Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.


Accadde in una prigione inglese: un uomo dei servizi segreti, venuto dal passato, un altro che non avrebbe dovuto essere lì, e un terzo che era il loro lasciapassare, venivano a chiedere al boss in carcere un canale per parlare direttamente con il vertice dei Corleonesi. Chiedevano una tregua e offrivano una via d’uscita. Salvavano il male, per salvare se stessi. Per realizzare il piano bisognava mettere fuori gioco Giovanni Falcone.

Era il 1988.

Otto anni prima, racconta il collaboratore Franco Di Carlo, uno di quegli uomini e il boss, inviato lì a rappresentare il papa della mafia Michele Greco, erano insieme in una villa del litorale laziale. In quella villa si progettava un nuovo colpo di Stato, l’ennesimo, sotto le insegne della loggia massonica P2 e con la benedizione del capo del servizio segreto militare italiano Giuseppe Santovito. La mafia, al più alto livello, era seduta intorno a quel tavolo. E c’era anche Cosa Nostra, convocata per stare ad ascoltare quel che si stava preparando e partecipare. Il piano golpista andò in soffitta perché nel 1981 furono scoperti gli elenchi della P2 e lo scandalo travolse l’intero apparato di sicurezza, rivelando che l’Italia era in mano ad un contropotere fondato sul tradimento sistematico della lealtà repubblicana.

Credete davvero sia finita lì?

Agiscono per lo Stato e contro lo Stato, spiano, camuffano, depistano. Sono gli uomini dal doppio volto che affollano le cronache ma più spesso si rintanano nell’ombra a lavorare in proprio e per chi li paga.

Perché lo fanno? Per ansia di carriera, per fama e gloria, per soldi, per servire il padrone di turno, per un malinteso senso delle regole. Le loro storie sono immagini di specchi da luna park, falsate e ingannevoli, come lo sono i bagliori che confondono. Nei labirinti dei loro anni si sono consumate le storie di questo Paese. Quando si ha la pretesa di rintracciarne il filo, quello ti sfugge di mano e si aggroviglia, e bisogna ricominciare da capo.

Una carrellata di nomi, volti e storie per prendere confidenza con alcuni dei personaggi di queste pagine. C’è il misterioso signor Franco che dal 1971 tiene i contatti con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, il più mafioso dei politici e il più politico dei mafiosi, e poi dalla fine del 2008 sorveglia l’ambigua collaborazione del figlio Massimo, rimanendo sempre una traccia evanescente e mutevole nella memoria del rampollo dell’ex sindaco. Massimo Ciancimino nella sua personalissima lista dei cattivi, a un certo punto, mette anche Gianni De Gennaro: carriera fulminante che gli vale l’epiteto di superpoliziotto, anche se adesso ha smesso la divisa e presiede Finmeccanica.

C’è Bruno Contrada, trent’anni in Sicilia in vari ruoli, da capo della squadra mobile a numero tre del Sisde, che rivendica grandi meriti nella lotta alla mafia ma non ha mai arrestato un potente. Condannato a dieci anni per concorso esterno, ha già scontato la pena. Nel novembre 2015 la Corte d’Appello di Caltanissetta ha respinto la richiesta di revisione avanzata dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che non doveva essere condannato per quel reato, non previsto dal codice e all’epoca dei fatti non sufficientemente consolidato nella giurisprudenza.

C’è il generale Antonio Subranni, futuro comandante del Ros (Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri), che da maggiore, per la morte di Peppino Impastato, avvenuta il 9 maggio del 1978, avalla la falsa pista di un attentato finito male allontanando così la verità su quell’omicidio e sulla responsabilità del boss Tano Badalamenti.

C’è chi arriva alla cassaforte della Prefettura di Palermo quando il corpo di Carlo Alberto Dalla Chiesa, il 3 settembre dell’82, è ancora caldo, prende un pacco di carte, le fa sparire e rimette la chiave del forziere lì dove era stata inutilmente cercata. Quelle carte mai trovate spiegano perché i killer, insieme con il generale, hanno dovuto uccidere l’autista e la moglie dell’ufficiale, Emanuela Setti Carraro. Non potevano risparmiarla. Dovevano assicurarsi che l’operazione di sparizione dei documenti procedesse senza intoppi. Qualche giorno prima dell’agguato, il generale aveva detto alla moglie: «Se mi accade qualcosa prendi quel che sai, ho messo tutto nero su bianco».

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