Delle tante etichette che circondano il mondo delle tecnologie digitali, il termine “smart city” è probabilmente quello dai contorni più vaghi. Che cosa caratterizza una città intelligente? Come la si costruisce? Qual è lo scopo?

Partiamo dalle basi, secondo Joe So, cto di Huawei industry solutions (una delle società più attive in questo settore), una smart city è paragonabile a un corpo vivente: il sistema nervoso è costituito dalle centinaia di migliaia di sensori che ovunque raccolgono dati di ogni tipo – relativi a traffico, illuminazione, rifiuti, meteo, guasti e quant’altro –, mentre il cervello è rappresentato dalla centrale di comando che analizza i dati e li sfrutta per pianificare al meglio gli interventi o per anticipare imminenti problemi.

Come segnala Francesco Nasi su Pandora Rivista, la smart city è un’organizzazione a quattro livelli: «Uno strato di rilevamento che genera dati, uno strato di rete che sposta i dati dove possono essere elaborati, uno strato intermedio che li elabora e li rende pronti per l’utilizzo e, infine, un livello di applicazione che fornisce servizi intelligenti».

Ma quali sono i servizi intelligenti resi possibili dai big data? L’esempio classico è quello del traffico: i dati raccolti a un incrocio stradale possono potenzialmente segnalare a un cervellone centrale la presenza di un ingorgo, innescando la decisione automatizzata di modificare l’andamento dei semafori attivi in quell’area per favorire lo smaltimento dell’ingorgo.

L’origine del termine

Altri protagonisti della narrazione sulle smart city sono i bidoni dell’immondizia che segnalano in autonomia quando è necessario svuotarli (permettendo di ottimizzare gli interventi della nettezza urbana), i lampioni che segnalano da soli il loro malfunzionamento, i parchi irrigati in base alle previsioni meteorologiche, i parcheggi che comunicano al nostro smartphone dove si trova il posto libero più vicino e le applicazioni che ci consentono di segnalare all’amministrazione comunale le buche stradali o gli atti di vandalismo, creando così una heat map (mappa di calore) cittadina per avere sempre la situazione sotto controllo.

Esempi non più così futuristici, visto che si sentono ripetere da oltre dieci anni. Per la precisione, da quando nel 2010 Ibm ha lanciato la Smarter cities challenge, tramite la quale prometteva di dotare di nuove tecnologie, del valore di svariati milioni di dollari, le città che avessero dimostrato la volontà di aggiornare digitalmente le loro infrastrutture.

Oltre a tenere a battesimo il termine smart city, Ibm ha inaugurato quel sistema di partnership pubblico-privato che oggi caratterizza buona parte delle innovazioni pensate per le metropoli e in cui molti critici – come il sociologo Evgenij Morozov – vedono una cessione ai privati di servizi da sempre appannaggio del settore pubblico (a partire dal trasporto).

La tecno-utopia di Songdo

E quindi, oggi quali sono le più avanguardistiche smart city? L’esempio più celebre è rappresentato dalla città sudcoreana di Songdo: una tecno-utopia – ancora in fase di costruzione nel nord-ovest del paese – in cui tutti gli edifici sono forniti di accesso computerizzato e controllo automatico del clima.

In cui le strade, i rifiuti, la rete elettrica e l’acquedotto sono dotati di sensori che raccolgono dati, a loro volta analizzati dal cervello elettronico – lo U-city operation center – che gestisce la città e ha il compito di tracciare tutto ciò che qui avviene.

Un luogo forse fantascientifico ma sicuramente non attraente, visto che – stando agli ultimi dati disponibili – Songdo è ancora molto lontana dal raggiungere la meta prefissata di 65mila abitanti.

Non solo: Carlo Ratti, architetto e direttore del Senseable City Lab del Mit, l’ha definita «non tanto una città quanto una gigantesca operazione di sviluppo immobiliare. Songdo è un luogo sterile, dove ogni aspetto della vita sembra programmato».

Non una città a misura d’essere umano, dove le auto diminuiscono, gli spazi pedonali aumentano e le interazioni tra persone tornano protagoniste, ma un luogo hi-tech e freddo, dove la tecnologia non aiuta ma sostituisce la presenza umana.

Le città occidentali sono al contrario oggetto di singoli interventi episodici, più che di una digitalizzazione strutturale. È il caso per esempio dei cassonetti Bigbelly (attivi a New York e non solo), in grado di compattare la spazzatura e di segnalare autonomamente quando è il momento di svuotarli, o dell’applicazione Smart parking, un progetto sperimentale dell’università di Modena e Reggio Emilia che, sfruttando i sensori, consente ai cittadini di conoscere in tempo reale dove si trovano i posti liberi, di prenotarli in anticipo e di pagare direttamente da smartphone.

