Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Molto resta da chiarire sulla genesi di quel progetto criminale e le sue reali finalità, che sono state finora forse troppo sbrigativamente saldate in un unico disegno criminoso alle stragi progettate ed attuate nel corso del 1993, nel solco della ricostruzione operata nei processi di Firenze.

Ma non è azzardato affermare - come chiosa la sentenza impugnata - che, per le sue proporzioni (sarebbe stata una strage senza precedenti per numero di vittime) e gli effetti dirompenti che potevano seguirne, tanto più in una situazione di particolare debolezza delle istituzioni con un Governo dimissionario e un’infuocata campagna elettorale in vista, agitata e avvelenata dalle “scorie” di Tangentopoli, sarebbe stato un evento capace di cambiare il corso della storia del nostro paese.

E se è vero che falli per il difettoso funzionamento del telecomando azionato dal commando incaricato della strage (e il tentativo non fu reiterato anche perché quattro giorni dopo i fratelli Graviano) non si può negare che esso sia stato oggetto di un’accurata e meticolosa preparazione con ripetuti sopralluoghi e ampio dispiegamento di uomini e mezzi come si è accertato anche attraverso l’imponente mole di risultanze incontestate e acquisite a riscontro della dettagliata ricostruzione offerta da Spatuzza (cfr. deposizioni dei testi Massimo Cappotella e Sandro Michele, entrambi funzionari della Dia; e pagg. 28 14-2834 della sentenza di primo grado).

Il giudice di prime cure ne trae una conferma indiretta della validità della ricostruzione fattuale secondo cui Cosa nostra, protesa a rinnovare la minaccia di nuovi eclatanti attentati se non fossero state accolte le sue richieste, non poteva che scorgere in modeste concessioni a favore dei detenuti mafiosi solo un segno di debolezza dello Stato e quindi l’incoraggiamento a proseguire nella via tracciata l’anno prima dal suo capo, Salvatore Riina.

Obiettivo: colpire i carabinieri

Ma soprattutto, il fatto che obbiettivo della nuova strage progettata allo Stadio Olimpico fossero i Carabinieri, così come la circostanza che essa si saldasse in un unico disegno criminale agli attentati commessi nel medesimo contesto temporale in Calabria (il 2 dicembre ‘93, il 18 gennaio 1994 e l’1 febbraio 1994) ai danni sempre di militari dell’Arma (come pure si evince non solo dalle pur tardive rivelazioni di Conso lato Villani ma anche da un frammento significativo ed assai probante del racconto di Spatuzza a proposito dell’incontro con Giuseppe Graviano al bar Doney, e al riferimento che lo stesso Graviano avrebbe fatto al duplice omicidio dei carabinieri occorso il 18 gennaio 1994: “..lui mi comunica che erano stati uccisi due carabinieri, si erano mossi i calabresi che avevano ucciso due Carabinieri..”); e ovviamente il fatto che non si trattasse di una coincidenza casuale (come del resto fu inteso all’epoca dal Comandante generale dell’Arma, generale Federici, secondo quanto può evincersi da un’annotazione contenuta in una delle agende del presidente Ciampi alla data del 2 febbraio 1994) costituirebbe la riprova che si volesse dare un segnale preciso alla politica, o a quella parte della politica rea di avere fatto arenare la trattativa già avviata, respingendo le richieste che erano state avanzate da Riina; giacché in quella fase della trattativa, erano stati proprio i carabinieri a farsi avanti come emissari dello stato (o almeno così avevano creduto Riina e i suoi luogotenenti).

Si è già detto che questa seconda parte del ragionamento, e le conclusioni cui approda, nonostante alcuni eccessi argomentativi dei quali l’ipotesi ricostruttiva accolta può fare a meno, è largamente condivisibile, grazie anche al riscontro incrociato delle dichiarazioni di Spatuzza e Conso lato Villani: fonti del tutto autonome e non sospettabili di alcuna contaminazione reciproca, che senza sapere nulla l’uno dell’altro delineano entrambi il quadro di una stratega eversiva congiuntamente ordita da Cosa Nostra e ‘ndrangheta calabrese per colpire non più monumenti e vittime indeterminate o casuali, ma direttamente e specificamente l’Arma dei carabinieri.

