Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


L’inerzia o lo scarso interesse della procura di Palermo ad approfondire i temi e i contenuti delle reiterate interlocuzioni di Vito Ciancimino con gli ufficiali del Ros. — a tutti gli effetti rimaste segrete, poiché a differenza di Ciancimino, non provvidero né in tempo reale né ex post a redigere anche solo degli appunti informali che potessero servire come strumento di lavoro investigativo — sollecita un quarto motivo di riflessione sulle tante incongruenze di quella che per anni è stata propinata — dagli ex ufficiali dell’Arma odierni imputati – come l’unica verità su quella oscura vicenda: il totale disinteresse per la disponibilità subito manifestata da Vito Ciancimino a parlare di tangentopoli e dei suoi riflessi o delle sue connessioni con le vicende (delittuose) siciliane, e ciò non solo con riferimento alla c.d. “tangentopoli siciliana”, cioè al riprodursi in Sicilia del medesimo fenomeno di corruzione sistemica legato agli appalti di opere pubbliche, ma con una connotazione peculiare derivante dalla presenza e dall’inedito ruolo di Cosa nostra quale protagonista degli accordi regolatori per la spartizione di appalti e tangenti; ma anche a possibili indiretti legami persino con la genesi o la causale delle stragi di Capaci e via D’Amelio.

Entrambi, e De Donno prima e più di Mori, stando al loro racconto, sarebbero rimasti a sentire gli sproloqui al riguardo di Ciancimino più come atto di cortesia, giusto per stabilire un clima cordiale e di fiducia, e non irritare il loro interlocutore che per un reale interesse alle cose che questi andava dicendo. Eppure, questo disinteresse è inspiegabile sol che si consideri che era verosimile che Vito Ciancimino avesse una conoscenza approfondita del sistema di gestione degli appalti e di spartizione delle relative tangenti, avuto riguardo al ruolo che ne aveva contraddistinto la sua carriera di “politico” in affari, e di imprenditore aduso a lucrare sulle sue entrature nel mondo della politica e delle istituzioni, ma anche al ruolo di uomo-cerniera tra mondo degli affari e della politica e ambienti della criminalità mafiosa.

Ora, ammesso che interesse precipuo dei carabinieri fosse quello di raccogliere notizie e indicazioni utili alle indagini sulle stragi, è innegabile, perché sono loro stessi ad averlo detto, e i loro difensori vi incentrano buona parte delle argomentazioni difensive, che essi ritenevano l’indagine mafia e appalti suscettibile di ulteriori e importanti sviluppi con ricadute anche sul versante delle indagini mirate a individuare causale e responsabili delle stragi.

Quell’indagine, infatti, più di ogni altra puntava al cuore delle risorse strategiche e del potere di Cosa nostra. E già in tale ottica erano stati ben lieti di assicurare la loro disponibilità al dott. Borsellino che a sua volta li aveva gratificati della sua stima e della sua fiducia chiedendo loro di riprendere le fila dell’indagine mafia e appalti compendiata nella voluminosa informativa già consegnata a Giovanni Falcone (che proprio a Borsellino aveva raccomandato, una volta trasferitosi al ministero, di curarne gli sviluppi, come attestato da Liliana Ferraro), e di condurre nel massimo riserbo un’attività investigativa per la quale avrebbero dovuto rapportarsi soltanto a lui.

Ciancimino si propone come “infiltrato”

Ebbene, sia Mori che De Donno hanno in varie sedi dichiarato che, fin dal primo incontro, Vito Ciancimino esternò questo disegno, quasi una fissazione, di proporsi come infiltrato per conto dello stato nel sistema di gestione illecita degli appalti, forte delle sue entrature negli ambienti imprenditoriali (e politici). Ma di questa profferta è certo che non fu fatto il minimo cenno a Borsellino.

E ammesso che il primo incontro (di De Donno con Ciancimino) sia avvenuto in epoca successiva al 25 giugno, è difficile credere che non ve ne fosse stato alcuno prima del 10 luglio, e che prima di quella data — che è la data dell’ultima volta che Mori incontrò Borsellino — il Ciancimino non avesse ancora fatto cenno della sua proposta. Ma anche volendo accedere alla più improbabile ricostruzione della sequenza cronologia dei contatti tra Ciancimino e gli ufficiali del Ros. — qual è quella secondo cui tutti gli incontri “preliminari”, e cioè quelli a quattrocchi tra De Donno e Ciancimino, siano avvenuti nella seconda metà di luglio ‘92, ossia in un arco temporale assai più ristretto di quello che si ricaverebbe dalle pur scarne indicazioni dei due ex Ufficiali (v. supra) — rimane il fatto che per loro stessa ammissione i carabinieri non hanno mai avuto né manifestato alcun interesse a coltivare, neppure come potenziale ipotesi di lavoro investigativo, quella proposta che liquidano come fantasiosa e comunque impraticabile, sebbene alcuni collaboratori di giustizia abbiano invece lasciato intendere che essa fosse fattibile, o che comunque

