Nel 1998, il premio Nobel Paul Krugman predisse che l’impatto di internet sull’economia sarebbe stato «simile a quello dei fax». Avanti veloce di un paio di decenni e il mondo digitale, secondo uno studio di Oxford, vale oggi qualcosa come 18mila miliardi di dollari: il 20 per cento del prodotto interno lordo globale. Quella di Krugman potrebbe essere stata una delle più grandi sottovalutazioni della storia recente. E forse è proprio questo genere di scarsa considerazione iniziale che ha permesso a internet di diffondersi in tutto il globo, senza particolari ostacoli da parte della politica e dell’establishment.

Quale fosse il vero potere, economico ma anche politico, di questo strumento lo abbiamo però presto iniziato a comprendere: l’onda verde iraniana del 2009 è stata la prima grande forma di protesta popolare condotta anche grazie all’uso delle tecnologie digitali; poco dopo sono invece arrivate le primavere arabe, che tutto il mondo ha potuto seguire anche grazie agli smartphone, a Twitter e a YouTube.

In quegli anni, il mondo ha finalmente scoperto il potenziale politico di internet e dei social network, lasciandosi contagiare dal tecno-entusiasmo: «L’informazione non è mai stata così libera», ha affermato nel 2010 l’allora segretaria di Stato Hillary Clinton. «Ci sono oggi più modi di diffondere più idee a più persone che in qualunque altro momento della storia.

Anche nei paesi autoritari, i network d’informazione stanno aiutando i cittadini a scoprire i fatti e a responsabilizzare i governi».

Nel 2012, Bono Vox lanciava invece la sua profezia dalla copertina della prestigiosa Mit Technology Review: «I big data salveranno la politica: i telefoni cellulari, la rete e la diffusione dell’informazione sono una combinazione letale per i dittatori».

Controllare internet

C’è poco da fare: quando c’è di mezzo internet, le previsioni si rivelano spesso un boomerang. I dittatori e i governi autoritari non sono scomparsi grazie alle tecnologie digitali: hanno invece imparato a usarle. E così, alle speranze suscitate (e frustrate) dall’onda verde e dalle primavere arabe hanno fatto seguito i troll russi assoldati dal Cremlino per cercare di influenzare le elezioni statunitensi tramite i social network o l’utilizzo di internet da parte della Cina per sorvegliare sempre più rigidamente la popolazione. Nel mondo autoritario si è inoltre diffusa l’abitudine di “spegnere” temporaneamente internet in caso di imponenti proteste, per impedire ai manifestanti (in India, Cambogia, Myanmar, Sudan, Iran e altri) di organizzarsi e di diffondere messaggi all’estero. Dove un tempo c’era l’utopia di John Perry Barlow, autore della Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio in cui nel 1996 si immaginava un mondo digitale completamente svincolato dalla politica terrestre, oggi c’è invece il tecno-nazionalismo: le nazioni autoritarie sfruttano la rete per colpire i rivali e rafforzare la sorveglianza sulla popolazione. Non solo: i regimi stanno riprendendo il controllo su internet, erigendo barriere digitali che impediscono all’informazione di fluire libera a livello globale.

Le altre reti

È il fenomeno noto come splinternet: la rete viene fatta a pezzi e suddivisa in tante piccole intranet nazionali, rigidamente monitorate dai regimi, accessibili solo alle piattaforme compiacenti, disattivate nel momento del bisogno e in alcuni casi – per ora soprattutto sperimentali – fisicamente separate dal resto di internet. Che la strada intrapresa sarebbe stata questa l’ha intuito per primo l’ex Ceo di Google Eric Schmidt, che nel 2018 ha spiegato come internet stesse subendo una “biforcazione” tra la rete globale (ma che il mondo non occidentale considera a guida statunitense) e una serie di intranet rigidamente controllate che – nella previsione di Schmidt – entro qualche anno graviteranno attorno a una rete a guida cinese.

Di previsioni sbagliate ne abbiamo già viste, vale però la pena di sottolineare quanto il punto di osservazione di Eric Schmidt sia privilegiato. C’era infatti lui alla guida di Google quando, nel 2010, il motore di ricerca decise di non cedere alle richieste della Cina di censurare i risultati sgraditi e abbandonò la nazione. «L’addio di Google alla Cina ha segnato la completa disconnessione tra gli utenti cinesi e il web internazionale. Al giorno d’oggi, la vita degli utenti in Cina non dipende da nessuna azienda straniera», ha spiegato a Quartz Zeng Jiajun, ex product manager della cinese ByteDance (il colosso dietro TikTok).

