Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


In realtà, le rivelazioni di Massimo Ciancimino mutavano profondamente la cifra, le dimensioni e la stessa natura dell’operazione di cui i testi in questione erano stati a suo tempo, e solo parzialmente, messi al corrente, dandone un’immagine complessiva radicalmente diversa e assai più inquietante rispetto a quella di una mera operazione di alta investigazione, sia pure spregiudicata o con tratti di irritualità e persino di illegittimità: che era poi l’immagine corrispondente alla versione che fino a quel momento era stata data per vera o accreditata in tutti i processi in cui la vicenda era stata approfondita o solo lambita (come il Borsellino Ter o i primi due processi a carico di Antonino Cinà per il reato di associazione mafiosa o il processo a carico di Mori e De Caprio per il reato di favoreggiamento aggravato in relazione alla mancata perquisizione del covo di Riina).

Persino i giudici fiorentini del processo per le stragi in continente, o almeno i giudici d’appello, per le conseguenze che aveva innescato, non sembrano dubitare che «l’operazione era finalizzata a far divenire il Ciancimino un sorta di collaboratore di giustizia o loro confidente al fine non solo di potere avere importanti notizie sulla struttura maliosa ma anche al fine di potere arrestare il capo di Cosa nostra che era il Salvatore Riina».

Anche se, va rammentato, in un passaggio incidentale della motivazione della sentenza d’appello di quel processo si coglie come gli stessi giudici non si sentivano di escludere che quella vicenda potesse essere spia di scenari molto più inquietanti, che tuttavia reputavano ininfluenti ai fini della decisione in ordine ai reati per cui ivi si procedeva, e quindi non meritevoli di ulteriori approfondimenti.

I processi di Firenze

Ed ancora più pesanti erano stati gli apprezzamenti riservati dai giudici di primo grado di quei processo all’iniziativa dei carabinieri del Ros, stigmatizzata come assolutamente improvvida per le gravi conseguenze che aveva innescato.

Nella sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Firenze il 6.06.1998, per la prima volta — come rammentato anche dal giudice di prime cure del presente processo — viene dato risalto, sulla base di precise risultanze processuali, all’esistenza di un nesso specifico tra la condizione di disagio e lo stato di sofferenza e fibrillazione nel popolo di Cosa nostra e tra gli affiliati mafiosi per l’intensificazione della stretta carceraria e dell’azione repressiva dello stato poste in essere nell’estate del ‘92 nel quadro di una (finalmente) forte e decisa reazione alle stragi siciliane e alcune “improvvide iniziative” verificatesi nel medesimo contesto temporale.

Per la prima volta si evidenzia come in quell’estate cominciò a farsi strada l’idea che la risposta più efficace a quella reazione potesse essere quella di riprendere e intensificare la violenza mafiosa, cambiando però target e cioè aggredendo il patrimonio artistico e monumentale e quello paesistico, e seminando il terrore nelle zone di maggiore attrattiva turistica, per dare maggiore forza d’intimidazione al ricatto alle Istituzioni, alla pretesa di conseguire, con una violenza strutturata in termini di un attacco in grande stile allo stato, un obbiettivo di massima, consistente in un allentamento dell’azione repressiva in modo da ripristinare condizioni di maggior vivibilità per tutti gli affiliati mafiosi a cominciare dai detenuti; ma, più specificamente, che si conseguissero alcuni risultati concreti, oggetto di specifiche aspettative e rivendicazioni o aspirazioni dei vertici mafiosi, quali l’abolizione del regime speciale deI 41 bis, la chiusura delle carceri speciali di Pianosa e dell’Asinara, l’abolizione dell’ergastolo, la sterilizzazione della disciplina in materia di collaboratori di giustizia o di quella in materia di M.P. soprattutto patrimoniali.

