Nella nostra epoca a occuparsi dell’emissione di denaro sono state quasi esclusivamente delle istituzioni pubbliche, a partire ovviamente dalle banche centrali. Non è sempre stato così: negli Stati Uniti, per esempio, fino al 1866 anche banche private, società di costruzioni o ferroviarie e addirittura ristoranti o chiese hanno emesso differenti formati di denaro.

Lo stesso è avvenuto in Australia fino al 1910, quando è stata introdotta una tassazione sfavorevole sulla moneta privata che ne ha di fatto interrotto l’utilizzo (vietato poi nel 1945).

Oggi questo conflitto si sta riproponendo grazie alle più recenti innovazioni digitali. «La nascita delle criptovalute ha di fatto riacceso la battaglia epocale tra l’emissione pubblica e privata di moneta», ha spiegato a Cnet il docente di Teoria Monetaria Gustav Peebles.

Non solo bitcoin, ether o dogecoin (i cui valori fluttuano sulle montagne russe delle criptovalute), ma anche e soprattutto “stablecoin” come Tether, Usd Coin o Dai: monete digitali anch’esse basate su blockchain ma dal valore fisso, garantito in vari modi (più o meno affidabili) e solitamente ancorate al dollaro. La diffusione delle criptovalute rappresenta per molti versi la prima vera minaccia contemporanea al monopolio statale della emissione di moneta.

A queste si aggiungono progetti aziendali come Libra di Facebook, che mirava a creare una moneta privata globale da distribuire ai suoi 2,7 miliardi di utenti (il progetto, in seguito alla ostilità proprio dei governi mondiali, è stato ribattezzato Novi ed enormemente ridotto nelle ambizioni).

La reazione delle banche

È anche per contrastare il moltiplicarsi di queste iniziative che sempre più banche centrali hanno iniziato a progettare le loro monete digitali: le central bank digital currencies (Cbdc). Nonostante le varie iniziative si trovino in fasi di sviluppo molto diverse, si calcola che nel mondo circa 80 nazioni stiano progettando le loro monete digitali statali. In oltre 20 stati (tra cui Cina, Corea del Sud, Nigeria e altri), le Cbdc sono già state lanciate o si trovano in fase pilota. Un’analisi condotta dalla società di consulenza Pwc mostra come l’88 per cento delle banche centrali che sta sperimentando le monete digitali utilizzi come infrastruttura tecnologica una derivazione della blockchain: il registro aperto e decentralizzato ideato nel 2008 – contestualmente ai bitcoin – dall’ignoto Satoshi Nakamoto.

Nel caso delle Cbdc, il termine blockchain non è però del tutto appropriato e si preferisce quindi parlare di Dlt (distributed ledger technology, tecnologia del registro distribuito). La differenza tra le due infrastrutture è tanto tecnica quanto di cruciale importanza: mentre chiunque può collegare il proprio computer alla blockchain aperta di Bitcoin o Ethereum ed entrare così a far parte di quella rete, solo le entità che hanno ricevuto esplicita autorizzazione possono invece collegarsi ai registri utilizzati dalle banche centrali per gestire la circolazione della moneta digitale.

Secondo la testata specializzata Coindesk, le Dlt più utilizzate per le monete digitali di stato sono basate sul codice di Hyperledger Fabric, un registro distribuito open source ospitato dalla Linux Foundation. Queste piattaforme private, che richiedono l’autorizzazione all’accesso, permettono così alle banche centrali di utilizzare i registri distribuiti senza rinunciare al completo controllo sull’emissione di denaro e sulle politiche monetarie.

Che utilizzino la blockchain, un registro distribuito privato o magari un tradizionale database, una cosa accomuna tutte le monete digitali statali: potenzialmente possono eliminare dai giochi quello che è sempre stato il classico intermediario tra banche centrali e i cittadini: gli istituti di credito privati. Le Cbdc possono infatti aggirare il sistema bancario tradizionale, consentendo al denaro emesso e custodito dalle banche centrali di raggiungere direttamente i cittadini attraverso, per esempio, un’apposita applicazione per smartphone. «Questo aspetto modifica radicalmente la classica struttura piramidale», spiega ancora Peebles. «Tradizionalmente, le banche centrali non hanno mai svolto un ruolo simile nei confronti del cittadino medio, con cui interagivano invece le banche private».

Il conto corrente obsoleto

Un cambiamento di questo tipo sarebbe sicuramente destabilizzante: nel momento in cui diventa possibile effettuare i pagamenti quotidiani attraverso un’applicazione o un portale gestiti direttamente dalla banca centrale vengono meno molte delle ragioni per aprire un tradizionale conto corrente bancario. Le banche, di conseguenza, potrebbero dover tornare a svolgere soltanto la loro funzione originaria: prestare soldi.

