Tutto si svolge come in un rito. La morte del tonno ha davvero qualcosa di sacrale. Lentamente sulle barche si fa un grande silenzio, gli uomini stanno immobili nell’attesa, scrutando il volto impassibile del capo rais ed aspettando il suo segnale. Eccolo! Il rais ha visto, ha quasi miracolosamente sentito che i tonni oramai sfiniti e folli sono pronti a morire
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione
I quattro vecchi stavano seduti immobili contro il muro e guardavano il mare. Secondo il volo dei gabbiani sui pescherecci di ritorno, essi cercavano di capire quale avesse fatto la pesca migliore e che tipo di pesci. Il primo vecchio aveva detto: «Il barone riapre la tonnara. Io farò il capo rais!»
E il secondo vecchio: «Sei mezzo morto oramai! Che vuoi fare? Sei rimbambito!» E il terzo: «Se il barone riapre la tonnara allora è rimbambito pure lui!» Il quarto aveva fatto un gesto lento per tutto l’orizzonte: «E dove sono i tonni oramai? Il mare è tutto veleno!»
Dinnanzi alla macchina fotografica si era messo quasi sull’attenti: «Armando Calaciura, classe 1897, capo rais della tonnara di Marzamemi, cavaliere di Vittorio Veneto! Una volta questo mare era pieno di tonni. Tu lanciavi un arpione nell’acqua e lo tiravi con un tonno da un quintale» «E ora invece?»
«Chi li vede più i tonni? Un pesce strano. Tanto stupido quanto intelligente e sensibile. Essi arrivano dall’oceano e vanno nel mare Tirreno dove passano la stagione dell’amore e si moltiplicano. Sa come fanno all’amore i tonni? I maschi fanno pazzie sui fondali e le femmine accorrono per raccogliere il seme e ingravidarsi. Non si toccano nemmeno. Una cosa da ridere! Appena arriva la primavera cominciano a scendere verso il mare dell’Africa, sono tanto sfibrati di amore che vanno ciecamente sempre appresso ai primi».
«Davanti a tutti i tonni più grossi, i vecchi che sanno scegliere sempre la via più breve. Così passano lo stretto di Messina e puntano verso il basso. Migliaia, decine di migliaia di tonni così, per sei mesi all’anno. Passavano a cento metri da quello scoglio per doppiare Capo Passero e perdersi nel mare aperto. Vede quel castello rosso e bianco?» Andai a vedere la tonnara sotto lo strapiombo di quell’orribile castello.
Visto così dall’alto lo schema della tonnara appariva di una estrema semplicità. Fra la punta estrema della Sicilia, dominata da quella costruzione rossa e l’isola di Capo Passero c’è un braccio di mare di appena cento metri con i fondali molto bassi che i tonni non potrebbero percorrere. Essi perciò doppiano il capo al largo dello scoglio ed allora si stende una rete lunga due chilometri fino al mare aperto e profonda dalla superficie del mare fino ai fondali, dove viene assicurata con macigni ed ancore.
Talvolta è anche necessario l’intervento dei palombari. Non ci deve essere alcun varco, né buco, né una sola smagliatura perché basta che un tonno ci si infili, e dietro migliaia di altri in un baleno. In tutto quel tratto di mare non ci deve essere alcuna cosa che possa distrarre i tonni, né ronzio di motori, nemmeno altre barche che abbiano colori vivaci o le cui ombre possano insospettire i capifila della passa.
Il mare deve essere deserto in modo che i tonni d’avanguardia, correndo verso il sud, o trovando l’ostacolo della rete, possano deviare senza paura lungo le pareti della stessa. Correndo ciecamente lungo la rete, il branco va ad infilarsi dentro una anticamera, formata da quattro immense pareti di rete, anch’esse profonde dalla superficie fino ai fondali.
Prima decine, poi centinaia e centinaia di tonni ad un certo momento si trovano affannosamente in questa prigione che non ha vie d’uscita e dentro la quale continuano a girare picchiando col muso, sbattendo gli uni contro gli altri, guizzando inutilmente dalla superficie al fondo e viceversa. Taluni impazziscono di paura e cominciano ad avventarsi contro i compagni. Sembra che cupamente cerchino quell’imbecille che, per primo, ha deviato la rotta e li ha condotti a morire.
