Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Questa intuizione era già stata fatta propria da Giovanni Falcone, che, nella relazione (oggetto di infinite citazioni, anche in questo processo e non sempre a proposito) svolta ad un convegno tenutosi al Castello Utvegio a Palermo nel marzo del 1991 — e quindi quando egli si era appena trasferito al ministero — richiamava le risultanze di recenti indagini per trarne la conferma che la portata dell’infiltrazione mafiosa nel tessuto economico ed in particolare nel settore dei pubblici appalti fosse «più grave molto più grave di quelle che appare all‘esterno. Perché siamo di fronte ad un meccanismo di condizionamento generico dei pubblici amministratori e dei pubblici poteri da parte delle imprese che, a ben guardare, appare identico sia nel mezzogiorno sia nel centro e sia nel settentrione d’Italia».

Ma «accanto ad un coinvolgimento generico delle imprese in attività illecite e ad un certo tipo di corruttela generica dei pubblici amministratori, abbiamo un condizionamento mafioso che si innesta e sfrutta questa attività criminale che, in quanto generica, potremmo chiamare ambientale (...) Io credo che, almeno per quanto riguarda l’organizzazione mafiosa, ci sia ormai un condizionamento dei pubblici appalti, che potrei definire a ciclo continuo; esso esiste sia all‘origine, ossia nel momento della scelta delle imprese (e questo a prescindere da qualsiasi sistema più meno sofisticato sul tipo e sui criteri di assegnazione degli appalti), e sia nella fase di esecuzione degli appalti medesimi.

Quindi abbiamo un condizionamento a monte e un condizionamento a valle. Un condizionamento mafioso nella fase dell‘individuazione dei concorrenti che vinceranno le gare, ed un condizionamento in tutta la complessa attività che concreta la realizzazione degli appalti in questione. Ed abbiamo soprattutto, e questo nel futuro verrà fuori chiaramente, una indistinzione fra imprese meridionali e imprese in altre zone d’Italia, per quanto attiene il loro condizionamento e il loro inserimento in certe tematiche di schietta matrice mafiosa»; poiché, aggiungeva «è illusorio pensare che le imprese appartenenti ad altre realtà socio-economiche, nel momento in cui partecipano a gare che dovranno essere realizzate in determinate zone del Mezzogiorno d‘Italia, rimangano immuni da un certo tipo di collegamenti. Sia che lo vogliano, sia che non lo vogliano. Sono state acquisite, tramite intercettazioni telefoniche, chiarissime indicazioni di ben precise scelte operative dell‘organizzazione mafiosa, a cui tutti devono sottostare e non vogliono subire conseguenze gravissime, a meno che non si vogliano autoescludere dal mercato».

L’intuizione di Falcone

Nella relazione si addita ancora la vicenda dell’ex sindaco di Baucina Giaccone — le cui rivelazioni avrebbero impresso un impulso significativo al primo troncone dell’indagine mafia e appalti — come emblematica di un modus operandi incentrato su collusioni politico-mafiose affaristiche, se era vero quanto lo stesso Giaccone affermava, e cioè «che le opere vengono finanziate soltanto dopo che si è trovata l‘impresa che è gradita a questo o quel partito, e soltanto dopo che in sede locale il capo mafia abbia dato l’assenso».

E in alcuni passaggi della relazione, si adombra un aspetto particolarmente inquietante disvelato dalle ultime indagini su episodi di infiltrazione mafiosa che denotavano come le imprese si prestassero anche volontariamente ad un sistema di manipolazione delle gare sotto il controllo dell’organizzazione mafiosa, ricavandone cospicui vantaggi, di tal che «molto spesso non è necessaria un‘azione di rappresaglia, forte e violenta; questo avviene soltanto all’ultimo e nei confronti di coloro che veramente non vogliono capire», ma «Ci sono tali e tanti di quei passaggi intermedi, per cui qualsiasi impresa finisce per comprendere che, volente o nolente, è questo il sistema cui deve sottostare e non ci sono possibilità di uscirne fuori».

