Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del resoconto dei lavori della Commissione parlamentare d'inchiesta della X Legislatura che per prima provò a ricostruire l'operazione Gladio. Nelle conclusioni della Commissione resta una frase che pesa più delle altre: «Persistono elementi di ambiguità e reticenza nel rapporto tra struttura e istituzioni democratiche». È il linguaggio della politica per dire che qualcuno mentì


Da una scheda informativa predisposta dal SISMI sull'organizzazione «Osoppo» si apprende quanto segue: la formazione partigiana «Osoppo Friuli» fu smobilitata il 24 giugno 1945, come tutte le altre formazioni similari della zona. All'atto dello scioglimento, gli appartenenti alla «Osoppo» erano circa 8.700.

Nel gennaio del 1946, il protrarsi di episodi di violenza e della minaccia di occupazione, legati allo stato di acuta tensione tra Italia e Jugoslavia, indusse i capi della formazione a chiedere il riarmo dei reparti, per consentire la difesa della popolazione.

La richiesta fu accolta dal Capo di Stato maggiore dell'esercito, generale Raffaele Cadorna, che autorizzò la ricostituzione della formazione, la cui denominazione divenne poi «3° Corpo volontari della Libertà». Nel settembre del 1947, al momento della conclusione del trattato di pace, la forza della formazione era di 4.484 unità. In occasione delle elezioni politiche del 1948, lo stato d'allarme, causato dai timori di un intervento jugoslavo in caso di vittoria delle sinistre, indusse a schierare segretamente, dal 16 aprile al 2 maggio, mille uomini del «3° Corpo volontari della Libertà» sul confine orientale.

Il 6 aprile 1950, sulla base di una direttiva dello Stato maggiore dell'esercito, la formazione venne trasformata in una organizzazione militare segreta, denominata «Organizzazione O», dalla prima lettera di Osoppo. Questa poteva essere impiegata dal Comando del V Corpo d'Armata per svolgere attività quali: protezione delle comunicazioni e degli impianti di particolare importanza militare e civile, guerriglia e controguerriglia, guida, osservazione ed informazione.

L'organizzazione disponeva di materiali ed armamenti, sia individuali che di reparto, per 15 battaglioni da 360 uomini ciascuno.

La destinazione di tali materiali veniva tenuta segreta. L'organizzazione «O» fu sciolta il 4 ottobre 1956, poiché si riteneva che l'Esercito avesse raggiunto un'efficienza operativa tale da garantire la sicurezza delle zone di frontiera nelle quali l'Organizzazione avrebbe dovuto operare.

Le dichiarazioni del senatore Paolo Emilio Taviani.

II senatore Taviani, che nella qualità di Ministro della difesa si occupò della struttura Stay-behind nel periodo 1953-1958, ha affermato che in quel periodo la struttura stessa passò da un regime «artigianale» ad uno che potrebbe definirsi «se non industriale, professionale». Per tutto il periodo nel quale ricoprì la carica di Ministro della difesa, ed anche successivamente, il senatore Taviani pensò «che questa organizzazione entrasse in attività soltanto al momento in cui le frontiere fossero invase», restando esclusa «qualunque utilizzazione a fini interni». Il suo compito era, infatti, «quello di far saltare gallerie o ponti... comunque cose che non hanno nulla a che fare con l'ordine interno».

In qualità di ex partigiano, ha memoria anche di fatti antecedenti il 1953, anno del suo ingresso al Ministero della difesa. In quegli anni, infatti, una struttura Stay-behind era già presente: si trattava della formazione partigiana denominata «Osoppo», che «in nuce era già qualcosa di quella che poi diventerà la Stay behind, anzi era già una Stay behind; infatti nel 1950 si mobilitò perché c'era la preoccupazione dell'invasione dell'Italia».

Secondo il senatore Taviani, fino al 1951 non c'è stato alcun rapporto diretto tra gli ex partigiani e le Forze armate, bensì «solo dei fatti», ed in particolare che «dal 1947 in poi, essendosi dolorosamente divisa la classe dirigente della Resistenza tra pro-occidentali e pro-sovietici, nella provincia di Udine, in particolare nel Friuli, ma anche nelle stesse Gorizia, Aquileia, ecc., si sono trovati la grandissima maggioranza dei partigiani pronti e solidali a collaborare con l'Esercito in qualsiasi occasione».

