“Qualcuno ha visto il web3? Non riesco a trovarlo”, ha twittato qualche tempo fa Elon Musk. Un sarcasmo sorprendente non solo perché giunto dal più celebre tra i sostenitori delle criptovalute, ma soprattutto perché il web3 – la nascente terza incarnazione della rete basata proprio su criptovalute e blockchain – è apparentemente ovunque.

Questa etichetta viene infatti oggi impiegata da società immobiliari, social network, realtà editoriali, agenzie di comunicazione, piattaforme di compravendita di arte digitale, produttori di videogiochi e addirittura da società farmaceutiche.

Realtà dalle fondamenta più o meno solide, ma che hanno una cosa in comune: promettono di distribuire democraticamente i guadagni a tutti i loro utenti, rendendo l’economia del web – oggi concentrata nelle mani di pochi miliardari – più distribuita, inclusiva ed equa.

Tokenomics

La parola magica dietro a questa (promessa) rivoluzione decentralizzata ed egualitaria è una sola: “tokenomics”, l’economia basata sui token. Di che si tratta? Essendo basati su blockchain, tutti i progetti legati al web3 emettono ioken, ovvero delle criptovalute legate a uno specifico progetto.

Per esempio, a seconda di quanto attivamente partecipino tramite post, commenti e contenuti di ogni tipo, gli utenti di un social network basato su blockchain come lo svizzero Appics possono conquistare una determinata quantità dei token collegati (APX).

I token così ottenuti (o direttamente acquistati) consentono, da una parte, di incidere sulla gestione della piattaforma (proporzionalmente alla quantità che se ne possiede) e dall’altra rappresentano uno strumento finanziario dal valore fluttuante che può essere scambiato con altre criptovalute o venduto in cambio di denaro tradizionale (un funzionamento simile a quello delle azioni, ma i cui processi sono in parte automatizzati tramite blockchain).

Non solo: qualora il progetto a cui si partecipa avesse successo e sempre più persone volessero prendervi parte, inevitabilmente crescerebbe anche il valore dei token, permettendo potenzialmente a chi prima vi ha investito, o più attivamente vi ha partecipato, di mettere a segno importanti profitti.

In questo modo, diventa possibile guadagnare dalla semplice partecipazione a un social network, dalla condivisione dello spazio libero del nostro hard disk (collegandolo a una piattaforma blockchain come Filecoin), combattendo in videogiochi come Axie Infinity, scrivendo su testate editoriali del web3 come PubDAO e molto altro ancora.

Ma se le cose stanno così, per quale ragione Elon Musk dovrebbe mettere il web3 e le promesse di inclusione finanziaria al centro delle sue critiche?

Tra la A e la Z

(Patrick Pleul/dpa via AP)

La ragione si può individuare nella risposta altrettanto sarcastica al tweet di Musk giunta da un altro celebre sostenitore delle criptovalute, ovvero il fondatore di Twitter Jack Dorsey: «Dove si trova il web3? Sta da qualche parte tra la A e la Z».

Il riferimento è alla potentissima società di investimenti a16z, meglio nota come Andreessen-Horowitz, che negli ultimi anni ha riversato nelle startup del web3 un’enorme quantità di denaro.

Basti pensare che nel mese di maggio, mentre il valore delle criptovalute iniziava già a precipitare rispetto ai massimi toccati alla fine del 2021, Andreessen-Horowitz ha annunciato un nuovo fondo d’investimenti dedicato al web3 da 4,5 miliardi di dollari.

Più in generale, nel 2021 le società che operano nel campo della blockchain hanno ricevuto finanziamenti per 18 miliardi di dollari. Nei soli primi sei mesi del 2022 questa cifra è schizzata fino a 29 miliardi, facendo diventare il web3 il settore su cui è stata riversata la maggior quantità di denaro in assoluto.

Perché i venture capitalist, gli stessi che – com’è il caso di Andreessen-Horowitz – siedono nei consigli d’amministrazione di Meta e altri tradizionali colossi della Silicon Valley, dovrebbero investire in società che promettono di redistribuire a tutti gli utenti il potere finanziario?

E qui, arriviamo all’aspetto implicitamente sottolineato da Elon Musk e Jack Dorsey. Il web3 permette agli investitori più rapidi e avveduti di ammassare una gran quantità di token (che col tempo potrebbero aumentare drasticamente di valore) e di sfruttarli per determinare la gestione della piattaforma in questione.

