Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Non è risolutivo, per una datazione certa, neppure l’episodio di cui Giovanni Ciancimino aveva fatto cenno già al processo Mori/Obinu e che ha confermato anche in questa sede.

Un giorno, non sa precisare quando, ma era il ‘92, suo fratello Massimo, che era l’unico dei fratelli Ciancimino che viveva con il padre a Roma e lo assisteva quotidianamente, gli disse che il capitano De Donno doveva andare a trovare so padre insieme a un colonnello. Qualche tempo dopo, sempre Massimo, gli disse che l’incontro era avvenuto, e che anzi c’erano un via via di carabinieri per casa. Giovanni non aveva dato molto peso a queste confidenze del fratello, che ne diceva tante e spesso non si riusciva neppure ad afferrare il filo delle sue esternazioni. […] Ma comunque in cuor suo escluse che quelle confidenze di Massimo (ammesso che fossero veritiere: «mio fratello Massimo parlava di carabinieri, era vero, non era vero, che cosa c ‘era, proprio e ‘è l’imbuto, andiamo a fare la cernita») potessero riferirsi al discorso fattogli da suo padre a proposito della trattativa avviata per conto di personaggi altolocati, che immaginava essere soggetti di statura superiore a quella di due ufficiali dell’Arma […]. Il ragionamento di Giovanni Ciancimino - per il fatto stesso di essersi posto il problema - fa pensare che le confidenze di Massimo risalissero più o meno allo stesso periodo dei colloqui in cui suo padre gli parlò dell’incarico che a lui, Giovanni, aveva messo i brividi. Ma al di là di questa precisazione non sembra si possa andare.

Gli è stato contestato che, all’udienza dell’8.04.2014 nel processo Borsellino quater, aveva collocato, sia pure dopo una faticosa sequela di domande a chiarimento, in epoca successiva alla strage di via D’Amelio la notizia, datagli da suo fratello, che l’incontro che De Donno avrebbe dovuto avere insieme a un colonnello con suo padre, di cui Massimo gli aveva parlato in precedenza, era effettivamente avvenuto.

Ciò rispecchierebbe il timing prospettato da Mori e De Donno, quanto meno nella palle in cui esso colloca il primo incontro di Vito Ciancimino con i due ufficiali il 5 agosto 1992, ossia alcune settimane dopo la strage di via D’Amelio. E tuttavia dal medesimo verbale risulta che il teste ribadì, in quella sede, che il primo colloquio con suo padre sul tema della trattativa e dell’incarico che aveva ricevuto da personaggi altolocati era già avvenuto quando Massimo gli diede la notizia dell’avvenuto incontro del padre con i due ufficiali dell’Arma. Sicché residua l’incertezza sulla datazione di quel primo colloquio, e in particolare se esso fosse avvenuto prima o dopo la morte di Borsellino.

Può solo aggiungersi che se dovesse tenersi fede al ricordo che lega il primo colloquio di Giovanni con il padre al turbamento seguito alla strage di Capaci, andrebbe riscritto o il timing della trattativa o il contenuto delle interlocuzioni tra Vito Ciancimino e i due ufficiali del Ros.: perché vorrebbe dire o che c’era già stato (prima di via D’Amelio) almeno un primo incontro con Mori, e questi aveva avanzato la sua proposta (ma tale evenienza sembrerebbe esclusa da quanto il teste ebbe a dichiarare al Borsellino quater); oppure che Vito Ciancimino doveva ancora incontrare Mori e tuttavia, già nel corso dei colloqui a quattrocchi con il solo Capitano De Donno, gli era stato detto o lasciato intendere che il senso di quelle visite e di quei colloqui era di invitarlo ad adoperarsi per sondare la disponibilità dei vertici mafiosi ad avviare un dialogo: e ciò spiegherebbe per quale motivo Vito Ciancimino non avesse ancora raccolto l’invito, rimandando la decisione a quando avesse ricevuto dal colonnello Mori la garanzia della serietà e del livello della proposta, ovvero che non fosse soltanto un’iniziativa da “sbirri”.

In ogni caso, solo all’esito di tale garanzia, e di una conferma ed esplicitazione della proposta, egli poteva correre il rischio di informare Riina del fatto di essere stato contattato in via riservata da due ufficiali dell’Arma: ciò che avrebbe come minimo condensato sulla sua testa il sospetto di essere un confidente o peggio una spia dei carabinieri, se questi ultimi non fossero stati quelli che dicevano o lasciavano intendere di essere, e cioè meri emissari di più alte autorità.