Quest'ultima circostanza gli fu confermata, nell'agosto del 1953, quando, appena nominato ministro, ricevette il generale Musco, che lo informò dell'esistenza di un «collegamento» di ex partigiani nel Friuli. Costoro, secondo quanto gli riferì Musco, erano stati già allertati durante la guerra di Corea, allorquando si era profilato il rischio di un'estensione del conflitto all'occidente.

Le notizie acquisite dal senatore Taviani sino al 1953 rimane vano, dunque, circoscritte alla «Osoppo» ed all'ambito territoriale Friuli-Venezia Giulia — Veneto. Quando poi si determinò la crisi di Trieste e si giunse alla mobilitazione, fu lui a chiamare a Roma il generale Biglino, che gli confermò che «in caso di guerra, erano disponibili a mettersi a fianco delle truppe italiane tutti gli ex partigiani della Osoppo».

Il generale Biglino riferì anche che non soltanto gli uomini della «Osoppo», che «non erano affatto partigiani bianchi perché erano repubblicani, socialdemocratici, liberali, socialisti, democristiani, c'erano un po' di tutti i colori», ma anche «parecchi comunisti di lingua italiana, dividendosi nettamente dai comunisti di lingua slava e da una parte dei comunisti di lingua italiana, si erano dichiarati disposti a combattere insieme alla "Osoppo", nel caso fossero entrate le truppe jugoslave nel 1953».

Secondo Taviani, l'esistenza di un collegamento tra l'Esercito e gli ex partigiani induce a dare per scontato che, proprio in ragione di questo collegamento, gli appartenenti alla «Osoppo» e gli altri ex partigiani avrebbero dovuto trovare presso le caserme dei Carabinieri o degli Alpini le armi necessarie per le operazioni. La «regolarizzazione» del 1956 servì anche a consentire una più ordinata reperibilità ed un miglior controllo delle armi stesse.

La conclusione di Taviani è che «esisteva, quindi, già un qual cosa di stampo artigianale», di cui è traccia in «documenti in terni», senza che vi siano riscontri di una «relazione precisata tra il Sifar e la Cia» prima del 1956 «nel momento cruciale dell'invasione dell'Ungheria da parte dell'Unione sovietica e della guerra di Suez».

L'organizzazione, la sistemazione di tutto questo venne nel 1956. Va da sé che alcune centinaia di uomini, poiché tanti erano, nulla avrebbero potuto fare contro uno schieramento offensivo quale quello che i sovietici avevano predisposto in quell'epoca, se non tentare di rallentare una eventuale offensiva sabotando ponti e gallerie.

Il senatore Taviani ricorda che, nel periodo della «formalizzazione», è sempre stato molto netto, con il Capo di Stato maggiore della difesa, sulle caratteristiche che l'organizzazione Stay-behind avrebbe dovuto assumere: infatti «si trattava di una struttura delle Forze Armate italiane che, stranamente, a differenza di tutte le altre strutture, le quali appartenevano o all'Esercito, o alla Marina, o all'Aeronautica, dipendeva direttamente dal Capo di Stato maggiore della difesa. Quindi, in caso di guerra, i suoi appartenenti sarebbero entrati in guerra come gli altri militari».

Prima della conclusione dell'accordo del 1956, vi erano state sollecitazioni della Francia affinché l'Italia facesse ciò che avevano già fatto altri Paesi nell'ambito della Nato (l'Inghilterra, il Belgio e l'Olanda) e che avrebbe poi fatto anche la Germania. In quel periodo aveva sempre notato una presenza bilaterale, sia della Cia che dell''Intelligence Service: quest'ultimo aveva, infatti, contribuito in qualche modo (con tecnici e consiglieri) anche all'avvio delle predisposizioni per la base operativa di Capo Marrargiu (una sorta di gara per la supremazia nell'area del Mediterraneo tra Cia ed Intelligence Service si era svolta negli anni precedenti ed in quel momento si profilava una prevalenza americana; fu così che l'Italia optò per una «apertura alla Cia»).