E per la prima volta in quella sentenza si esprime il convincimento, motivato e ragionato sugli atti processuali, che l’iniziativa dei carabinieri del Ros, attuata attraverso i contatti intrapresi con Vito Cancimino, rafforzò nei capi mafiosi dell’epoca il convincimento che la strage fosse pagante. E ciò indipendentemente dalle ragioni e dalle finalità perseguite dagli stessi carabinieri, e quindi anche se si fosse prestato fede alla ricostruzione che ai giudici fiorentini era stata offerta dal Col. Mori e dal Capitano De Donno.

La sentenza di primo grado del proc. Bagarella +25, per la verità, già nel lontano 1998 - e nulla sapendo delle interlocuzioni di Mori e De Donno con vari esponenti politici e funzionari ai vertici delle istituzioni -non mancò di esprimere forti riserve e perplessità sull’attendibilità ditale ricostruzione, con una serie di considerazioni che la sentenza qui impugnata ha riportato testualmente e fatto proprie, e che saranno riprese tra breve. E tuttavia i giudici della Corte d’Assise di Firenze reputarono ininfluente, ai fini del giudizio loro demandato, accertare quali fossero le finalità concrete che avevano mosso gli ufficiali del Ros a intraprendere contatto con Vito

Ciancimino, ed in particolare «Se, cioè, la finalità era quella di intavolare una vera e propria “trattativa”, ovvero solo quella di sfruttare un canale per carpire notizie utili all’attività investigativa», poiché tale questione poteva (e doveva) interessare a chi sarebbe stato chiamato a giudicare l’operato degli uomini del Ros. Mentre, ai fini del giudizio di responsabilità nei riguardi degli imputati per le stragi in continente, «Quello che conta. invece, è come apparve, all’esterno e oggettivamente, l’iniziativa del Ros, e come la intesero gli uomini di “cosa nostra”. Conseguentemente, quale influenza ebbe sulle determinazioni di costoro».

E sotto questo aspetto, i giudici fiorentini non nutrirono alcun dubbio: «l’iniziativa dei Ros (perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire come una “trattativa”; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione».

Dubbi e perplessità sull’azione del Ros

[…] Ora, il fatto stesso che tutti gli esponenti istituzionali che furono informati da Mori e De Donno dell’iniziativa in fieri con l’ex sindaco di Palermo avessero motivo di dubitare delle sue reali finalità o si interrogarono sulle ragioni per cui gli ufficiali predetti li (le) avessero contattati dimostra quanto fosse fondato il sospetto quanto meno di scarsa trasparenza sulla vera natura dell’intera operazione.

Il dato ceno è che i reiterati sondaggi di Mori e De Donno sulla disponibilità dei vertici politico-istituzionali a prestare attenzione e a mostrare interesse per l’operazione Ciancimino non sortirono forse gli effetti sperati, poiché non ne venne alcun esplicito incoraggiamento o segnale di condivisione (come i carabinieri avevano auspicato e sollecitato che avvenisse).

È anche vero però che nessuno li fermò. Nessuno li chiamò a rendere conto del loro operato o a chiarire le vere finalità perseguite. E ciò vale in particolare per Claudio Martelli, che più di ogni altro avrebbe avuto l’autorità necessaria per sollevare la questione, fino a portarla in Consiglio dei ministri, se necessario, o almeno a tornare sull’argomento con il ministro dell’Interno in carica, se è vero che già vi aveva fatto cenno in prossimità del suo insediamento; o a investirne riservatamente il presidente del Consiglio.

Invece, è certo che non fece nulla di tutto ciò (anche se poi qualcosa fece, quando allertò il procuratore Siclari sulla vicenda della richiesta di rilascio del passaporto a Ciancimino: v. infra).

La sua giustificazione è che non intravide alcuna possibile valenza di complotto politico, neppure per gli aspetti più irrituali, a suo giudizio, della condotta posta in essere dai carabinieri e che più lo irritarono.