Poi via via il branco si esaurisce, gli ultimi tonni s’infilano in quell’imbuto, qualche altro, ritardatario o smarrito passa al largo. Il mare torna deserto. Ed allora la strategia del massacro passa al comando del capo rais, il pescatore più esperto, il più duro e implacabile, il più astuto, capace di giudicare con un solo colpo d’occhio quante centinaia di tonni siano nel branco, e quando essi oramai sono impazziti di paura e senza più forze. Tutto si svolge come in un rito.
La morte del tonno ha davvero qualcosa di sacrale. Lentamente sulle barche si fa un grande silenzio, gli uomini stanno immobili nell’attesa, scrutando il volto impassibile del capo rais ed aspettando il suo segnale. Eccolo! Il rais ha visto, ha quasi miracolosamente sentito che i tonni oramai sfiniti e folli sono pronti a morire.
Tardare di qualche istante potrebbe essere fatale, poiché la pazzia del tonno può diventare improvvisamente istinto suicida: basta che uno si slanci a picchiare contro la rete nell’intento cieco di darsi la morte, perché altri due o tre, altri dieci, cento lo imitino, scagliandosi contro la parete e sfondandola di colpo. Ma il rais ha magicamente intuito questa imminenza ed ha alzato la mano: decine di uomini cominciano a tirare insieme e, lungo una parete di quell’immensa stanza marina si apre una specie di saracinesca, dove i tonni s’infilano tumultuando.
Un lampo solo di speranza, di ebbrezza, e infatti oltre quella soglia c’è una camera ancora più stretta che, a differenza della prima, ha una rete an che sul fondale, in modo che via via alzandosi porti tutti i tonni alla superficie. È Padrone del mare 180 la camera della morte.
Ai quattro lati sono immobili le barche, otto o dieci, di foggia larga e pesante in modo da poter reggere all’urto spaventoso dei tonni morenti. Sono dipinte di nero. Gli uomini stanno lungo le murate con le corde nelle mani. Ecco l’altro segnale del rais. Tutti insieme decine di uomini cominciano a tirare la rete del fondale, le quattro pareti si restringono sempre più. Gli uomini cantano, chiamano, urlano, invocano.
Si dice che siano nenie lasciate dagli arabi, in cui si parla di morte, di vita e di amore, le cui parole si sono perdute nel tempo e sono rimasti i suoni, una specie di feroce, ininterrotta musica umana. Il pavimento della rete ora è quasi tutto emerso, i tonni hanno solo due metri, un metro d’acqua, l’uno addosso all’altro, in un fazzoletto di mare circondato da quattro file di barche nere, da centinaia di volti madidi e urlanti.
I tonni sono oramai sfiniti, boccheggiano, sono ciechi di terrore e furore, eppure in questi ultimi attimi sembra che tutte le loro forze vitali si scatenino nella disperazione. E un viluppo, i tonni riescono persino a librarsi fuori dall’acqua, ricadono sugli altri, s’impennano di nuovo. Finché arriva l’ultimo segnale della mattanza: ogni uomo ha un piccolo arpione e lo scaglia nell’acqua: ad ogni colpo un tonno scivola oltre la murata, già agonizzante, e subito addosso gli cade un altro tonno col ventre squarciato, un altro, un altro, decine…
Il mare è insanguinato, gli uomini sono lordi di sangue, e continuano a urlare e cantare, talvolta c’è un grido ancora più alto, perché in quel viluppo è emerso il balenio di un pescecane: per un attimo succedono una immobilità ed un silenzio come se gli uomini seguissero affascinati quella sagoma più rapida e violenta, finché cinque, otto, dieci arpioni si abbattono contemporaneamente sullo squalo che cade sui tonni morenti, in pochi secondi viene fatto a pezzi a colpi d’ascia. Il grido dei pescatori diventa trionfale.