Le dichiarazioni più recenti di Vito Ciancimino

Neppure può trarsi dalle dichiarazioni più recenti rese in alcuni interrogatori del 1997 e 1998 (cfr. pag. 1367 della sentenza: tre verbali di dichiarazioni rese da Vito Ciancimino al pm rispettivamente in data 3 giugno 1996, 5 agosto 1997 e 3 aprile 1998), o dallo scritto intitolato “I Carabinieri”, la certezza -rassegnata invece dal giudice di prime cure - che Vito Ciancimino abbia ricevuto due deleghe a trattare: la prima, riferita ai suoi contatti preliminari con il (solo) capitano De Donno; e la seconda a trattare più in generale con i carabinieri, di tal che possa inferirsene che Ciancimino abbia avvisato i suoi referenti mafiosi fin da quei primi contatti che sono sicuramente avvenuti prima della strage di via D’Amelio.

In realtà, anche nelle dichiarazioni successive, e nei passaggi in cui è ritornato su quanto aveva dichiarato già nel verbale d’interrogatorio del 17 marzo 1993, ha sempre detto che la delega a trattare — e peraltro ha parlato sempre di una sola delega — gli fu data a seguito di un ritorno di fiamma, e dopo che lui stesso aveva speso i nomi sia di De Donno che di Mori.

Si vorrebbe però ricavare dalla frase “piena delega a trattare, oltre al capitano De Donno, i carabinieri”, che le deleghe furono in realtà due (“Ci fu poi un ritorno di fiamma delle persone delle quali ho sopra detto le quali mi diedero piena delega a trattare oltre al Capitano poi pure carabinieri ci fu un ritorno di fiamma delle persone delle quali ho sopra detto, ai quali richiedettero che la delega a trattare da queste stesse persone”).

Ora, è innegabile, anzitutto, che la frase è inserita in un periodo tra i più confusi e contorti, oltre che sgrammaticati, della narrazione sciorinata da V.C. nei vari interrogatori in cui ha parlato o fatto cenno della vicenda in questione, e sarebbe problematico già solo per questa ragione pretendere di ricavarne elementi utili a dirimere la questione.

Ma soprattutto, è lo sviluppo logico della sequenza incentrata sul ritorno di fiamma a fare escludere che esso sottintendesse una precedente delega “parziale”, invece che piena, ovvero un’autorizzazione a incontrarsi con il solo De Donno.

Intanto, la scelta del termine “delega” è già sintomatica di un’investitura che va ben oltre l’autorizzazione a uno o più incontri. Ma poi, la sequenza che si intravede nella parole di Ciancimino è unica e unitaria: non esiste la scissione tra un primo contatto di Ciancimino con i vertici mafiosi per informarli della richiesta di De Donno di incontrarlo (e ne sarebbe scaturita la prima delega/autorizzazione); e poi un secondo incontro, per informarli della proposta (che però sarebbe stata avanzata da Mori e non da De Donno), cui sarebbe seguito prima uno sprezzante commento e poi un ripensamento (il ritorno di fiamma) con l’autorizzazione a proseguire l’interlocuzione con i carabinieri. Assecondare una simile ricostruzione equivale a riscrivere letteralmente la partitura delle dichiarazioni di Ciancimino, o adattarle a misura dell’esigenza di poter dare per provato, come si legge a pag. 2069 della sentenza appellata, «che certamente Vito Ciancimino ebbe ad informare Riina già sin dal suo primo approccio con il capitano De Donno (dunque a giugno 1992), tanto da essere subito “delegato” a portare avanti quel contatto prima che subentrasse anche il Col. Mori».

Ed invero, la locuzione “delega piena’ non autorizza a pensare che vi dovesse essere una precedente “delega parziale”: ma allude alla portata e al contenuto dell’unico incarico conferito dai vertici mafiosi a Ciancimino, una volta informati del tenore della proposta.

D’altra parte, la Corte di I grado si contraddice rispetto all’assunto che vorrebbe ricavare dalle più recenti dichiarazioni o da successivi scritti un chiaro indizio del fatto che Vito Ciancimino avesse informato i suoi referenti mafiosi già prima di accettare di incontrarsi con De Donno, per avviare quella fase di contatti “preliminari”. E la contraddizione balza evidente nel momento in cui la stessa Corte perviene alla conclusione che né dalle dichiarazioni del Ciancimino né dai suoi scritti è possibile ricavare elementi idonei a supportare una ricostruzione adeguata dei tempi di svolgimento della trattativa (cfr. pag. 1405):[...]. Ed anche valorizzando gli scarni spunti offerti dalla testimonianza dì Giovanni Ciancimino, che, come s’è visto, è l’unica fonte di prova che fornisce un minimo appiglio alla ricostruzione sposata in sentenza, l’esito sul piano probatorio non è comunque quello prospettato dal primo giudice.