E poi ovviamente c’è l’aspetto della mobilità, radicalmente trasformata negli ultimi anni grazie alle piattaforme digitali, che hanno reso possibile l’invasione di bike sharing, car sharing e dei monopattini in condivisione.

Videocamere smart

Se però vogliamo cercare il vero protagonista delle smart city dobbiamo guardare alle uniche innovazioni digitali che si stanno diffondendo nelle metropoli ai quattro angoli del globo: le tecnologie per la sorveglianza.

In Europa, il caso più lampante è forse quello di piazza della Repubblica a Belgrado: una delle zone maggiormente frequentate della capitale serba, cuore pulsante delle attività sociali e culturali e che da qualche tempo è costantemente sotto l’osservazione di un sistema di videocamere installate dalla cinese Huawei. Videocamere smart che hanno non solo la capacità di riprendere ciò che avviene sotto il loro sguardo, ma potenzialmente anche di riconoscere i volti delle persone, di identificare i numeri di targa delle automobili e segnalare alle forze dell’ordine se alcune delle attività che si stanno svolgendo sono potenzialmente pericolose (nonostante gli allarmi lanciati dagli attivisti, l’amministrazione ha negato che queste funzioni siano già in uso).

È solo il primo passo, visto che – secondo quanto riporta il Financial Times – l’obiettivo dell’amministrazione comunale è disseminare 8mila videocamere smart in tutta Belgrado, sottoponendo l’intera cittadinanza a una sorveglianza di massa.

Sperimentazioni simili sono state compiute anche a Londra, Nizza, Berlino, Budapest e altri grandi città europee. In Italia, alcune iniziative – come le videocamere dotate di riconoscimento facciale di Como e il sistema di monitoraggio Sari real time (utilizzato dal ministero degli Interni) – sono state invece bloccate dal Garante per la privacy, che ha segnalato i pericoli legati alla potenziale sorveglianza di massa. Sempre in Italia, lo scorso 2 dicembre il parlamento ha vietato – parzialmente e fino al 2023 – l’installazione di videocamere dotate di riconoscimento facciale.

Che il proliferare di sistemi digitali di sorveglianza presenti gravi rischi lo ha riconosciuto anche la Commissione europea, che nella sua recente «proposta di regolamento per un’intelligenza artificiale affidabile» ha classificato i software di identificazione biometrica (tra cui il riconoscimento facciale) come «strumenti ad alto rischio».

Il citofono smart

Nonostante le richieste giunte dalla società civile, la Commissione europea non è però arrivata a proporre il completo divieto di questi strumenti nei luoghi pubblici da parte delle forze dell’ordine, prevedendo una serie di eccezioni – la ricerca di potenziali vittime di un crimine, la prevenzione da minacce sostanziali o imminenti e le indagini contro sospetti colpevoli – talmente vaghe da rischiare di dare il definitivo via libera all’uso di questo strumenti, invece di limitarlo rigidamente.

Ancora diverso è il caso di Ring, il citofono smart di Amazon (già produttrice del sistema di riconoscimento facciale Rekognition). Nonostante nasca per consentirci di vedere, tramite smartphone, chi sta suonando alla nostra porta anche quando non siamo in casa, questo dispositivo si è rapidamente trasformato in uno strumento di sorveglianza di massa.

Amazon ha infatti stretto accordi con le forze dell’ordine di 400 città negli Stati Uniti e nel Regno Unito per distribuire gratuitamente, o con forti sconti, queste videocamere agli abitanti dei quartieri, a partire da – come si legge sul sito della polizia metropolitana di Londra – «soggetti vulnerabili o vittima di ripetuti furti».

Amazon – secondo quanto riporta Jathan Sadowski, autore del saggio Too Smart – guadagna dagli abbonamenti per l’archiviazione sul cloud dei dati raccolti dalle videocamere di Ring, i cittadini ricevono gratuitamente o quasi un dispositivo digitale di ultima generazione e le forze dell’ordine ottengono la possibilità di richiedere agli utenti qualunque video sia stato ripreso da una videocamere di Amazon.

Un network di sorveglianza messo a disposizione della polizia direttamente dai cittadini, che possono a loro volta segnalare attività sospette riprese dal loro citofono (pubblicabili inoltre sulla app Neighbors by Ring e che finiscono regolarmente sui vari gruppi di “controllo del vicinato” che proliferano su Facebook).

Risultato? Per fare solo un esempio, recentemente un agente immobiliare di colore è stato fermato dalla polizia, che aveva ricevuto – secondo quanto riportato dalla Electronic frontier foundation – una segnalazione di atteggiamenti sospetti dopo che l’uomo aveva suonato il campanello dell’abitazione, in quel momento vuota. È anche così, attraverso dei citofoni apparentemente innocui, che le promesse città intelligenti rischiano di rivelarsi delle inquietanti città sorvegliate.

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