Starebbe proprio qui — e il giudice Falcone ne era ben consapevole, come può evincersi dai passaggi richiamati della nota relazione svolta al Castello Utvegio — il carattere addirittura eversivo che l’informativa del R.O.S su mafia e appalti depositata alla procura di Palermo il 20 febbraio 1991 avrebbe rivestito, secondo l’interpretazione autentica che ne ha dato il colonnello De Donno, che ne era stato estensore, deponendo al processo a carico del generale Mori e del colonnello Obinu: «le imprese che partecipavano a questo meccanismo noti erano, e qui era un po' il carattere, tra virgolette, eversivo della nostra indagine, non erano soltanto vittime, erano attori volontari di questo meccanismo, cioè l‘impresa che veniva dal nord non soggiaceva al potere intimidatorio di Cosa nostra o perlomeno, iniziava così, con questo vincolo di soggezione il rapporto con Cosa nostra, ma poi il vincolo si trasformava in una vera e propria collaborazione perché attraverso l‘intermediazione di Cosa nostra, di Siino e di altri personaggi, ne ottenevano poi una serie di vantaggi, in termini di riconoscimento di opere, cioè di aumenti di valore dell'opera stessa, per cui, alla fine, a conti fatti, una parte consistente di questi guadagni andavano all’impresa nazionale».

L’audizione in Commissione Antimafia

Del resto, già diversi mesi prima, e precisamente nel giugno 1990 — e la data è significativa perché coincide con quella di alcune delle informative che davano conto delle risultanze dell’attività di intercettazione telefonica in corso nell’ambito dell’indagine mafia e appalti e dei suoi possibili sviluppi – il giudice Falcone, sentito dalla commissione antimafia (XI Legislatura) presieduta dal senatore Chiaromonte, nell’additare il problema degli appalti pubblici come un punto cruciale nella strategia antimafia, sosteneva che le indagini — e le prove — che, una dopo l’altra, stavano venendo a compimento e a maturazione confermavano l’ipotesi di un sistema mafioso che, per quanto concerne i grandi appalti, e, nei piccoli centri, per tutti gli appalti, ne gestisce in pieno l’esecuzione.

E in particolare, proprio sulla base dei risultati cui erano approdate le indagini svolte da almeno un biennio dai carabinieri con encomiabile professionalità, si era consolidata l’ipotesi dell’esistenza di ima centrale unica di natura mafiosa che dirige e l’assegnazione degli appalti e soprattutto l’esecuzione degli appalti medesimi, con inevitabili coinvolgimenti delle amministrazioni locali sia a livello di strutture burocratiche sia a livello di alcuni amministratori.

Ebbene, l’interesse di Paolo Borsellino ad approfondire questo filone d’indagine — individuato, dopo l’indagine su Gladio, come uno di quelli cui in precedenza Giovanni Falcone, nel suo ultimo periodo di servizio alla procura di Palermo aveva prestato maggiore attenzione — è stato pienamente confermato dalle testimonianze di Liliana Ferraro e del senatore Di Pietro, oltre a trovare un inedito riscontro nei verbali delle audizioni dei magistrati della procura della repubblica di Palermo dinanzi al Csm che sono state acquisite nel presente giudizio d’appello (senza dimenticare la conferma che è venuta dalle dichiarazioni del Tenente Canale, con tutte le cautele del caso quanto ad affidabilità della fonte e limiti di utilizzabilità ditali dichiarazioni, giacché nel corso del giudizio di primo grado si è avvalso della facoltà di non rispondere).

La Ferraro, in particolare, fu testimone della raccomandazione rivolta da Falcone a Borsellino di seguire con attenzione gli sviluppi dell’indagine compendiata nel voluminoso dossier mafia e appalti (quasi un passaggio dei testimone tra lo stesso Falcone, che non poteva occuparsene direttamente perché ormai al ministero, e il dott. Borsellino, che invece si era deciso a chiedere il trasferimento alla procura di Palermo) avendo assistito personalmente alla telefonata, databile ad agosto 1991, con la quale Falcone informava l’amico Paolo che aveva già pronta la Nota — che sarebbe stata poi firmata dal ministro Martelli — di restituzione al mittente dell’informativa mafia e appalti, che era stata inopinatamente trasmessa dal procuratore Giammanco al ministro della Giustizia.

E anche in occasione dell’incontro riservato all’aeroporto di Fiumicino del 28 giugno 1992, previamente concordato per telefono avendo necessità di parlarle di una serie di questioni della massima urgenza e delicatezza, il dott. Borsellino le chiese ulteriori notizie e spiegazioni sulle circostanze di quell’insolita trasmissione, e sul percorso seguito prima di giungere al tavolo del ministro (o meglio, alla segreteria della Direzione Generale Affari Penali): segno comunque dell’interesse per quell’indagine e per il primo rapporto giudiziario che ne compendiava le risultanze emerse a carico di numerosi soggetti indiziati di associazione mafiosa finalizzata al controllo degli appalti e connessi reati.

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