È il cosiddetto grande firewall: la rete internet cinese dalla quale sono esclusi Facebook, Twitter, Google, YouTube, WhatsApp e gli altri, che non permette di raggiungere le testate straniere e dove le ricerche sono rigidamente filtrate e monitorate; mentre la vita online scorre tramite piattaforme autoctone (e colossali) come il motore di ricerca Baidu, la super-app WeChat (che permette di fare qualunque cosa: pagare il taxi, prenotare il ristorante, scrivere agli amici) o social network come Weibo e Qq.

Sovranismo digitale

Il successo del grande firewall nel tenere a bada la libera circolazione delle informazioni ha reso sempre più attraente la filosofia cinese della cyber-sovranità, secondo la quale ogni paese dovrebbe regolamentare internet a seconda dei propri interessi. Un sovranismo digitale che va dai tentativi di creare social network nazionali (come il nuovissimo Hundub in Ungheria) al varo di leggi che in sempre più stati (Polonia, Russia, India e altri) costringono le piattaforme e gli internet provider a rimuovere i contenuti sgraditi, arrivando fino ai tentativi di conquistare la cyber-sovranità non solo tramite la censura, ma a livello infrastrutturale: separando fisicamente la rete nazionale dai cavi che la collegano a quella globale. A partire dal 2005, l’Iran ha per esempio investito 4,5 miliardi di dollari nella progettazione del National Information Network (Nin). Già oggi la Repubblica islamica blocca una lunga serie di siti internet e piattaforme, ma la costruzione di una vera e propria intranet – che ha subìto parecchi ritardi e non è ancora completata – permetterebbe di impedire fisicamente ai dati di entrare o uscire dal paese. Le potenzialità di questo strumento si sono viste durante le proteste del novembre 2019: il regime iraniano ha bloccato l’accesso a internet riducendo del 95 per cento l’utilizzo della rete tradizionale. Gli utenti che invece navigavano usando la Nin hanno potuto continuare a farlo senza difficoltà. Secondo quanto affermato dal presidente Rouhani, «quando sarà terminata, la Nin eliminerà completamente il bisogno di utilizzare network stranieri».

La stessa strada sta venendo perseguita dalla Russia di Putin, che nel dicembre 2019 ha testato la completa disconnessione dalla rete globale mantenendo però in funzione la rete intranet nazionale, ribattezzata ufficiosamente RuNet e attraverso la quale vengono gestiti solo siti e piattaforme ospitati in Russia e soggetti quindi alle leggi nazionali.

RuNet sfrutta uno strumento noto come Dpi (Deep Packet Inspection), in grado di intercettare tutte le richieste di siti web provenienti dall’esterno e di dirottarle su server interni, fornendo alle autorità un controllo totale sui dati che entrano o escono dal paese. Non è invece chiaro se l’obiettivo finale di Vladimir Putin sia di scollegare fisicamente RuNet dal resto della rete e quando la Russia potrebbe essere in grado di farlo. In un clima sempre più da guerra fredda cyber, anche gli Stati Uniti stanno reagendo di conseguenza. Dall’estate 2020, sotto la presidenza Trump ma con un accordo bipartisan, la Casa Bianca ha infatti varato il Clean Network Program, che mira a escludere qualunque equipaggiamento tecnologico cinese dalle infrastrutture digitali degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Nonostante gli sforzi si siano inizialmente concentrati soltanto sull’infrastruttura 5G, l’ex segretario di Stato Mike Pompeo ha poi annunciato l’espansione del programma al fine di rendere “sicuri” tutti i dispositivi, i sistemi cloud, le app e gli app store e perfino i cavi sottomarini che rappresentano l’infrastruttura base della rete. A oggi, 60 nazioni hanno aderito ai principi del Clean Network Program, tra cui 26 nazioni dell’Unione europea su 27.

«Gli Stati Uniti, la nazione che ha reso possibile lo sviluppo di internet, sta oggi prendendo in considerazione delle politiche che lo frantumerebbero in mille pezzi», ha affermato la Internet Society, una delle più importanti Ong per la promozione dell’accesso a internet. «In questo modo, gli Stati Uniti contribuiscono alla tendenza che porta alla splinternet». La rete unica globale con cui siamo cresciuti – e che forse abbiamo dato per scontato – rischia di diventare un ricordo del passato.

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