Riina, Ciancimino e il ROS

Una significativa anticipazione dei tempi di svolgimento della trattativa tra Ciancimino e i carabinieri del Ros, rispetto alla narrazione che questi ultimi ne hanno fatto, sarebbe in ogni caso imprescindibile per convalidare l’assunto secondo cui Riina venne informato già prima della strage di via D’Amelio che uomini dello Stato si erano fatti sotto per trattare con Cosa nostra (o per sollecitare l’avvio di un negoziato); e che tale circostanza lo indusse a modificare i suoi piani, dando precedenza assoluta all’attentato al dott. Borsellino, che quindi sarebbe stato organizzato in tutta fretta. Ebbene, uno specifico passaggio della sentenza impugnata fa comprendere come lo stesso giudice di prime cure creda poco a tale anticipazione, o non si senta di asseverarla con certezza.

Nel motivare infatti l’attendibilità e la rilevanza probatoria delle propalazioni di Giovanni Brusca sulla vicenda del papello, la sentenza evidenzia che tali propalazioni, nel loro contenuto sostanziale — e cioè al netto degli ondeggiamenti e delle discutibili rettifiche nella datazione degli eventi — sono rimaste immutate nel tempo, e s’incrociano perfettamente con una narrazione, qual è quella fatta dai Mori e De Donno, di cui si avrà pubblica notizia solo nel gennaio 1998, grazie al risalto mediatico delle deposizioni rese dai due ufficiali del Ros al processo di Firenze sulle stragi in continente.

Ma poi aggiunge (pag. 1635): «La propalazione di Brusca, dunque, anche per la sua prima collocazione temporale e per l’originalità del contenuto su fatti che in quel momento non apparivano particolarmente significativi in assenza di ulteriori conoscenze del contesto in cui gli stessi di inserivano, si appalesa attendibile e conferma, se mai ve ne fosse bisogno, che effettivamente, guanto meno dopo le due stragi del 1992 se non giù dopo la prima strage (quella di Capaci), Rima fu contattato da soggetti istituzionali che, con l’evidente intento di superare la contrapposizione frontale che si era creata, gli chiesero a quali condizioni avrebbe potuto porre termine alla strategia stragista».

Sono considerazioni e valutazioni in parte condivisibili (come meglio si dirà tra breve). Ma riguardo al terna in esame, ne discende che, per ammissione degli stessi giudici della Corte d’Assise di primo grado, ciò che si può dare per provato con certezza è solo che (effettivamente) Riina venne contattato da emissari istituzionali per chiedergli di fare sapere a quali condizioni era disposto a fare cessare le stragi. Non è altrettanto certo e provato quando ciò sia accaduto [quanto meno dopo le due stragi del 1992 se non già dopo la prima strage quella di Capaci].È dunque possibile, ma solo possibile, che sia avvenuto già prima della strage di via D’Amelio, ma non si può affatto escludere che sia accaduto invece solo dopo le due stragi siciliane.

Disarmante è però la disinvoltura con cui la sentenza appellata, dando atto dell’impossibilità di un’esatta collocazione temporale degli sviluppi fattuali dei contatti intrapresi dagli ufficiali del Ros con Vito Ciancimino (per i contrasti tra le rispettive dichiarazioni e «anche per le ambigue risultanze degli scritti e delle dichiarazioni di Vito Ciancimino e per talune (almeno apparenti) contraddizioni della ricostruzione offerta da Mori e De Donno, alcune delle quali ben messe in evidenza già anche dalla Corte di Assise di Firenze con la sentenza prima ricordata del 6giugno 1998), perviene all’inopinata conclusione che tutto sommato non importa ricostruire con certezza i tempi di svolgimento di quei contatti; [...]. Ciò che conta, in questa nuova — e inattesa — prospettiva, è che risulti provato - ma non lo è affatto - che Riina venne informato da Ciancimino fin dal primo approccio che questi aveva avuto con il capitano De Donno, prima ancora che il colonnello Mori avesse modo di esplicitare personalmente a Ciancimino la sua proposta di dialogo: come se Riina avesse avuto la capacità divinatoria di intuire deve andasse a parare il primo approccio di De Donno a Ciancimino, o quest’ultimo lo avesse intuito da sé, senza bisogno di averne esplicita conferma da Mori.

E che Ciancimino avesse informato subito Riina, fin dal primo approccio di De Donno, la Corte d’Assise di primo grado pretende di inferirlo da una sola frase, con la quale Vito Ciancimino enuncia di avere ricevuto, dopo il ritorno di fiamma dei referenti mafiosi, una piena delega a trattare con i carabinieri, oltre che con il Capitano De Donno.

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