Nel 1956 si propose la questione della ratifica parlamentare dell'accordo. Analogo problema era già emerso ed era stato risolto negativamente nel 1954, in relazione agli accordi sulle basi militari. Sulla falsariga di quel precedente, relativo ad una decisione ben più importante di quella riguardante «S/B», si decise rapidamente di non sottoporre l'accordo al Parlamento.

L'accordo stesso fu raggiunto «per avere in Italia quello che già esisteva in Francia, in Belgio, in Olanda, quello che stava per esistere e che sarebbe poi esistito in Germania, quello che esisteva già all'inizio in Inghilterra collegato con la Nato»; la decisione di non presentarlo al Parlamento venne ulteriormente confortata dal fatto che ciò non era avvenuto né in Francia né in Gran Bretagna.

Naturalmente, oltre ai politici, era a conoscenza dell'accordo anche il Capo di Stato maggiore della di fesa, generale Mancinelli. Il Presidente del Consiglio, Segni, volle che l'accordo «fosse ben definito, anche se trattava di cose da non presentare in Parlamento».

La decisione venne assunta dallo stesso Presidente del Consiglio, su proposta del Ministro della difesa, che aveva preventivamente sentito il generale Mancinelli ed aveva acquisito il consenso motivato del Ministro degli esteri. Martino, il quale, a sua volta, aveva consultato «il suo ufficio o i suoi consulenti giuridici». Così come quelli del 1954 erano stati qualificati «accordi interarma», quello del 1956 fu definito un accordo interservizi e quindi «non tale, come tanti altri accordi di questo tipo, da doversi presentare in Parlamento».

La questione della presentazione in Parlamento venne particolarmente seguita dal generale Mancinelli « che si recò dal Presidente del Consiglio, Antonio Segni». Dell'accordo furono informati il Presidente della Repubblica, Gronchi, ed il Vicepresi dente del Consiglio, Saragat. Questi ultimi — ricorda il senatore Taviani — al fine di conferire all'accordo una maggiore caratterizza zione Nato piuttosto che italo-americana, insistettero e lo sollecitarono, in una conversazione, «a consultare ed avvicinare i francesi e a cercare di coinvolgerli il più possibile in questo accordo», cosa che egli fece successivamente, incontrando il ministro Chaban Dei mas.

Da tale incontro derivò poi l'accesso dell'Italia al Comitato di pianificazione e coordinamento. Il senatore Taviani ha anche fornito elementi di conoscenza circa il rapporto tre la struttura Stay-behind italiana e gli organismi della Nato. Ha infatti ricordato di averne discusso con Gruenther, allora Comandante supremo delle Forze Nato in Europa, quasi ad ogni loro incontro (cioè tre o quattro volte) e che, in questi colloqui, appariva «cosa ovvia» l'apporto di una rete difensiva italiana al sistema Stay-behind.

Con lo stesso Gruenther collaborò nella prepara zione dell'ingresso dell'Italia nel Comitato di pianificazione e coordinamento (CPC), che sarebbe poi avvenuto nel 1959.

Sul tema della costituzione della rete Stay Behind italiana, il Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, nel suo incontro con i componenti del Comitato, svoltosi il 15 marzo 1991, ha ricordato di aver saputo che «fin dal 1951 era stato studiato un piano per raccogliere informazioni e compiere azioni di contrasto nella parte del territorio nazionale che fosse caduta sotto occupazione nemica ....» ed ha precisato che «la nostra pianificazione difensiva ... che prima era stata predisposta sulla base di un'autonoma determinazione delle nostre autorità politiche, era così venuta (per accordi prima bilaterali e poi multilaterali) a confluire nell'ambito dell'Alleanza Atlantica e ad adottare, per evidenti ragioni di coordina mento, strutture e modalità di impiego analoghe a quelle predisposte dagli altri Paesi dell'Alleanza».

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