Nel 1988, dopo la condanna inglese, Franco Di Carlo si trova faccia a faccia con Giovanni Falcone. Con lui ci sono il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, costretto a chiedere il trasferimento in Cassazione dopo la morte di Falcone, e il pm Gioacchino Natoli, oggi presidente della Corte d’appello di Palermo
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.
Nel 1985, per il padrino di Altofonte si chiude comunque un’epoca. Ma gli amici non lo abbandonano neppure tra le sbarre, e anche nella sua cella inglese la sua è una detenzione molto particolare. Nell’ottobre del 1987, a tre mesi dalla condanna, gli dedicano un servizio sul glorioso «The Illustrated London News» che esce a cadenza mensile.
Il titolo è How crime is organized in London. In copertina i redattori del giornale sono più perentori: The mafia in London. Nel servizio ci sono le foto di Alfonso e Pasquale Caruana, i rampolli della genia di mafio-imprenditori siciliani che ha fatto fortuna tra il Regno Unito, il Venezuela e il Canada. Ma anche quella che ritrae la regina Elisabetta in visita a Palermo nel 1980, all’uscita del Palazzo Gangi-Valguarnera di proprietà della famiglia di Alessandro Vanni Calvello, il socio di Franco Di Carlo.
L’autore dell’articolo annota con lungimiranza: «He may provide his fellow prisoners with some rather useful contacts in Sicily», egli può fornire ai suoi compagni di prigionia con tatti molto utili in Sicilia, e «It is likely that he will still be able to conduct business from behind bars», è probabile che sarà ancora in grado di condurre gli affari da dietro le sbarre.
Durante il processo è accaduto che un investigatore di Scotland Yard abbia dovuto ammettere candidamente che il fascicolo di Franco Di Carlo è lost, introvabile, mentre i giornali avanzano il sospetto che siano volate mazzette nel tempio dell’investigazione britannica. Una testimone finisce arrotata misteriosamente da un’auto pirata. Un gruppo di altri potenziali testi si mostra assai poco loquace davanti alla Corte.
Lui prende la parola al processo per spiegare che ha fatto fortuna in Inghilterra perché è un imprenditore, che non è partito dalla Sicilia con la valigia di cartone e poi, rivolto alla giuria, prova a chiedere: «Avete ascoltato il titolare della fabbrica di mobili che non mi conosce né ha mai intrattenuto rapporti d’affari con me di qualsiasi genere. È venuto a raccontare delle spedizioni da Bangkok, dentro quei mobili c’era droga, ma chi ce l’ha messa? Lui, la dogana?
Io so solo che in Thailandia non sono mai stato, che il fabbricante dei mobili non aveva spedito a me quella merce e che è libero mentre io sono accusato di avere ricevuto qualcosa che non ho mai ordinato». Non gli credono. Ma la sua appassionata difesa, l’aura sinistra che lo circonda, la scia di misteri che lo accompagna accresce l’interesse nei suoi confronti. Il mito rimbalza dall’Italia all’Inghilterra e nelle Americhe.
Franco Di Carlo si conquista presto la fama di intoccabile, nonostante la severità della condanna e la dura chiosa con la quale il giudice accompagna la sentenza: fosse dipeso da me gli avrei dato l’ergastolo. Dopo un mese morirà anche lui. Ma almeno lui di morte naturale. In Gran Bretagna decretano la custodia nell’alta sicurezza, la stessa riservata ai terroristi dell’Ira, destinazione la prigione di Brixton a Londra, ma già dopo la condanna viene tra sferito in un penitenziario dove i controlli sono più blandi. E le possibilità, per lui, maggiori.
GABBIE APERTE
Dentro il carcere di Leicester Franco Di Carlo, accompagnato dalla reputazione di potente boss in cartello con il clan dei Caruana-Cuntrera, è temuto e rispettato. La quotidianità e il tratto affabile, oltre a un eloquio sciolto anche in inglese, abbattono molte delle resistenze che rendono netta la distanza tra guardie e detenuti.
