Esiste un luogo sinistro, una specie di dark web di Facebook, che in tempi di Covid-19 ha risucchiato come un buco nero i nostri oggetti restituendoceli più malconci e disturbanti, più simili alle nostre menti provate dalla pandemia. Starete pensando a qualcosa di macabro e ingegnoso, alla Stephen King, invece non è altro che il Facebook marketplace: il piccolo e ordinario mondo di compravendita cui si accede semplicemente cliccando l’icona del negozietto sulla Home del social network.

È cominciata sottotono, con una logica lineare: una specie di ebay casalingo per vendere ai vicini di quartiere i propri oggetti che non servono più. E sarebbe in effetti simile a qualunque altro sito di vendita, se non fosse per questa specificità geografica così angusta e soprattutto per la qualità minima degli oggetti proposti. Una qualità che inesorabilmente, col procedere della pandemia, degradava in modo preoccupante. Scarpe sformate, soprammobili orrendi, divani assediati dai tarli. Cose che avevano perso sia l’estetica che la funzione, che galleggiavano nel feed come detriti di un tempo più produttivo ed equilibrato.

Metafora della pandemia

In questa discarica apatica e fatiscente, acquattata dietro l’angolo dei nostri post, solo un’icona più in là dei gruppi, si consuma la metafora perfetta di ciò che stiamo vivendo. Mentre il Covid cambiava irreversibilmente il nostro rapporto con i nostri corpi e con il pianeta, in sottofondo mutava anche il nostro rapporto con gli oggetti. In parallelo alla divisione dell’Italia in zone rosse e gialle e arancioni, nasceva sotto i nostri occhi un limbo virtuale di oggetti scoloriti e sfiniti: troppo vecchi per usarli ancora, troppo intimi per abbandonarli.

La vendita sembrava il tentativo di cederli, di farli conservare a qualcun altro, come nel bel romanzo di Ogawa Yoko L’anulare, dove un museo conserva proprio gli oggetti che la gente non ha il coraggio di tenere, in quanto legati a ricordi dolorosi, ma che si vuole siano conservati con cura da qualcuno.

Al netto delle ragioni economiche che hanno portato alcuni a vendere oggetti di reale valore, il marketplace pareva trasformarsi in un vaso di pandora di cose invendibili, che mano a mano che la pandemia andava avanti erano sempre più intimi e mostruosi. Così, nel confine tra perturbante freudiano e das Ding lacaniana — quella cosa che ha perduto funzione, che è divenuta cosa ottusa — dalle scarpe logore si è passati ad anelli di fidanzamento e diari mezzi usati. Oggetti, insomma, così privati che il loro smercio risulta simbolico, quasi provocatorio. Non mi riconosco più nella me di prima — sembra dire frignando la fede opaca fotografata male — nemmeno nel mio amore, e il diario in pelle grida: ecco la mia vita interiore, fatene ciò che volete, io sono troppo preoccupata da quella esteriore di disinfezione e distanze di sicurezza.

In tempi non sospetti, a Londra, ha aperto il museo delle relazioni spezzate. Ci ho trovato dentro calzini e biglietti della metro, coperte sdrucite, una lente di ingrandimento rigata («perché mi sentivo troppo piccola quand’ero con te», diceva la didascalia), insomma la stessa categoria di oggetti insignificanti e consunti che anni dopo sarebbe sbarcata come un’orrida marea nel Facebook marketplace. Come nel museo il significato era dato da un ricordo, un’informazione affettiva impressa virtualmente nell’oggetto, anche questi oggetti che oggi galleggiano nel nostro feed sono relitti di sentimenti, bug psicologici di una serenità minata dalla pandemia.

L’evoluzione

Così, quando dal primo lockdown si giungeva al secondo, passando per qualche mese di pseudo-tregua, anche gli oggetti di marketplace mutavano di nuovo: dagli anelli si passava alle pentole graffiate, dai diari ai libri rotti e pasticciati. In un tripudio di maglioni bucati e spille a pezzi, libri di scuola bruciati e Barbie senza testa, era una caduta libera dall’oggetto amato all’oggetto svuotato di ogni senso, un processo implacabile e orrorifico di de-significazione che mi ha ricordato, mentre osservavo sgomenta nelle lunghe giornate pandemiche, quanto profondamente i nostri oggetti raccontano la nostra psiche e il modo in cui il covid l’ha messa alla prova. Il lockdown non ha trasformato solo il concetto di casa, che da “porto sicuro”, dunque luogo a cui si approda, è diventato luogo in cui si resta, si ristagna: con noi — con le nostre paure e le nostre malinconie, i nostri tappetini yoga e le nostre pizze fatte in casa — ristagnavano anche gli oggetti. Come potevano non uscirne travisati e disanimati?

