più a serie mediocri ed economiche, ma di grande successo, come The Night Agent, che con un budget di soli 2 o 3 milioni di dollari a puntata è risultata una delle più viste di sempre su Netflix.

L’era delle serie tv di prestigio, apprezzate anche nei salotti più intellettuali, è probabilmente giunta al termine (almeno nei numeri degli ultimi anni). Potremo sempre consolarci guardando per l’ennesima volta le repliche dei Soprano.

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