Per via del lavoro interno al penitenziario, Franco Di Carlo ha così libero accesso agli uffici, si comporta da detenuto-impiegato modello e soprattutto, oltre alla normale possibilità di telefonare a casa, beneficio assicurato con regolarità ai reclusi inglesi, ha la disponibilità praticamente illimitata della linea telefonica del direttore che gli ha concesso la massima fiducia.
Lontano da Altofonte, il suo paese, ma costantemente in contatto con gli uomini che sono rimasti sul territorio, si in forma e si aggiorna su ciò che accade, rassegnato a scontare dietro alle sbarre poco meno di tredici anni. La prigione diventa la meta di molti giudici, Giovanni Falcone per primo, ma anche di molti altri.
I giudici italiani erano interessati alla mia collaborazione con la giustizia, dopo avermi dato la caccia per tanti anni si erano fatti una certa idea di quale contributo avrei potuto dare. In quasi trent’anni dentro Cosa Nostra ho accumulato informazioni e conoscenze che sono state il mio vero capitale. Se ho taciuto su alcune cose, se ci sono cose che dirò adesso e non ho mai raccontato prima è perché ho imparato a proteggermi da solo e perché le persone con le quali sono venuto in contatto avevano un potere enorme, che ho toccato con mano quando ero fuori e che non si fermava davanti al portone di un carcere. Sapevano come arrivare a me in qualsiasi momento, da detenuto e anche quando avevo già deciso di collaborare con la giustizia.
Nel 1988, dopo la condanna inglese, Franco Di Carlo si trova faccia a faccia con Giovanni Falcone. Con lui ci sono il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, costretto a chiedere il trasferimento in Cassazione dopo la morte di Falcone, e il pm Gioacchino Natoli, oggi presidente della Corte d’appello di Palermo.
Falcone conduce un dialogo denso di sottintesi, un confronto tra siciliani durante il quale anche i silenzi sono parte integrante della comunicazione. Franco Di Carlo declina l’invito a collaborare mai propostogli esplicitamente. Gli viene solo offerto di tornare in Italia, ma sa benissimo che per ottenere di scontare la pena nel nostro Paese deve mettersi sotto l’ala delle autorità e non ne ha alcuna intenzione. Non ha mai visto prima di allora Giovanni Falcone, ma di lui sa già tutto. Ha seguito passo passo ogni sua mossa. Ha potuto constatare dall’interno quali effetti abbiano prodotto le sue indagini. Ma sa, sopra ogni cosa, quale terremoto abbia prodotto all’interno dello stesso apparato giudiziario. Tra quegli stessi uomini che fino ad allora avevano garantito l’impunità degli uomini d’onore.
A cominciare dai primissimi anni Ottanta, Falcone porta scompiglio dentro al Palazzo di Giustizia di Palermo. Comincia a lavorare nell’ufficio del consigliere Rocco Chinnici che lo vuole accanto. Nasce una coppia perfetta per portare avanti l’idea di fare pulizia dentro e fuori il Palazzo di Giustizia di Palermo.
Il periodo era molto difficile, una nuova guerra di mafia era alle porte. Era stato ucciso il procuratore Gaetano Costa (6 agosto 1980) e solo perché aveva fatto il proprio dovere. Se ne era occupato Stefano Bontate insieme con Totuccio Inzerillo per dimostrare a Riina che anche loro erano capaci di uccidere un magistrato. Riina, negli anni precedenti, aveva portato in commissione decine di richieste di eliminare questo o quel personaggio: dal colonello Giuseppe Russo (20 agosto 1977) al giornalista Mario Francese (26 gennaio 1979), dal segretario provinciale della Democrazia cristiana Michele Reina (9 marzo 1979) al giudice Cesare Terranova (25 settembre 1979), dal presidente della Regione Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980) al capitano dei carabinieri Emanuele Basile (4 maggio 1980), tutti uccisi dai Corleonesi per sgomberare il loro orizzonte d’affari ai politici che li rappresentavano, Vito Ciancimino in primis che era legato a doppio filo con Bernardo Provenzano.
