Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.


Noi dunque lo conoscevamo bene il dottore Paolo Borsellino, ancora meglio del dottore Falcone, e anche per lui era dall’inizio degli anni Ottanta che pensavamo di combinare qualcosa, perché aveva cominciato anche a fare indagini sulla famiglia Riina, aveva arrestato anche il fratello di zio Totò, Giacomo, a Bologna, e aveva svolto indagini particolari con quel capitano dei carabinieri, Emanuele Basile – che poi era stato ucciso – che aveva portato all’arresto di Francesco Madonia e di suo figlio.

E i palermitani ce lo dicevano sempre: se abbiamo dovuto uccidere il capitano Basile, la colpa è del dottore Borsellino, che se si stava un poco buono e non dava fastidio ai nostri vecchi amici, ai soci di combriccola, non creava tutti questi macelli. E quindi dopo Basile, per noi, era venuto il momento di Borsellino, solo che l’occasione non c’era stata mai. Avevamo anche tentato di avvicinarlo in qualche modo: c’eravamo mossi a Palermo, a chiedere: la famiglia, qualche compagno di scuola, un abboccamento, un’amicizia, ma, come per il dottore Falcone, non c’era possibilità; anzi, Borsellino si era messo in testa che doveva arrivare a prendere i killer di Basile, e non voleva essere accomodante. E ancora doveva esserci tutta la vicenda del Maxiprocesso… Comunque, per lui la sentenza era stata emessa da tempo.

Era stata rinviata solo l’esecuzione. Ogni volta che lo vedevamo, ripetevamo la stessa frase: rompiamoci le corna. Quando Borsellino arrivò a Marsala, ci sembrò quasi una provocazione. E quindi cercammo di capire il da farsi. Studiammo i suoi passi, la scorta, il viaggio che faceva da Palermo, a che ora era a Marsala, dove pranzava, se il caffè lo pigliava al bar. Scoprimmo che amava fare certe passiate tipo il commissario Montalbano, quello di Camilleri, a piedi, al lungomare della Spagnola, dopo pranzo.

Ci si poteva lavorare, come idea. Nel 1988 avevamo tutto pronto, e una mano amica sembrava volerci indicare la strada. Non lo sapete, ma in quel periodo al dottore Borsellino stavano quasi per levare la scorta ‒ a uno dei magistrati più a rischio in Italia ‒ e si discuteva di «alleggerire» la sua protezione. E così fu. Fu revocato il presidio fisso sotto casa sua. Non c’era più nessuno a fare da guardia. Buono.

Poi lui era abitudinario: andava sempre a messa la domenica, comprava ogni giorno i quotidiani alla stessa edicola. Sapevamo pure da quale pollaio comprava le uova fresche. Aveva questo pallino delle uova, gli piacevano a sucare, sarà. Ci faceva il buco, e poi se le beveva ancora calde del culo di gallina.

Magari come noi ci metteva dentro un goccio di vino marsala, quando nei rigori dell’inverno uno starnuto o un raschiamento della gola annunciavano un possibile raffreddore ed era il caso di metterci un rinforzino.

Un giorno era fatta. Fatta, vi dico, fatta. Ci partimmo, ognuno con il suo compito, muovendoci a bordo di un motorino dalla nostra base, che era vicino un negozio di mobili in Viale delle Alpi, a Palermo, e andammo sotto casa del dottore Borsellino.

Lo vedemmo scendere dall’auto, accelerammo mentre lui si guardava attorno, mettemmo le mani nella giacca, il ferro era pronto e muto come sempre, stavamo per sparare, ma Borsellino ebbe come un presentimento, accelerò il passo, entrò nel portone e se lo chiuse dietro con un grande sbam. A noi non rimase che ricacciare indietro la delusione, restare agghiuttuti giusto una frazione di secondo, e poi ripartire, e andare via di là senza fare capire niente a nessuno, prendendoci anche un colpo di «cornuti!» per un sorpasso avventato. Anche qui, non dovete pensare che era tutto improvvisato. Avevamo studiato. E avevamo scelto questa formula, i colpi da un motorino in corsa, perché volevamo confondere le acque.

Insomma, se fosse stata un’autobomba, o un’azione come si deve, come con il prefetto Dalla Chiesa o il dottore Chinnici, tutti avrebbero capito che c’era la nostra firma. In quel modo, invece, volevamo ingenerare confusione: chi ha ammazzato Borsellino? Mah, due picciottazzi a bordo di un motorino rubato. E infatti anche la pistola era stata scelta con cura.