Fonti supportate dalle dichiarazioni di Brusca, a loro volta incrociate con quelle di Spatuzza, che comprovano l’avere Spatuzza riferito allo stesso Brusca della strage mancata allo Stadio Olimpico, del ruolo di Giuseppe Graviano e dell’essere i Carabinieri obbiettivo di quell’attentato: di tal che ne uscisse chiaro il messaggio intimidatorio per cui, secondo le parole che Spatuzza attribuisce a Graviano (con riferimento alla riunione operativa di Campofelice di Roccella in cui fu progettato l’attentato allo Stadio Olimpico), “chi si deve muovere si dà una smossa”.

E la datazione certa del duplice omicidio di carabinieri in Calabria (18 gennaio 1994) cui aveva fatto riferimento Graviano nell’incontro al bar Doney, a sua volta avvenuto il mercoledì o il giovedì precedente alla domenica nella quale era progettato l’attentato (e quindi il 19 o il 20 gennaio 1994) assurge a formidabile riscontro esterno.

Ma gli ulteriori passaggi del ragionamento articolato in sentenza perdono ogni aderenza con le risultanze processuali. Appare francamente eccessivo e non supportato dagli elementi raccolti, che dalla progettata strage all’Olimpico possa trarsi la prova che, dopo che il Governo aveva mostrato di recepire la minaccia delle cosche mafiose siciliane, lasciando decadere, nel novembre 1993, moltissimi provvedimenti applicativi del regime del 41 bis (e fin qui si può concedere che la scelta di Conso e le ragioni che la motivarono assurgono a prova della ricezione della minaccia da parte del Governo pro-tempore, con tutte le precisazioni già fatte e quelle che ancora seguiranno):

• “Cosa Nostra” aveva immediatamente percepito e raccolto quel segnale di cedimento dello Stato rispetto alla linea della fermezza propugnata;

• che aveva ritenuto, conseguentemente, che l’accettazione del dialogo sollecitato dai Carabinieri stesse producendo i suoi frutti;

• che sarebbe stato utile, per la stessa “cosa nostra”, costringere i Carabinieri a riallacciare le fila di quel dialogo interrottosi con l’arresto di Vito Ciancirnino;

• che ne sarebbe seguita la necessità di lanciare un messaggio che coloro che tra i Carabinieri erano a conoscenza dei pregressi fatti ed approcci avrebbero potuto ben percepire.

Spatuzza e i fratelli Graviano

L’attentato all’Olimpico sarebbe stato quindi «inevitabile effetto del segnale di cedimento dello Stato conseguente alla mancata proroga dei decreti del 41 bis subito raccolto da “cosa nostra” per dare il “colpo di grazia” e piegare definitivamente la volontà degli interlocutori istituzionali su tutte le richieste che erano state avanzate quali condizioni per la cessazione delle stragi».

Tutto ciò appare francamene ridondante e forzoso in simili inferenze è prefigurare addirittura un rapporto di causa effetto tra l’improvvida - secondo la valutazione del primo giudice - decisione di Conso di non rinnovare centinaia di decreti applicativi del 41 bis, e le successive mosse dei vertici di Cosa nostra, a partire dal progetto di attentato allo stadio Olimpico di Roma di cui solo i fratelli Graviano, e segnatamente Giuseppe Graviano sembra essere stato ideatore, oltre che organizzatore e mandante. Senza dire che il ragionamento suesposto glissa sul fatto che l’attentato fu messo in atto il 23 gennaio, quando era imminente, ma non ancora presa e tanto meno annunciata, la decisione sui decreti che scadevano una settimana dopo e che teoricamente avrebbero dovuto stare a cuore dei vertici di Cosa nostra, per il livello degli associati che vi erano interessati, ancora più di quelli scaduti (e non rinnovati) a novembre.

Piuttosto, è verosimile che le spaccature già esistenti avessero già dato luogo, all’inizio del 1994 ad una divaricazione nelle visioni strategiche e nelle conseguenti scelte dei capi dell’organizzazione mafiosa, per cui una parte importante di Cosa nostra, e in particolare quella riconducibile proprio a Provenzano se stiamo alle dichiarazioni di Giuffré e Ciro Vara, aveva sposato con convinzione l’idea di una soluzione tutta politica dei propri problemi, mobilitandosi vuoi per la costituzione di una propria diretta rappresentanza politica (come il movimento “Sicilia Libera” in cui persino il sanguinano Leoluca Bagarella aveva inizialmente creduto e investito), vuoi per appoggiare il nuovo soggetto politico che stava nascendo e prometteva di poter essere un cavallo vincente per Cosa nostra.

