Il corpo dell’atleta è una miniera. Un deposito di valori da captare, da estrarre, per essere convertiti in una utilità di tipo diverso, soltanto parzialmente a beneficio di chi quel corpo lo porta in giro.

Il suo statuto è mutato in parallelo al mutamento del regime di produzione che ha condotto dal capitalismo delle cose materiali al capitalismo delle cose immateriali. Nella fase storica precedente, ispirata dalla logica prestazionale dell’industrialismo manifatturiero, il corpo dell’atleta era inquadrato come una macchina da performance.

A guidarlo erano gli imperativi dell’efficienza prestazionale, della fitness, intesa nella sua accezione darwiniana di adeguatezza alla prova. Nella fase attuale, ispirata da un industrialismo delle produzioni immateriali, il corpo dell’atleta viene inquadrato invece come un deposito di informazioni da processare, attraverso il filtro di tecniche sempre più raffinate, capaci di operazioni combinatorie estremamente complesse.

A unire le due epoche è l’idea che il corpo dell’atleta, in virtù della sua eccellenza prestazionale oltreché estetica, sia un oggetto privilegiato per l’osservazione del rapporto fra dimensione individuale e società.

A contenderselo, nella fase precedente erano non soltanto gli attori del sistema sportivo, ma anche il sistema produttivo della comunicazione e dell’immagine, che sulle qualità della macchina umana da prestazione costruisce da sempre una parte rilevante del proprie strategie.

Ciò che segna uno scarto rispetto a quella fase è il passaggio da un principio produttivo (l’espressione di performance) a un principio estrattivo (l’acquisizione di dati sempre più minuziosi e intimi), a cui è interessata l’industria dei Big Data, incaricata del compito di estrarre, analizzare, sistematizzare e redistribuire (anche in senso commerciale) la massa di informazioni ricavate. Si tratterebbe di sfruttamento, ma guai a dirlo in modo così netto.

Atleti digitali

Il tema dello sfruttamento nello sport professionistico è pressoché un tabù. Il pregiudizio che porta a inquadrare l’atleta come un soggetto privilegiato e strapagato non tiene conto che quest’immagine riguarda un’élite molto ristretta, per di più concentrata in alcune discipline sportive.

Quando all’inizio degli anni Ottanta il sociologo canadese Bob Beamish parlava di sfruttamento capitalistico nello sport iper-professionistico nord-americano, i commenti erano indignati o ironici, senza che qualcuno si sforzasse di prendere sul serio l’analisi.

Un’analisi che invece guardava a una logica produttiva della performance d’alta competizione e dello spettacolo sportivo di cui avremmo fatto esperienza negli anni a seguire anche in Europa. Una logica secondo la quale, proprio perché gli atleti sono strapagati, è giusto chiedere loro ritmi di impegno sempre più massacranti, anche in condizioni fisico-ambientali da fachiri.

Rispetto a tutto ciò, l’avvento dei Big Data nello sport comporta un lato oscuro non ancora sufficientemente esplicitato. Ufficialmente la datificazione dell’atleta e della sua macchina corporea serve a scopi di cui proprio l’atleta dovrebbe essere beneficiario.

Innanzitutto, il miglioramento della performance, l’ottimizzazione, grazie all’intervento su quei segmenti in cui si ha una dispersione o una inefficienza. Ma un altro aspetto di assoluto pregio riguarda il monitoraggio dello stato di salute fisica, con il rischio di infortuni da sovraccarico.

Su quest’ultimo aspetto si sofferma per esempio l’ambizioso programma della National Football League (Nfl) in collaborazione con Amazon Web Service. Si chiama Digital Athlete e ha come principale obiettivo il monitoraggio del rischio infortuni in una disciplina falcidiata dal rischio di concussion (commozione cerebrale).

La riduzione del rischio è l’utilità dichiarata nella home page del programma, sul sito della Nfl. Eppure, questo scopo indiscutibilmente meritorio porta con sé qualcosa di controverso, riportando la mente alle parole che nel film L’ultimo boyscout (1991) venivano fatte pronunciare a Jimmy Dix, l’ex giocatore di football caduto.

Dix rifletteva sul fatto che il football fosse (allora) il solo sport in cui venivano tenute statistiche anche sugli infortuni. Motivo: ridurne drasticamente il potere contrattuale rispetto ai datori di lavoro. I dati sul corpo usati contro il soggetto che ne è portatore. Si può immaginare allora che i dati sulla propensione all’infortunio siano usati anche in questa direzione?

Chiamalo sonno

La nuova frontiera è il monitoraggio del sonno. Fra tutti i lavoratori, il professionista dello sport d’alta competizione è l’unico per il quale la disciplina professionale coincide giocoforza con la disciplina di vita. Che significa vita sociale, alimentazione, riposo.

Il sonno dell’atleta viene tracciato per ricavare dati utili al reintegro delle energie, di conseguenza al miglioramento della prestazione. Si tratta di un’altra invasione nella sfera personale e corporea.

Ancora una volta, il fine salutistico e d’incremento performativo viaggia in parallelo a una funzione di controllo. Come la mettiamo con le esigenze di privacy, se nello spettro vitale dell’atleta non c’è più nemmeno la fase del riposo come ultimo rifugio? Di questo passo rimarrebbe da monitorarne soltanto l’attività sessuale.

Non sembri una provocazione, poiché sarà inevitabile che anche su quel versante la scienza dei dati potrà esibire l’arsenale delle buone intenzioni e il principio di razionalizzazione delle pratiche in vista della migliore prestazione agonistica. Ma in ultima analisi, ecco che si torna al tema dell’estrazione dei dati dalla dimensione corporea dell’atleta, dati di cui l’atleta stesso è il beneficiario minore.

Perché una volta estratti e trattati verranno messi a disposizione delle società sportive, dei laboratori per lo sviluppo della prestazione, dell’industria farmacologica, delle aziende che producono materiale per la prestazione fisico agonistica, e in generale di tutto un circuito che porta il segno del ferreo biopolitico sul corpo dell’atleta. Costui dona dati come donerebbe sangue, con benefici molto relativi. Sarà mica il caso di aprire un dibattito?

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