Ciancimino abbia continuato, attraverso legami imprenditoriali con soggetti a lui vicini, a giocare un ruolo rilevante nel sistema di spartizione degli appalti (cfr. Brusca, al processo Borsellino Ter: ivi adombra un possibile collegamento tra il sistema di gestione degli appalti, o meglio le indagini che mettevano in pericolo tale sistema, e la strage di via D’Amelio. Parla dell’interesse inedito di Riina per la Reale Costruzioni S.p.A., cui sarebbe stato cointeressato Vito Ciancimino, impresa che avrebbe dovuto estromettere e sostituirsi al ruolo strategico della Impresem di Filippo Salomone, nella gestione del sistema di spartizione degli appalti; e allude alla possibilità di imprese infiltrate dai carabinieri).

Ora, si poteva liquidare quella proposta per l’altissimo rischio che il proponente facesse una sorta di doppio gioco, non essendo animato da altro interesse che quello di trarne il maggior vantaggio per sé e magari di rilanciarsi sulla scena politico-imprenditoriale, una volta sistemate le sue pendenze giudiziarie.

Ma al netto di questo legittimo sospetto, deve riconoscersi che un personaggio come Vito Ciancimino aveva tutte le carte in regola per essere reclutato come agente sotto copertura per un’operazione del genere, considerati i suoi legami criminali, passati e attuali, e il ruolo che aveva ricoperto fino alla sua recente caduta in disgrazia (a partire dall’arresto nel giugno del ‘90, per reati contro la p.a. e gli ulteriori procedimenti per analoghi reati, nonché la condanna sopravvenuta il 17 gennaio ‘92 per associazione mafiosa).

Una proposta mai presa in considerazione

Invece, a dire di Mori e De Donno, questa eventualità, su cui pure l’aspirante infiltrato avrebbe tanto insistito, non venne mai presa in seria considerazione da loro. E se stettero a sentirlo tutte le volte che egli provò a convincerli della validità del suo progetto, lo fecero per pura cortesia, per non irritare la sua suscettibilità, per guadagnarsi la sua fiducia. Né, per altro verso, si sono mai preoccupati di annotare quanto Ciancimino era andato dicendo, nel corso dei loro colloqui, su Tangentopoli o sulla sua dichiarata conoscenza dei meccanismi della corruttela politico-affaristica.

E ciò contrasta con l’esaltazione che lo stesso De Donno ha fatto — in particolare nel corso della deposizione resa al processo Mori/Obinu - del potenziale ruolo di Ciancimino quale fonte preziosa per ricostruire i meccanismi del sistema tangentizio, ampliandone la lettura a scenari più ampi (fino ad adombrare un possibile collegamento con la causale delle stragi), divenuti poi oggetto di riflessione e di approfondimento anche nelle indagini più recenti: […]. Tra l’altro, in piena Tangentopoli, questo si che avrebbe potuto costituire un filone investigativo di grande interesse per i vertici istituzionali, ovvero per chi, investito delle più alte cariche e responsabilità pubbliche, non poteva non guardare con favore ad iniziative che fossero volte a ricondurre il sistema nei binari della legalità, neutralizzando le centrali della corruzione dilagante, e contribuendo al risanamento dello stato — e quindi al ripristino della fiducia dell’opinione pubblica nelle Istituzioni — sotto il profilo di una bonifica da collusioni e connivenze politico-affaristiche.

In ogni caso, dubbi e perplessità lasciano il posto ad un dato ineludibile: la versione resa da Ciancimino nel corso dei suoi interrogatori — o dell’unico interrogatorio in cui ne parla — contrasta con quella degli ex ufficiali del Ros perché, a suo dire, la sua proposta alla fine venne accettata, sia pure solo come cavallo di Troia, e cioè come escamotage per consentirgli di infiltrarsi all’interno dell’organizzazione mafiosa e di giungere fino ai suoi vertici, potendo così fornire agli inquirenti informazioni preziose anche per la loro cattura o per prevenire ulteriori fatti delittuosi.

E quindi, o ha mentito Ciancimino nel suo interrogatorio — senza che Mori e De Donno obbiettassero alcunché — o hanno mentito i due Ufficiali. Ma è certo che anche su questo punto sarebbe stato opportuno chiedere ulteriori chiarimenti. E il meno che possa dirsi, a commento ditali risultanze, è che la ricostruzione offerta da Mori e De Donno è stata tutt’altro che trasparente, soprattutto nella parte che concerne le vere finalità del rapporto di collaborazione instaurato con Ciancimino e il tenore della “missione” affidatagli.

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