Era quest’ultimo, “Binnu”, a riferire a Riina chi erano gli uomini che intralciavano il cammino di Vito Ciancimino, e Riina traduceva tutto nell’ordine di eliminare il problema con un omicidio. Questo era l’andazzo quando Falcone inizia a lavorare su Cosa Nostra. In quel Palazzo di Giustizia, così come fuori, fino ad allora si era fatto quello che si voleva.
Invece Falcone non si limita a ricostruire la mappa delle famiglie, ma fruga anche nelle banche, scopre decine di funzionari malleabili o corrotti e lavora sempre di più con persone selezionate di cui si fida ciecamente. Tiene lontano dalle sue indagini Bruno Contrada che evidentemente non doveva avergli fatto una buona impressione. Eppure Contrada era considerato un poliziotto molto bravo, un vero mastino, uno sbirro temuto dalla mafia. Ciò che si scoprirà dopo, ossia che era in rapporti con il boss di Partanna Saro Riccobono, ciò che si scoprirà con le dichiarazioni di Gaspare Mutolo che porteranno all’arresto di Contrada sul finire del 1992, dentro Cosa Nostra era già risaputo.
Ed evidentemente anche Falcone doveva aver avuto informazioni precise. Tutta la sua azione investigativa viene condotta tenendo alla larga Contrada dai suoi fascicoli.
Falcone punta in alto, Cosa Nostra non sta a guardare. E non è la sola.
Tutti quelli che in un modo o nell’altro finivano nel mirino delle inchieste di Falcone correvano a lamentarsene con i cugini Salvo, con Ciancimino o con Salvo Lima, considerati i riferimenti politici di Cosa Nostra, i quali ne parlavano con i capi dell’organizzazione.
Falcone viene percepito come una minaccia costante, non solo per la libertà di tanta gente, ma per la cassaforte di Cosa Nostra che si era gonfiata di soldi prima con le sigarette e poi con la droga e gli appalti. Falcone doveva chiudere gli occhi, come avevano fatto per tanto tempo molti suoi colleghi. Quei soldi devono girare tra Palermo e l’America e tutto il suo darsi da fare lo impedisce. E Falcone non si arrende di fronte alle difficoltà, non gli bastava mettere in piedi il maxiprocesso, coltivava invece di cambiare il sistema radicalmente. Riesce a far saltare il segreto bancario che era lo scudo dietro al quale si riparavano le fortune dei capi dell’organizzazione e dei loro complici.
È questo il cuore del problema: Falcone non era soltanto il magistrato che perseguiva i reati e otteneva le condanne e non era solo inavvicinabile – e questo era già di per sé abbastanza strano in una città come Palermo –, aveva il sogno di sconfiggere davvero Cosa Nostra, di tagliarle le gambe, spezzando i legami con la politica e con le forze di polizia e la stessa magistratura.
Dal punto di vista di Cosa Nostra, il giudice si sta pericolosamente avvicinando al cuore del potere mafioso, al rapporto con la politica e alla rete di relazioni che fanno dell’organizzazione un sistema consolidato che ha governato pressoché indisturbato ampie porzioni di territorio. Nel suo modo di procedere c’è l’intima convinzione che senza sciogliere il no do che tiene avviluppata la struttura militare al direttorio in cui gli interessi criminali si fanno governo della cosa pubblica è difficile scardinare le cosche.
Durante il cammino si rende perfettamente conto che le complicità e le connivenze non hanno risparmiato alcun apparato legale. Il suo piano è di rimettere mano intanto alle strutture investigative, compro messe da anni di quieto vivere, paura, convenienze.
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