Se questo aspetto rappresenta una minaccia per le banche, potrebbe però essere un’opportunità per quei miliardi di persone che, nel mondo, non hanno un conto bancario. E non si tratta solo dei paesi economicamente meno avanzati: secondo le stime del Global Findex, in Italia circa 7 milioni di persone adulte sono prive di un conto corrente: il 13,8 per cento della popolazione over 18. Nell’Unione europea, in totale, sono poco meno di 40 milioni gli “unbanked”: spesso persone appartenenti alle fasce più marginali della società.

Attraverso i Cbdc anche chi non ha un conto in banca potrebbe ricevere automaticamente, per esempio, i rimborsi fiscali, le agevolazioni o i bonus di vario tipo; magari senza doverne nemmeno fare richiesta. Ma è proprio la trasparenza e la tracciabilità totale di questa forma di denaro a sollevare gli inevitabili problemi in termini di privacy. Oggi il contante rappresenta una forma di pagamento assolutamente anonima e non tracciabile. Ciò non è solo causa nefasta dei pagamenti in nero, ma offre anche la possibilità di evitare che il governo sappia tutto di noi: comprese attività magari legali o situate in zone grigie che preferiremmo mantenere riservate. Il timore, insomma, è che – in una radicale giravolta rispetto a una delle ragioni alla base della nascita delle criptovalute – le monete digitali di stato possano diventare un potentissimo strumento di sorveglianza governativa.

Quello che però nelle democrazie liberali può essere considerato un pericolo, altrove nel mondo è giudicato un evidente vantaggio. La Cina ha iniziato a lavorare al suo yuan digitale già nel 2014, intuendo rapidamente i molteplici aspetti positivi di uno strumento di questo tipo. Oggi in Cina il contante sta già rapidamente scomparendo a favore di strumenti finanziari digitali come Alipay (di Alibaba, 900 milioni di utenti) e WeChat Pay (di Tencent, 850 milioni). Ma per quanto il governo cinese abbia sempre la possibilità di richiedere a questi colossi i dati sugli utenti, il meccanismo è in realtà meno semplice di quanto potremmo immaginare: «Il governo fa fatica a ottenere questi dati dalle società private. È anche per questo che c’è stato il recente giro di vite sui colossi del fintech», ha spiegato a Wired UK Yaya Fanusie, ex analista della Cia che ha studiato da vicino lo yuan digitale.

Sorveglianza

Utilizzare direttamente lo yuan digitale, senza intermediari privati, porta in dote al governo tutti i dati di cui ha bisogno, garantendo una sorveglianza ancora più stretta sulla cittadinanza, un’integrazione totale con il social credit score (la piattaforma, ancora in rampa di lancio, che in futuro dovrebbe fornire una sorta di pagella digitale del buon cittadino) e permettendo alla superpotenza orientale di diventare una nazione sempre più “data driven”, gestita sulla base dell’analisi dei dati.

Si è addirittura ipotizzato che lo yuan digitale possa incentivare i consumi, per esempio facendo gradualmente calare il valore dei risparmi conservati per troppo tempo o premiando con sconti automatici chi spende rapidamente il suo denaro. Attraverso lo yuan digitale, la Cina potrebbe però guardare anche oltre i suoi confini e provare a mettere a segno un colpo le cui conseguenze sarebbero indecifrabili: fare concorrenza al dollaro come valuta di riserva globale e destabilizzare così la dominazione finanziaria statunitense.

Tra tutte le nazioni, la Repubblica popolare è nettamente la più avanti nello sviluppo di questo tipo di strumento: in varie città, tra cui Shenzhen e Xiong’an (dintorni di Pechino), si sono svolti nel corso del 2021 programmi pilota con la collaborazione di varie realtà commerciali: JD.com (il più grande portale di e-commerce), Didi (la Uber cinese), Meituan Diaping (società di food delivery) e parecchi altri ancora. In una di queste sperimentazioni sono stati selezionati 50mila cittadini volontari, che hanno ricevuto nel loro portafoglio elettronico la somma iniziale di 200 yuan digitali (meno di 30 euro), da usare anche nei negozi fisici attraverso il classico codice QR.

Da giugno a oggi, i vari esperimenti cinesi hanno generato transazioni dal valore complessivo di 4,5 miliardi di euro: lo yuan digitale sembra sul punto di fare la sua entrata in scena ufficiale. Ancora non ci sono notizie certe, ma le indiscrezioni puntano sulle prossime Olimpiadi Invernali di Pechino – che si terranno nel febbraio 2022 – per il grande annuncio.

Alcune realtà più piccole si trovano perfino più avanti del gigante cinese: le Bahamas hanno ufficialmente introdotto il loro Sand digitale già nell’ottobre 2020, mentre la Nigeria (la più importante economia africana) ha lanciato il suo e-Naira il 25 ottobre scorso. Le nazioni caraibiche di Grenada, Santa Lucia, Saint Kitts e Nevis, Antigua e Barbuda – riunite sotto la Eastern Caribbean Central Bank – hanno invece inaugurato il DCash nel marzo 2021.