Tutto è finito, al centro della rete oramai completamente emersa, ci sono solo alcuni piccoli tonni immobili, picchiati, stravolti, spezzati, uccisi dai colpi dei compagni. «Solo il barone può decidere di riaprire la tonnara. Lui è il padrone del mare!» Il vecchio capo rais Armando Calaciura, cavaliere di Vittorio Veneto, stava sempre sull’attenti, e uno degli altri, il più magro e il più vecchio, con una faccia adunca da pellerossa, fece un cenno di saggezza ironica: «Ma il mare gli è diventato oramai veleno!»
Andammo a cercare il padrone del mare, don Pietro Bruno di Belmonte. Era già quasi notte, le strade di Ispica erano deserte, c’erano solo due ragazzi con una motocicletta.
Dissero: «Il signorino abita nella casina di campagna, in fondo al viale!» La casina, era una villa minuscola e deliziosa, con una struttura grigia da fortilizio, un immenso patio, cascate di gerani dovunque e una statua al centro. Venne ad aprirci un maggiordomo in giacca azzurra e guanti bianchi, un piccolo volto rattrappito e malinconico, ma don Pietro era già nel primo salone ad aspettarci. C’era anche una signora dolcissima, con i capelli bianchi, un sorriso delicato, ed io le strinsi la mano con un inchino, mormorando il mio nome. Don Pietro ebbe un mormorio: «È solo la domestica!»
Lo disse in tono distaccato con un sorriso di benevolenza. Ebbi l’impressione che volesse dirmi: amico mio tu sei già un cafone, se non sai distinguere! Ma era sicuramente solo un’impressione poiché il suo tratto essenziale apparve subito la gentilezza. Ampio, roseo, bianchissimo, di età indefinibile, i capelli grigi e biondi, gli occhi grigi, don Pietro mi sembrò l’uomo più elegante che avessi mai visto. Tutto era perfetto nella sua persona, ogni cosa morbidamente adeguata all’altra, la cravatta rosa, i gemelli ai polsi, l’anello, la camicia, il vestito scuro a righe, il tono della voce, il sorriso, la malinconia da grande di Spagna che ha perduto il vicereame.
Tutta la casa in cui viveva gli rassomigliava, ogni cosa morbida e preziosa, il minuscolo studio con il camino fiammeggiante, l’immensa foto di Francesca Bertini con la dedica al senatore Bruno di Belmonte, il dipinto di Vittorio Emanuele terzo con la divisa da cavaliere di Malta, i busti marmorei dei re e dei grandi musici, la cantina trasformata in una sala da pranzo cinquecentesca, sorvegliata da una gigantesca armatura, le poltrone di pelle, il calamaio con la penna d’argento, il cucchiaio con la sabbia per asciugare l’inchiostro, la clessidra di cristallo, quel maggiordomo azzurro e triste, che recava il caffè su un grande vassoio d’argento e restava così chino, finché tu non riponevi la chicchera vuota.
Fuori da quella casina il mondo tremava di guerre, incendi, rivolte, attentati, le brigate rosse, la strage dei fedain, la diossina, ma in quella stanza c’era un grande fuoco di camino, un maggiordomo azzurro curvo a reggere un grande vassoio d’argento, e Don Pietro Bruno di Belmonte che sorrideva dirimpetto a me.
Con la mansuetudine sorridente di chi è convinto che le grandi cose della vita sono passate oramai e tutto quello che resta o accade ora, è soltanto effimero. Fece un gesto verso la finestra. Capii che al di là della finestra egli voleva indicare le colline, poi le campagne, infine quel castello rosso e bianco sulla punta estrema dell’Europa, e infine il mare.
Disse: «Le tonnare esistono da migliaia di anni, le inventarono i fenici, ma furono gli arabi che ne fecero un’arte, da allora insuperata. Il primo ad armare una tonnara su questa riviera, cento anni or sono, fu mio nonno Don Pietro. Prese tremila tonni. Era un uomo generoso e ricchissimo, conosceva sovrani e ministri, poeti, attrici, quando alla fine del secolo venne lanciato un prestito nazionale, egli partecipò con dieci milioni di lire, faccia conto trenta miliardi di oggi. Le sue tonnare catturavano tanto pesce che bisognava chiamare a raccolta i vignaioli dalle campagne per farsi aiutare nella mattanza, e con le ossa dei tonni si potevano concimare tutte le terre della costa. Mio nonno era veramente un padrone del mare…»
Don Pietro si perdette per un attimo dietro la sua malinconia. Solo un attimo. Guardò quei quadri delle pareti, suo nonno con i grandi baffi e smoking, suo padre senatore che sorrideva dalla poltrona dorata, quei volti bellissimi di donne, dentro le cornici ovali. Mi fece un impercettibile gesto per chiedermi se volevo ancora del whisky, ed anche nella perfetta malinconia di quel gesto c’era il significato che tutte le cose importanti della terra erano passate per sempre oramai.
