Una donna decide di condividere foto scattate nell’intimità con una persona fidata, ma dall’altra parte del telefono l’interlocutore ne tradisce la fiducia, mettendo in moto un meccanismo che finisce per trasformare quel materiale così privato nell’oggetto del desiderio di decine di migliaia di uomini su internet.

I dati del fenomeno

È solo uno dei tanti volti del fenomeno che abbiamo imparato a conoscere come “revenge porn”, la diffusione non consensuale di materiale intimo che secondo un recente report pubblicato da PermessoNegato, associazione non-profit che si occupa di fornire supporto tecnologico alle vittime di violenza online, coinvolge sei milioni di utenti solo su Telegram, autori o complici di una violenza che di virtuale ha ben poco.

Dal 2019 la diffusione illecita di contenuti sessualmente espliciti è sanzionata in Italia con pene da uno a sei anni, riconoscimento giuridico della gravità di un fenomeno che solo nell’ultimo anno ha fatto scattare 718 denunce, l’82 per cento delle quali arrivate da vittime di sesso femminile. Eppure i numeri di questa violenza non accennano a calare e accanto ai dati ufficiali giace un mondo sommerso, fatto di vittime che non sempre sanno di esserlo o che pur sapendolo non riescono a denunciare, a causa di un clima che molto spesso preferisce colpevolizzare la vittima.

«Il revenge porn è al tempo stesso una violenza e una violazione, ma gli autori non lo percepiscono quasi mai» racconta Florencia Golanzalez Leone, psicologa e ricercatrice dell’Università Federico II di Napoli, che da aprile si occupa di revenge porn nell’ambito di un progetto europeo di contrasto alla violenza online. «Dalla voce dei nostri intervistati emerge quanto il revenge porn sia una modalità diversa di esprimere il ruolo della cultura patriarcale e degli stereotipi di genere, ancora oggi tramandati agli adolescenti. Possiamo ipotizzare che quello che spinge migliaia di uomini a gesti di questo tipo è che attraverso il revenge porn possono colpire e degradare la donna, riducendola a una condizione di mero oggetto».

Secondo PermessoNegato, i gruppi e canali Telegram italiani dedicati al revenge porn sono in tutto 89 e la loro utenza da maggio a oggi è quasi triplicata. Il gruppo più numeroso conta 997 mila utenti, account nella maggior parte dei casi anonimi, ma dietro i quali si celano persone in carne e ossa pronte a condividere online foto di ex partner, fidanzate, amiche e in alcuni casi persino delle proprie stesse figlie.

Il caso di Torino

Il fenomeno del revenge porn è tornato d’attualità dopo la denuncia di una maestra d’asilo in provincia di Torino, che ha perso il lavoro a causa di foto e video intimi diffusi da un uomo che aveva frequentato. In uno dei gruppi Telegram più attivi (65mila utenti e quasi trentamila messaggi giornalieri), il video dell’insegnante è stato esplicitamente richiesto circa 400 volte in otto giorni e sono diversi i filmati amatoriali pubblicati e a lei falsamenti attribuiti.

Nello scorso mese di febbraio lo stesso gruppo aveva provocato il licenziamento di una professionista bresciana vittima di revenge porn, riconosciuta da alcuni utenti della comunità online, che avevano poi tempestato di telefonate lo studio per cui lavorava. Il meccanismo è sempre lo stesso: i gruppi nascono su Telegram perché la piattaforma permette di gestire facilmente grandi comunità in cui si instaura una sorta di economia informale, dove il valore di un contenuto è dato dalla sua capacità di essere percepito come intimo e reale.

Una violenza antica

«La tecnologia non crea nulla di nuovo: al massimo fornisce uno spazio alla violenza per diffondersi e diventare più visibile» spiega Silvia Semenzin, ricercatrice in sociologia digitale all'Università Statale di Milano. «Il fatto che Telegram fornisca la possibilità di creare gruppi enormi o di nascondersi dietro a uno pseudo anonimato, permette ad alcuni gruppi di uomini di perpetrare la violenza di genere in maniera più sistematica, addirittura arrivando ad automatizzarla come nel caso dei bot».

Secondo Semenzin, che ha indagato il ruolo delle piattaforme online nel fenomeno, il problema va ben oltre Telegram e si inserisce in un contesto di violenza strutturale e sistematica contro le donne, che investe anche le piattaforme digitali: «Telegram lascia agli utenti l’onere di segnalare e controllare il materiale, cosa che invece non accade per il terrorismo e la pedopornografia. Trovo rilevante il fatto che la piattaforma non abbia ancora riconosciuto il problema della condivisione non consensuale di materiale intimo come sufficientemente preoccupante da effettuare maggiori controlli».

Per questo motivo la rimozione dei gruppi Telegram dedicati al revenge porn avviene quasi esclusivamente in seguito alla pubblicazione di materiale pedopornografico tema sul quale la piattaforma si è dimostrata particolarmente sensibile negli anni. Un problema più culturale che tecnologico che rende particolarmente stretta la strada per il legislatore, ma che al contempo ha stimolato la formazione di movimenti e associazioni nati per sensibilizzare l’opinione pubblica su quella che ancora oggi è una violenza sottovalutata.

Come sottolinea Giulia Olivieri, che insieme a quattro amici ha dato vita al movimento Nonseilibero: «Durante il lockdown abbiamo passato molto più tempo online e ciò ha inevitabilmente amplificato il fenomeno. Cosa puoi fare per raccontare un'ingiustizia quando non puoi superare i 200 metri del tuo isolato? Se il problema è digitale allora può esserlo anche la soluzione». Come molte associazioni nate durante l’emergenza, Nonseilibero utilizza i social media per stimolare un dibattito «sull'educazione sentimentale e digitale», che secondo Olivieri è la vera chiave per iniziare ad affrontare seriamente un problema che ad alcuni può sembrare solo virtuale, ma che ogni giorno produce conseguenze fin troppo reali.

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