Ma se ciò che loro rimproverava era solo di avere prevaricato le loro competenze a danno della Dia, oltre a parlarne e piuttosto che parlarne con il direttore della stessa Dia — che nega di esserne stato informato — e a investire della questione il ministro dell’interno, avrebbe dovuto conferire con il superiore diretto degli ufficiali infingardi, cioè con Subranni; oppure con il comandante dell’Arma, Generale Viesti; o, se voleva bypassare la gerarchia militare e investire l’autorità politica di riferimento, con il ministro della Difesa che, per inciso era pure un suo compagno di partito. Né si può dimenticare che il senatore Mancino è stato assolto con la formula “perché il fatto non sussiste” — assoluzione ormai definitiva, non essendo stata tale pronunzia impugnata dalla pubblica accusa — dall’imputazione per il reato di falsa testimonianza che gli era stato contestato, in relazione alla deposizione resa nel processo a carico del Generale Mori e del Maggiore Obinu, proprio per avere falsamente affermato di non essere mai venuto a conoscenza, tra l’altro, “delle lagnanze del ministro della Giustizia Martelli sull‘operato dei sopra indicati Ufficiali dei Carabinieri” (oltre che “dei contatti intrapresi, in epoca immediatamente successiva alla strage di Capaci, da esponenti delle Istituzioni, tra i quali gli Ufficiali dei Carabinieri Mori Mario e De Donno Giuseppe, con Ciancimino Vito Calogero e per il tramite di questi con gli esponenti di vertice dell‘associazione mafiosa Cosa nostra”), come recitava il capo C) dell’originaria rubrica d’accusa di questo processo.

Vuoi dire che ha mentito Martelli? No, perché è possibile che questi gli abbia riferito solo in termini generici del fatto che i carabinieri del Ros non la finivano di interferire in attività che dovevano ritenersi di competenza della Dia o a cui comunque non erano autorizzati (ma senza entrare nel merito di specifiche attività investigative); oppure che gli abbia fatto cenno, ma non più di tanto, e a riprova della sua doglianza, dei contatti intrapresi con Vito Ciancimino, ma tale cenno sia sfuggito all’attenzione del neo ministro Mancino, in effetti, ha decisamente escluso che Martelli possa avergli parlato espressamente di Vito Ciancimino e dei contatti intrapresi dai carabinieri; ma non ha invece escluso che possa avergli fatto cenno di questioni relative a contrasti e tensioni tra Dia e altri organismi investigativi e, in tale contesto, a indagini in materia di criminalità organizzata svolte dai carabinieri.

Come è plausibile che quel cenno gli sia sfuggito in un momento in cui era totalmente assorbito dagli impegni e gli adempimenti connessi all’insediamento nel nuovo e delicato incarico, come peraltro sottolineato già dal giudice di prime cure che, sul punto, valorizza un eloquente inciso della deposizione resa dallo stesso Martelli (“Francamente non mi è parso che prestasse una grande attenzione a quello”).

Ma anche in tale evenienza è certo che né Mancino ebbe a chiedere ulteriori delucidazioni a Martelli, né questi gliele fornì spontaneamente, o ebbe in seguito a tornare sull’argomento, in occasione di successive interlocuzioni con il collega di governo. Neppure dopo che Mori era andato a fare visita alla Ferraro, perorando la causa del rilascio del passaporto a Ciancimino.

Ed allora ha ragione sotto questo profilo il Generale Mori: non ricavarono, da quei contatti istituzionali, alcun segnale esplicito di incoraggiamento o di condivisione; ma neppure furono scoraggiati o dissuasi dal persistere nella loro iniziativa. E nessuno li chiamò per chiedere spiegazioni o chiarimenti. Come dire che la Politica, nelle sue massime articolazioni istituzionali, debitamente informata della loro iniziativa – a riprova che essi non avevano nulla da nascondere o comunque erano mossi solo da finalità istituzionali – lasciò fare.

Non del tutto, però e non tutti.

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