Ma ammesso che Giuseppe Graviano non sia stato l’unico ideatore e stratega del fallito attentato allo Stadio Olimpico (come pure farebbe pensare il fatto che, usciti di scena i fratelli Graviano. di quel progetto non si parlerà più benché gli altri capi che avevano concertato la sanguinosa filiera delle stragi in continente fossero ancora tutti liberi; mentre fu portato avanti il progetto di attentato a Contorno, in quel di Formello,) è lecito chiedersi se il disegno stragista coltivato da Giuseppe Graviano e ai suoi sodali non si sia snodato lungo traiettorie e in tempi che ignoravano le scadenze dei decreti applicativi del 41 bis; e che non fossero minimamente influenzati — e influenzabili — nè dalla decisione già adottata di non rinnovare i decreti scaduti a novembre. né della decisione ancora da prendere (l’attentato era programmato per domenica 23 gennaio 1994) alla fine di gennaio ‘94. Se stiamo alla narrazione di Spatuzza, l’ordine di procedere alla concreta organizzazione dell’attentato venne impartito dal Graviano nel corso della riunione tenutasi in un villino a Campofelice di Roccella tra la fine del ‘93 e i primi giorni di gennaio del ‘94 (sul punto Spatuzza non ha saputo essere più preciso, ma nelle sue prime dichiarazioni aveva parlato della fine del ‘93 perché rammentava che il villino in questione era in un residence in località balneare ed era certamente bassa stagione).

Ciò che fa presumere che il progetto fosse stato ideato ancora prima. E la decisione di procedere a quell’eclatante azione criminale s’inquadrerebbe in un contesto in cui, per dirla con le parole che Spatuzza avrebbe udito dalla viva voce dello stesso Graviano c’era in piedi una situazione che se va a buon fine ne avremo tutti dei benefici, a cominciare dai carcerati.

Fu in quel medesimo frangente, che il Graviano, forse per ravvivare il morale dei suoi uomini non proprio soddisfatti della piega che stavano prendendo gli eventi, con tanti morti che non centravano niente con Cosa nostra (per dire che erano tutte vittime “innocenti”), li rassicurò che dovevano proseguire sulla strada intrapresa che avrebbe dato i suoi frutti; e al disagio e anche il rammarico manifestato da Spatuzza per quelle morti, replicò seccamente che è bene che ci portiamo dietro un bel po‘ di morti, “così chi si deve smuovere si dà una smossa”.

Ora, il punto è che nell’economia della narrazione di Spatuzza spicca la considerazione che a quella riunione operativa e a quelle parole di Graviano si ricollegano — o almeno Spatuzza dice di avere fatto subito quel collegamento — le parole che sempre il Graviano ebbe a pronunciare in occasione dell’incontro al bar Doney, avvenuto pochi giorni prima della domenica in cui era previsto l’attentato. In tale occasione espresse infatti tutta la sua soddisfazione per come si erano messe le cose, perché, in sostanza “avevamo ottenuto tutto quello che avevamo chiesto”, riferendosi alle garanzie date dai nuovi referenti di Cosa nostra — indicati nelle persone di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri «che erano persone serie, a differenza di come si erano dimostrati quei quattro crasti dei socialisti» («sempre con quell‘espressione gioiosa mi comunica che avevamo chiuso tutto. Che avevamo ottenuto tutto quello che cercavamo, grazie a delle persone serie che avevano portato avanti questa cosa. Cioè mi riferisce... questa cosa io.. questo incontro lo collego all‘incontro di Campofelice di Roccella. perché quando lui mi dice che avevamo chiuso tutto e ottenuto tutto quello che cercavamo, ricolleghiamo noi l‘incontro di Campofelice di Roccella che avevano portato avanti questa cosa avevano chiuso tutto»).

E Spatuzza spiega di avere operato quel collegamento anche perché fu Graviano a dire «ve l‘avevo detto che le cose andavano a finire bene, di tutto quello che lui mi aveva prospettato lì a Campofelice di Roccella che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo grazie a queste persone che avevano portato avanti questa cosa. E aggiunse — sempre il Graviano — che grazie anche a queste persone c‘eravamo messi addirittura il Paese nelle mani».