Il mio punto di vista privilegiato è dato dal trovarmi in Inghilterra, il luogo battezzato dal New York Times come «plague island» a causa dei dati Covid preoccupanti: manco a dirlo, gli oggetti messi in vendita qui e ora sono i più sinistri. C’è una quantità preoccupante di manichini. Deformi, disarticolati. Al contrario di quelli «sulfureamente amabili, nei loro sorrisi» di Sylvia Plath, questi appaiono ostili e serissimi. Poi valige sfondate, ferri di cavallo. Cappucci fetish in lattice e un buono per un massaggio piedi, venduti con un pennellino fucsia per spolverare i cellulari. Dildo a forma di T-rex. Mucchi di cose, indiscriminati. I mucchi, a dire il vero (o bundle, come dicono loro) vanno per la maggiore: liberarsi di tante cose insieme è catartico, ha un suo igiene che sfiora la magia. Così, i lubrificanti al caramello sono venduti con un corpetto vittoriano e un libro a scelta tra Cime Tempestose e Grandi speranze.

Il pupazzo enorme di Winnie The Pooh arriva con un’urna per le ceneri usata. Naturalmente non mancano le bambole, ma vengono vendute a duemila sterline l’una, e ovviamente non le compra nessuno: forse il prezzo altissimo nasconde una riluttanza a separarsi da oggetti che appaiono così umani, che assorbono sia nel gioco che nella silenziosa compagnia la nostra umanità. Ci sono anche zampe di pollo essiccate, in formato snack, e zampe di capra montate su spille antiche. Corna di cervo, telefoni pubblici anni cinquanta, intere camere da letto. Tre armadietti da palestra, rosso fragola, bucati da proiettili. Un braccialetto con scritto «Jenny» venduto con un adesivo per sollevare il seno. Un passeggino per gatti, con la didascalia «vendo solo perché ormai ho insegnato al mio gatto a camminare al guinzaglio e non ne ha più bisogno. Il mio bambino (cioè il gatto) lo adorava».

Pipistrelli ornamentali, troll norvegesi e cervelli in plastica. Insomma, una vera e propria Wunderkammer della pandemia. Il manichino più sinistro, un uomo muscoloso vestito di tutto punto, viene venduto con queste parole: «No perditempo. Offerte appropriate o lo rimetto in soffitta, dove ci divertiamo un sacco». Un grande dildo di legno è accompagnato da queste parole: «Mettete le mani su questo mattarello vibrante unico al mondo! Le sue vigorose vibrazioni vi assisteranno per addomesticare quei pezzi di carne così difficili da ammorbidire. Arnese culinario che vi farà da assistente personale. Pochi esemplari al mondo, dunque non sono disposto ad abbassare prezzo. Gratis a famiglia esemplare».

Per fortuna ci sono anche oggetti rassicuranti, che restituiscono un bagliore di umanità: il pupazzo spelacchiato con scritto «coniglietto anti-solitudine da lockdown. Si può personalizzare con dentro un messaggio registrato, per regalarlo a qualcuno che non potete vedere». Ma la cosa migliore, la metafora più limpida del nostro malessere, l’ho trovata ieri: una barbie incinta con dentro un feto, un portafazzoletti con gli occhi e un verme di gomma dall’aria disperata.

Sotto c’era scritto: «Cerco qualcuno per giocare con queste bambole strane. Le ho trovate in un buco. Ho troppa paura di giocarci da solo. Ma ci puoi giocare tu mentre io ti guardo. Sarai istruito sulla trama della storia e sul temperamento delle bambole. Gioco di media intensità. Usare le mani per giocarci, no guanti». Ora tocca a voi: vi invito a cliccare l’icona oscura. È proprio lì, sulla vostra Home, dietro i meme e i video di gattini: basta attraversare lo specchio.

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