A parte qualche rara eccezione, a investire in anticipo nelle realtà più promettenti (o dalle maggiori potenzialità speculative) non sono gli utenti comuni, ma i grandi fondi d’investimento.

Altro che democratizzazione 

Nonostante le promesse di decentralizzazione e distribuzione della governance, la realtà è quindi che i più importanti hedge fund del mondo hanno già messo le mani sul web3 e possono adesso mantenere il controllo sulle società che hanno finanziato, oppure guadagnare sulle spalle dei normali utenti nel momento in cui decidono di vendere i token che hanno raggiunto il valore desiderato.

È proprio quanto ha fatto, per fare solo un esempio, l’hedge fund specializzato in criptovalute Pantera, che nel maggio scorso ha di colpo venduto i quattro quinti del suo investimento in TerraLuna, guadagnando 170 milioni di dollari e contribuendo all’improvviso crollo di una piattaforma della “finanza decentralizzata” che prometteva tassi d’interesse insostenibili (e a causa del quale centinaia di piccoli investitori si sono rovinati).

Se invece un progetto del web3 più solido – come per esempio OpenSea, la piattaforma di compravendita di NFT – dovesse raggiungere la quotazione in borsa, ecco che i suoi investitori (tra cui l’immancabile a16z) avrebbero la possibilità di guadagnare due volte: dalla vendita dei token e dalle azioni conquistate.

Non stupisce, di conseguenza, che le startup a caccia di finanziamenti sentano sempre di più la necessità di utilizzare l’etichetta web3 e di trovare una qualunque giustificazione all’emissione di un token, arrivando perfino a proporre – come racconta Motherboard – dei bizzarri “sistemi decentralizzati di prenotazione di ristoranti”.

«Vediamo tantissime di queste situazioni», ha spiegato sempre a Motherboard l’investitore Jeff Clavier. “Il web3 è il nuovo trend e un sacco di imprenditori si limitano ad aggiungere un token al loro progetto in un secondo momento, senza che ce ne sia davvero bisogno”.

Dayton Mills, fondatore della piattaforma di gaming Branch, ha invece raccontato di quante difficoltà abbia avuto a trovare finanziamenti finché non ha deciso di trasformare la sua startup in una realtà del web3.

Da quel momento in poi, ha spiegato, «non ho più nemmeno avuto bisogno di incontrare i finanziatori di persona, si impegnavano a investire nella mia società direttamente via email».

Nonostante avesse pianificato di raccogliere investimenti per 2 milioni di dollari, Mills è stato travolto da una quantità di denaro pari a dieci volte tanto, sentendosi poi obbligato a rifiutare ulteriori soldi.

In declino?

Per chi segue da tempo il mondo digitale, l’incredibile frenesia finanziaria che circonda il web3 (che negli ultimi mesi si è comunque un po’ raffreddata, in seguito al crollo delle criptovalute e alle più generali difficoltà dei mercati) non è niente di nuovo. Qualcosa di molto simile si è già verificato più di vent’anni fa, all’apice della bolla delle dot-com.

Secondo una ricerca accademica dell’epoca, in quegli anni era sufficiente aggiungere al nome della propria azienda il suffisso “.com” per ottenere, nel giro di dieci giorni, una crescita media del valore delle azioni del 74 per cento.

Se la bolla delle dot-com ci aiuta a inquadrare gli eccessi speculativi che circondano il web3 (e può quindi essere un monito per gli investitori meno esperti), il parallelismo con quanto avvenuto all’alba del nuovo millennio può però essere letto anche in chiave positiva. Il crollo delle dot-com – in seguito al quale il Nasdaq passò dai 5mila punti del marzo 2000 ai 1.100 dell’ottobre 2002 (-78 per cento) – ha sì fatto piazza pulita di tantissime società prive di una strategia che non fosse quella di cavalcare l’onda, ma è stato anche superato con successo dalle realtà all’epoca più promettenti: Amazon, eBay, Yahoo e altre ancora.

È quindi possibile che anche dal far west speculativo che oggi circonda il web3 emergeranno infine i prossimi colossi del mondo digitale.

Quelli che, in mezzo a mille perplessità e scetticismi, saranno finalmente riusciti a capire come utilizzare al meglio la tuttora misteriosa blockchain e l’economia dei token.

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