«Per i mercati emergenti e le economie in via di sviluppo, alcune delle principali motivazioni per il lancio o la sperimentazione delle Cbdc sono l’inclusione finanziaria di chi non possiede un conto in banca, una maggiore efficienza dei sistemi, la riduzione del rischio di portare con sé denaro contante e la lotta alle attività illecite (evasione fiscale, mercato nero, riciclaggio, corruzione)», segnala ancora Coindesk.

Cosa fa l’Europa?

Sarebbe però un errore pensare alle monete digitali solo come a uno strumento di sorveglianza per la Cina e a un azzardo corso da nazioni in via di sviluppo. Secondo le stime dell’Atlantic Council GeoEconomics Center, nel mondo sono 79 le nazioni che stanno lavorando a progetti di questo tipo, di cui 39 concretamente in fase di sviluppo o che stanno già affrontando il programma pilota. Tra questi ultimi, ci sono economie avanzate come la Corea del Sud, Singapore e anche Sudafrica, Malesia, Arabia Saudita, Emirati Arabi.

E l’Europa, in tutto questo? Lentamente, ma le cose procedono anche da noi. Nel novembre scorso, la Banca d’Inghilterra ha affermato di essere intenzionata a proseguire la fase esplorativa per la creazione di una sterlina digitale (temporaneamente soprannominata “Britcoin”), che però non entrerà in vigore prima del 2025. Ancora più lenta è la Svezia: nonostante sia attiva nella progettazione della sua corona digitale da almeno 4 anni – e abbia già lanciato un programma pilota – la banca centrale ha affermato che il lancio definitivo non è previsto prima del 2026.

Nello stesso anno potrebbe arrivare anche l’euro digitale, di cui al momento si sa soltanto che la Banca centrale europea lo sta ufficialmente studiando: il 14 luglio 2021 è stata avviata una «fase di analisi del progetto digitale che avrà una durata di 24 mesi», si legge sul sito ufficiale della Bce. «Abbiamo deciso di cambiare passo e di avviare il progetto per un euro digitale», aveva dichiarato al tempo la presidente della Bce Christine Lagarde. «Il nostro lavoro ha l’obiettivo di assicurare che nell’era digitale i cittadini e le imprese continuino ad avere accesso alla forma di moneta più sicura, la moneta di banca centrale».

Quest’utima affermazione sembra essere un diretto riferimento alle (poco sicure) criptovalute, un tema che è stato recentemente affrontato anche da Fabio Panetta, membro del comitato esecutivo della Bce, che in una recente conferenza ha affermato: «L’euro digitale non ha nulla a che vedere con criptovalute come i bitcoin. Poiché è emesso dalla banca centrale, il suo valore è garantito dagli stati, mentre le criptovalute non sono emesse da nessuna entità affidabile (...) e vengono scambiate da operatori il cui solo obiettivo è quello di venderle a un prezzo più elevato. Il loro valore complessivo sta crescendo rapidamente e al momento ha raggiunto 2.500 miliardi di dollari. Si tratta di una cifra notevole che potrebbe potenzialmente generare rischi in termini di stabilità finanziaria che non vanno sottovalutati. Questa cifra è per esempio superiore al valore dei mutui subprime che hanno innescato la crisi finanziaria globale del 2007-2008».

Dollaro digitale

È evidente, quindi, come sia stata proprio la nascita delle criptovalute – che ironicamente sono frutto della scarsa fiducia verso le istituzioni finanziarie tradizionali generata proprio dalla crisi del 2007 – ad aver costretto le banche centrali di tutto il mondo ad accelerare i processi di digitalizzazione. Tra queste, c’è infine anche la statunitense Fed, che a breve dovrebbe pubblicare un primo report esplorativo sul dollaro digitale. Probabilmente anche vista la posizione dominante a livello monetario globale, la banca centrale a stelle e strisce si sta muovendo con inaspettata cautela per una nazione come gli Stati Uniti: «Considereremo l’effettivo sviluppo del dollaro digitale solo qualora individuassimo chiari e tangibili benefici dal peso maggiore rispetto ai rischi e ai costi. È più importante che tutto ciò venga fatto per bene piuttosto che in fretta», ha affermato il presidente della Fed Jerome Powell nel settembre scorso.

La situazione, quindi, sta evolvendo anche tra le grandi economie occidentali, seppur molto più a rilento. Ed è anche chiaro che, al momento, nessuno sa esattamente che forma prenderanno le varie monete digitali in rampa di lancio, se verranno risolte le numerose criticità, se garantiranno i benefici promessi o se magari, chissà, alla fine avrà la meglio il folle progetto delle criptovalute vere e proprie. Una sola cosa è certa: nell’immediato futuro della nostra epoca digitale, le banche centrali potrebbero smettere di stampare del denaro di carta e di acciaio che appare sempre più anacronistico.

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