"Dare il colpo di grazia”

La strage in programma all’Olimpico, e più esattamente, l’attentato contro i carabinieri, sempre a dire del Graviano «lo dobbiamo fare perché con questo gli dobbiamo “dare il colpo di grazia”: e dunque serviva portarsi dietro tutti quei morti, e che i morti fossero Carabinieri, per coronare il disegno di avere “il Paese nelle mani».

Ciò posto, è di tutta evidenza che, a prescindere dai tempi di effettiva gestazione del progetto di strage allo Stadio Olimpico, la posta in gioco era così alta che non potevano essere le decisioni del ministro o di un intero Governo (dimissionario) in ordine a qualche decina di provvedimenti applicativi (non tutti i 334 decreti scaduti a novembre riguardavano affiliati a Cosa nostra; e lo stesso dicasi per i 232 decreti che furono invece rinnovati con provvedimento del 30 gennaio 1994) a fare la differenza, nel senso di condizionare le scelte strategiche dell’organizzazione, o di quella componente di essa che aveva in Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro i suoi più autorevoli esponenti.

Scelte che erano maturate puntando ad obbiettivi molto più ambiziosi, anche se tra di loro poteva annoverarsi, più che un ammorbidimento del 41 bis, il suo smantellamento (come nelle originarie richieste), insieme alla cancellazione di altri presidi normativi della lotta alla mafia.

Infatti, nella ottimistica prognosi di Giuseppe Graviano si profilava, grazie alle alleanze tessute con nuovi referenti della politica e dell’imprenditoria, la possibilità concreta di mutamenti politico-istituzionali ditale portata da consentire a Cosa nostra di mettersi il paese nelle mani.

In tale prospettiva, il progettato attentato all’Olimpico, destinato questa volta a mietere centinaia di vittime (a differenza di quelle accidentalmente prodotte dalle stragi già consumate a Firenze come a Roma e a Milano) doveva essere una sorta di spallata decisiva ad un sistema sull’orlo dei collasso, il colpo di grazia di cui parlava Graviano.

Se è vero poi che questo piano per essere portato a compimento richiedeva di rinsaldare l’alleanza con le altre organizzazioni criminali di stampo mafioso, e in particolare con la ‘ndrangheta calabrese, e doveva attuarsi attraverso una serie coordinata di eclatanti azioni dirette a colpire bersagli-simbolo dell’autorità dello Stato, secondo un progetto di destabilizzazione delle istituzioni per favorire nuovi assetti di potere, ben si comprende come un disegno strategico di tale portata non poteva essere condizionato dal mantenimento o dal rinnovo o dalla mancata proroga di alcune centinaia di decreti applicativi del 41 bis (che peraltro non interessavano tutti e soltanto detenuti mafiosi), pur essendo i vertici dell’organizzazione mafiosa certamente informati e interessati a ciò che accadeva nel mondo delle carceri.

D’altra parte, non è un dettaglio di poco conto che, per quanto possa scavarsi nelle fonti documentali e dichiarative compulsate in questo processo, come in quelli che hanno trattato più specificamente l’episodio della strage mancata all’Olimpico (per essere il fatto oggetto di una delle imputazioni per cui ivi si procedeva), e ci riferiamo in particolare alle dichiarazioni dei tanti collaboratori di giustizia escussi, non è emerso neppure una traccia, che sia una, del fatto che i vertici di Cosa nostra abbiano valutato e discusso in qualche modo le decisioni del ministro Conso , e tanto meno che ne abbiano tratto impulso a proseguire sulla via intrapresa. O addirittura a reagire con un nuovo e più tremendo colpo a quello che poteva apparire come un segnale di debolezza dello Stato.

Che possano averne fatto oggetto di valutazione, resta una plausibile congettura, legata alla certezza ampiamente acquisita che le vicende del “carcerario” e la sorte degli associati che languivano ai 41 bis non potevano essere ignorate ed erano seguite dai capi dell’organizzazione.

Ma altro è spingersi a sostenere che la cognizione di quella decisione abbia avuto un qualche impatto sulla decisione di ordire un massacro all’Olimpico. Mentre altre fonti, costituite da collaboratori di giustizia di comprovata affidabilità e che hanno ricoperto un ruolo di spicco durante la loro militanza in Cosa nostra (come Ciro Vara e Antonino Giuffré) avvalorano con le loro dichiarazioni l’ipotesi che almeno una parte cospicua dell’organizzazione era ormai orientata da aprire un capitolo completamente nuovo nella storia dei rapporti tra mafia e politica.

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