Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Il senatore Di Pietro, sulla cui deposizione si tornerà in prosieguo per gli spunti che ha offerto alla riflessione sui temi di questo processo, ha confermato che le indagini della procura di Milano su vicende di corruttela politico-affaristica che investivano alcuni dei più grossi gruppi imprenditoriali nazionali portavano (anche) in Sicilia. Così come la ricostruzione di flussi di denaro provento di tangenti a politici, conduceva a conti di comodo (prevalentemente in banche svizzere) da cui poi partivano ulteriori flussi verso altri conti nella disponibilità di faccendieri e personaggi legati ad ambienti mafiosi.

Ma non appena imprenditori e funzionari d’impresa che facevano la fila davanti alla sua stanza in procura, mostrandosi disponibili a collaborare alle inchieste, venivano invitati a parlare degli appalti in Sicilia, ecco che si trinceravano dietro un assoluto silenzio. E questo muro di omertosa reticenza s’implementò sensibilmente dopo Capaci e ancor più dopo via D’Amelio.

Alla fine, il pool di Mani Pulite riuscì, grazie alla mediazione del procuratore di Milano Borrelli e del nuovo procuratore di Palermo Caselli (ma siamo già nella prima metà del 1993), a coordinare le proprie indagini con quelle istruite dall’omologo ufficio palermitano sulla base di un riparto di competenze che valse a sciogliere il grumo di reticenze degli imprenditori del nord che avevano fatto affari in Sicilia, spartendosi gli appalti con cordate di imprese locali più o meno vicine o contigue a Cosa nostra e con la mediazione di faccendieri o imprenditori collusi (e che ottennero in pratica di continuare ad essere processati a Milano, per connessione con i reati di ordinaria corruzione/concussione ivi commessi; mentre i loro correi per gli affari in Sicilia venivano processati per il reato di cui all’an. 416 bis).

Insomma, nel sistema verticistico e unitario di gestione illecita degli appalti in Sicilia era risultato a vario titolo coinvolto il Gotha dell’imprenditoria nazionale; e Cosa nostra era proiettata a giocare un ruolo preminente in questo sistema: cosa che in effetti avvenne negli anni successivi, come i processi del filone mafia e appalti avrebbero poi dimostrato.

Ebbene, di queste problematiche Antonio Di Pietro aveva parlato con il dott. Borsellino — che si onorava della sua amicizia, come lo stesso magistrato ucciso aveva dichiarato in un’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 22 maggio 1992: v. infra - e insieme avevano deciso di rivedersi per definire un programma di lavoro comune che assicurasse un proficuo coordinamento di indagini che apparivano sempre più strettamente collegate, come accertato già nel proc. Nr. 29/97 R.G.C.Ass. “Agate Mariano+26”: «Il senatore Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione. Ha altresì riferito il teste che mentre a Milano e nella maggior parte del territorio nazionale si stava registrando in misura massiccia il fenomeno della collaborazione con la giustizia di molti degli imprenditori che erano rimasti coinvolti nel circuito tangentizio, ciò non si era verificato in Sicilia e Borsellino spiegava tale diversità con la peculiarità del circuito siciliano, in cui l’accordo non si basava solo due poli, quello politico e quello imprenditoriale, ma era tripolare, in quanto Cosa nostra interveniva direttamente per gestire ed assicurare il funzionamento del meccanismo e con la sua forza di intimidazione determinava così l’omertà di quegli stessi imprenditori che non avevano, invece, remore a denunciare l’esistenza di quel sistema in relazione agli appalti loro assegnati nel resto d’Italia. Intenzione di Borsellino e Di Pietro era quella di sviluppare di comune intesa delle modalità investigative fondate anche sulle conoscenze già acquisite, per ottenere anche in Sicilia i risultati conseguiti altrove. E Borsellino stava già traducendo in atto questo progetto, come dimostrano le dichiarazioni rese dai predetti testi Mori e De Donno, che hanno riferito di un incontro da loro avuto con Borsellino il 25 giugno 1992 presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo».

Il sistema degli appalti e la mafia

In effetti, il peculiare ruolo di Cosa nostra nella gestione illecita degli appalti in Sicilia sarà messo a fuoco quando le risultanze dell’originario proc. nr. 2789/90 N.C. a carico di Siino Angelo e altri saranno integrate con le rivelazioni di quei collaboratori di giustizia che avevano acquisito — sul campo — una vera e propria specializzazione nel settore degli appalti pubblici.

Si accerterà così che Panzavolta, Bini, Visentin e Canepa, ossia il management delle varie società del Gruppo Ferruzzi consociate della Calcestruzzi Spa di Ravenna per anni si erano prestati a fare affari con imprenditori siciliani che erano l’interfaccia del gruppo mafioso egemone.

In particolare, i Buscemi di Boccadifalco (Salvatore e Antonino) erano tra gli esponenti mafiosi più vicini a Riina, e da soli non avrebbero avuto, per quanto influenti, la forza di imporsi all’attenzione di uno dei gruppi imprenditoriali più importanti dell’economia nazionale, fino a costituire una sorta di monopolio nel settore degli appalti di grandi opere e nella produzione e fornitura di calcestruzzi. La loro ascesa fu sponsorizzata dai vertici di Cosa nostra, nell’ambito di un sistema che finì per ridimensionare e poi emarginare lo stesso Siino Angelo, confinato nei limiti della “gestione” di appalti di dimensioni medio-piccole, ossia per importi inferiori a 5 mld. di lire (e su base provinciale: gli appalti banditi dall’amministrazione provinciale di Palermo: cfr. Brusca e Siino).

Ma è la grande impresa italiana a fare affari in Sicilia con Cosa nostra, attraverso cordate di imprenditori collusi o compiacenti verso le imprese mafiose.

E tale sistema, i cui prodromi s’intravedono sullo sfondo delle prime inchieste del filone mafia e appalti come quella compendiata nel rapporto del Ros depositato il 20 febbraio 1991 era già giunto a piena maturazione quando si apre la stagione delle stragi, ma era proseguito anche oltre: come accertato, tra gli altri, nel proc. nr. 1120/97 n.c.- Dda, istruito dalla Dda di Palermo a carico di Buscemi Antonino, Bini Giovanni, Salamone Filippo, Micciché Giovanni, Vita Antonio,

Panzavolta Lorenzo, Canea Franco, Visentin Giuliano, Bondì Giuseppe, Crivello Sebastiano per i reati di associazione mafiosa, turbativa d’asta e illecita concorrenza con violenza e minaccia (e per fatti commessi fino a tutto il 1991, e anche negli anni successivi. Procedimento che, avvalendosi delle propalazioni di Angelo Siino, che nel frattempo si era determinato a collaborare con la giustizia, si profilava quale naturale prosecuzione e sviluppo di quanto emerso già in altri procedimenti nell'ambito delle indagini relative all'illecita aggiudicazione di appalti pubblici ed allo strutturato sistema di controllo degli stessi da parte dell'associazione per delinquere di tipo denominata Cosa nostra.

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