«È una legge antichissima quella delle tonnare. Risale ad Isabella la Cattolica la quale concedeva il diritto di armare la tonnara a quel nobile che in cambio le donasse un cavaliere, cioè un cavallo purosangue, montato da un soldato giovane e forte, con corazza e armi. Per sei mesi, da aprile a settembre il proprietario della tonnara diventava padrone di tutto quel tratto di mare fino a due miglia dalla costa. Nessuno poteva pescare, né alcuna barca navigare in quel tratto. Sono pochi i padroni del mare in Italia. La legge italiana è stata sempre più nemica, prima il diritto venne ridotto a trent’anni, poi a quindici, poi a dieci, infine a cinque. Cioè, se trascorrono cinque anni, senza che il padrone abbia armato la tonnara, allora è segno che non ha più volontà di possederla, perde la proprietà».
«Certo, quest’anno io dovrei armare la tonnara, ma oramai il mare è avvelenato per tutta la costa di Siracusa, i branchi passano sempre più lontani, bisognerebbe stendere una rete almeno per dieci chilometri dalla costa, costa due o tre miliardi. E se viene una tempesta di vento? Quando scirocco e levante arrivano insieme il mare diventa pazzo e straccia le reti come carta. E se i tonni passano ancora più lontano? Basta una carica di esplosivo e il branco schizza via di due chilometri. Mio nonno diceva che armare la tonnara è un gioco d’azzardo, uno “chemin de fer” sul quale si punta tutto in un colpo solo. Può venire il nove oppure la cisti!» La visita era finita.
Don Pietro si alzò sorridendo: «Lo Stato non ci aiuta. Lo Stato dice: tu sei il padrone del mare, che vuoi da me? Prendi le tue campagne, la tua casa, i tuoi anelli, il palazzo che possiedi, quindi anche la tua vita, e metti tutto in un gettone. Chiama il banco!» Aprii la porta che dava sul cortile e il maggiordomo si slanciò in un piccolo balzo con la grande mano bianca sospesa in un gesto di sgomento. Contrasse il volto in un improvviso dolore. Mormorò: «Chiedo umilmente perdono!» «Di che?» «Di non aver fatto in tempo ad aprire l’uscio!»
A cento miglia da questa casina preziosa, con la foto della regina Elena che si sfila la fede d’oro dal dito per donarla alla Patria, in mezzo al Mediterraneo navigano piccole navi strane, tozze e velocissime, le quali scandagliano il mare con strumenti elettronici e avvertono i branchi dei tonni già a venti chilometri, definiscono la velocità e la direzione del pesce, lo precedono a tutta velocità e intanto calano le reti da una nave all’altra, con ali d’alluminio che tengono il fondo della rete a cinquanta metri dalla superficie e via via che il branco s’accosta, le navi si dispongono sulla sua traiettoria in modo che i tonni vadano ad infilarsi dentro quell’imbuto, centinaia, migliaia ogni volta.
Ed allora le navi cominciano ad accostarsi, si forma una quadrato sempre più stretto, una camera della morte che non si ferma mai, corre insieme ai tonni, diventa sempre più stretta, più alta, finché tutto il mare si copre di schiume furenti, migliaia di tonni che fulmineamente, silenziosamente sempre correndo, senza fermarsi mai, vengono inghiottiti nelle stive, affettati, congelati. Sono navi giapponesi. Sulla costa gialla della Sicilia, cento miglia ad est, i vecchi rais sono seduti in fila, a guardare il mare in attesa che qualcuno fra un giorno o fra un anno chiami il banco, per il piacere d’essere ancora padrone del mare
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