Avevamo il bendidio di armi, e ci piacevano moltissimo i kalashnikov come le P38, ma in quell’occasione avevamo optato per una banale calibro 7 e 65, corta e semiautomatica, un giocattolino, roba da delinquenti di strada. Fallito quel colpo, avevamo ripreso gli appostamenti, soprattutto nei giorni festivi. Chissà perché, non solo era scritto che avremmo ucciso prima o poi il dottore Borsellino, ma che lo avremmo fatto di domenica.

Ma era in corso il processo d’appello del Maxi, e a un certo punto pensammo che uccidere Borsellino poteva comunque essere, in quel periodo, una cattiva pubblicità per tutti noi. Era meglio aspettare. Intanto non solo Borsellino non si calmava, anzi, aumentava il suo lavoro, e la cosa ci dava sempre più fastidio, perché qui dobbiamo dire un’altra cosa. Che i due magistrati, Falcone e Borsellino, non erano la stessa cosa.

Oggi siete abituati a vederli insieme nella vostra toponomastica con cui lastricate i sensi di colpa, ma non è così. Noi li conoscevamo bene. Erano persone diverse, con caratteri diversi, e idee molto diverse, a volte anche in contrasto. Il dottore Borsellino era assai più irruente dell’amico, ad esempio, e anche più operativo.

Il dottore Falcone era più un tipo da grandi strategie, relazioni. Spesso avevamo la sensazione che Borsellino, quando parlava e lanciava i suoi strali sul «calo di attenzione nella lotta alla mafia», avesse dato voce al pensiero di Falcone, che era più cauto. E infatti li chiamavamo «il braccio e la mente».

Gli avvertimenti di Siino

Un altro attentato allora volevamo farlo nella casa a mare di Borsellino, a Marinalonga, nei pressi di Carini. Era vicino del nostro Angelo Siino, sembrava cosa facile anche lì. Andò Di Maggio a casa di Siino a fare una serie di appostamenti, per capire se si poteva fare la cosa.

Il residence, infatti, aveva una sola uscita, e in pratica dalla rete metallica della villa di Siino si vedevano proprio tutti gli spostamenti e i movimenti di Borsellino, le occasioni in cui si allontanava dai due che gli facevano la scorta, tutte le volte che usciva con il vespino.

Tanto che Di Maggio ci aveva preso gusto, sembrava un lavoro facile; e tra un bagno e una mangiata di pesce questo vai e vieni da casa di Siino era durato due settimane. E Di Maggio poi aveva riferito tutto. Ma siccome Siino conosceva al dottore Borsellino, l’ha visto e l’ha messo in guardia. Siino infatti pensava: qui, se succede qualcosa, il primo che si inculano sono io. E allora, mentre c’era Di Maggio, chiamò Borsellino nel bungalow di suo fratello e cercò di parlargli per avvisarlo.

Ma la cosa fu tragica, perché Siino era convinto di poter parlare molto in amicizia, di dirgli: «Ma chi glielo fa fare, ma perché sta facendo tutte queste cose», «Ma dottore, perché…». E invece Borsellino impazzì e si mise a urlare: «Ora lei mi deve dire chi la manda, che cosa vuole dire!». E Siino: «Dottore, non c’è nessuno motivo… era per parlare». Morale: Borsellino si infuriò, e anche Siino ci rimase male. Ma come, pensava, io ti sto dicendo questa cosa, di stare attento, anche perché qui a Marinalonga non hai nessun tipo di scorta, e tu reagisci così? Siino dopo l’incontro si pigliò di confusione.

Lui non era cosa di fare mediazioni e sensalie, ogni volta combinava danno. E qui il danno era grosso. Perché aveva fatto saltare l’attentato al giudice, e come ringrazio quello lo aveva sicuramente già segnalato. Convinto che lo arrestassero, per sì e per no, Siino fece la cosa che sapeva fare meglio: tagliare la corda. E se ne andò con la barca in Tunisia. Anche perché, pensava, se davvero fanno a Borsellino, è meglio che mi levo dai piedi.

E saltò anche questo progetto. In qualche modo avevamo capito che se dovevamo liberarci del dottore Borsellino, l’attentato, alla fine, avremmo dovuto farlo noi, senza delegare ad altri. La cosa non ci calava molto, perché significava uscire dalla nostra invisibilità, ma Borsellino era procuratore a Marsala, a casa nostra, e se avessimo aspettato che se ne ritornava a Palermo, gli amici di lì non ce l’avrebbero mai perdonato.

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