Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Detto questo, altra considerazione merita l’ipotesi che Mori abbia in qualche modo interloquito con Di Maggio, nell’imminenza dell’operazione poi attuata con la scelta del ministro Conso di non rinnovare la massa di decreti (delegati) in scadenza a novembre - ed è certo che si siano incontrati il 22 ottobre per discutere di problematiche attinenti ai detenuti mafiosi al 41 bis, sia pure sotto l’angolazione particolare dei colloqui investigativi (cfr. Ganzer: “il senso era quello di vedere se attraverso il 41 bis c ‘erano segnali di cedimento di qualcuno”) - coltivando un suo interesse strategico a quell’esito.

Purché si tenga presente che l’operazione deve essere valutata nel suo insieme, e quindi come comprensiva della decisione di rinnovare in blocco i decreti che andavano a scadere alla fine di gennaio del ‘94, decisione che, a dire dello stesso Conso, fu contestuale a quella apparentemente di segno opposto di lasciare spirare il termine di efficacia di quelli che facevano parte del gruppo di detenuti presumibilmente di minore spessore criminale.

Ed invero, l’interesse (primario) di Mori ad una gestione selettiva, e in questo senso “flessibile” del 41 bis, funzionale all’instaurazione di rapporti privilegiati a fini di intelligence, e cioè per alimentare una rete di potenziali fonti confidenziali, poteva anche allargarsi e intrecciarsi ad una prospettiva di più ampio respiro, che conservasse però una connotazione marcatamente selettiva.

In tale prospettiva poteva inquadrarsi un’operazione come quella descritta da Conso e incentrata su una precisa e contestuale duplice decisione, anche se emessa in due tempi, per rispettare i diversi termini di scadenza dei rispettivi decreti: non rinnovare in blocco i decreti concernenti le posizioni teoricamente di minore spessore senza motivare tale scelta in funzione di un esame delle singole posizioni, proprio perché l’intento era di lanciare un preciso segnale di “distensione” al popolo di Cosa nostra e alla componente più moderata dell’organizzazione mafiosa; e al contempo, prorogare parimenti in blocco, e per le stesse ragioni - che qui giocavano con effetto speculare - senza entrare nel merito delle singole posizioni, i decreti concernenti i capi e i soggetti di più elevata pericolosità.

Un messaggio per gli affiliati

E il messaggio che si voleva lanciare era forte e chiaro: pugno di ferro contro i capi e promotori delle organizzazioni criminali, coloro ai quali poteva addebitarsi la corresponsabilità nelle scelte strategiche che avevano condotto in particolare Cosa nostra ad uno scontro frontale con lo stato e le istituzioni, rinnovando l’offensiva stragista; un gesto di indulgenza, invece, e di buona volontà nei riguardi della sofferenza e del disagio delle seconde linee, degli elementi di minore rilievo per non avere ricoperto ruoli apicali o non essersi macchiati dei crimini più gravi, per quegli affiliati insomma dei quali poteva presumersi che non avessero responsabilità dirette nell’adozione di scelte strategiche di cui pagavano solo il prezzo.

E un simile messaggio era perfettamente consentaneo ad una offerta di dialogo che fosse rivolta non già all’organizzazione mafiosa nella sua interezza e tanto meno ai vertici corleonesi in senso stretto, e cioè capi e strateghi dello stragismo mafioso, bensì a quella componente che si era certi esistesse e vantasse autorevoli rappresentanti in Cosa nostra che aveva subito la scelta dello stragismo senza condividerla ed era quindi propensa ad abbandonare quella linea.

Ed allora si torna all’ipotesi ricostruttiva più aderente, o almeno meno lontana dalle risultanze processuali per ciò che concerne le finalità — in ipotesi — perseguite dal Ros diretto da Mario Mori già a partire dall’iniziativa che era stata intrapresa nell’estate del ‘92 con i contatti instaurati con Vito Ciancimino: incunearsi nella spaccatura che sulla base di fonti interne all’organizzazione si riteneva esistesse in Cosa nostra per alimentare divisioni e tensioni con proposte divisive che frantumassero o incrinassero la coesione del fronte corleonese, dando forza alle ragioni della componente più moderata.

Anche un’attenuazione del carcere duro a beneficio di chi non avesse avuto alcuna responsabilità nella scelta dello stragismo poteva tornare utile a questo disegno, perché attenuando il disagio di gregari e semplici affiliati che della scelta stragista pagavano solo le conseguenze senza averne avuto alcuna colpa, si puntava a neutralizzare la minaccia mafiosa togliendo acqua (e cioè consenso a nuove violenze ed anzi sollecitazioni e pressioni ai capi per reagire alla stretta repressiva dello stato) al pesce dello stragismo. E senza per questo imbastire alcuna trattativa, perché per usare le parole di Conso, «un comportamento non può diventare trattativa; la trattativa ha bisogno di una telefonata, di una lettera, di un mediatore, di un fatto. Non basta l’inerzia, non è trattativa».

Caldeggiare una proposta divisiva, che al gesto di indulgenza verso i peones o le seconde linee di Cosa nostra e delle altre organizzazioni criminali associasse una risposta inflessibile contro capi e promotori non voleva essere affatto un cedimento all’intimidazione mafiosa e un tentativo di orientare in tale direzione le scelte del governo, nella persona del ministro competente in materia. […].

L’assoluzione dei tre ex ufficiali del Ros.

I pregressi rapporti di conoscenza e di reciproca stima tra Mori e Di Maggio e i contatti che ebbero all’epoca dei fatti non sono una ragione sufficiente a inferirne che Mori abbia avuto un qualsiasi ruolo nel propiziare la nomina del Di Maggio a Vice Direttore del Dap., o che egli abbia brigato per favorire quell’avvicendamento dei vertici del Dipartimento che altri soggetti, anche più influenti e autorevoli dello stesso Mori aveva voluto e per ragioni e disegni che seguivano itinerari autonomi, anche se per certi effetti convergenti con quelli che l’accusa attribuisce a Mario Mori.

Ben più concreti e pregnanti gli elementi che avvalorano l’ipotesi che Mori abbia avuto un ruolo nel propiziare la scelta di Conso di non rinnovare i decreti venuti a scadenza in quel mese di novembre del ‘93: ovvero, che sia stato Lui e non altri a indurre Di Maggio ad adoperarsi in una sorta di morale suasion per orientare quella scelta (o per corroborarla, se già il ministro vi era spontaneamente propenso).

Ciò posto, si può concedere — non senza qualche residua titubanza sulla piena congruenza del compendio probatorio — che sia stato Mori, e non altri, a chiudere per così dire il circuito dell’iter realizzativo della minaccia qualificata per cui qui si procede, facendola pervenire al suo naturale destinatario, e cioè il Governo della Repubblica, nella persona del ministro competente per materia (provvedere sulle richieste estorsive già avanzate da Cosa nostra e divenute prioritarie in quel frangete storico).

Giovanni Conso, nella qualità di ministro della Giustizia in carica, veniva edotto per un verso dell’esistenza di una fronda interna a Cosa nostra, o comunque dell’esistenza di una componente autorevolmente rappresentata che era propensa ad abbandonare la linea dura della contrapposizione violenta allo stato e alle istituzioni per tornare a dedicarsi agli affari e alla più proficua pratica degli accorsi collusivi con la politica.

Ma Conso veniva edotto altresì di ciò che un’altra parte dell’organizzazione mafiosa si aspettava o comunque pretendeva che il governo facesse, e delle conseguenze prospettate nel caso in cui le sue richieste non fossero state accolte o le sue aspettative fossero andate deluse, come già era accaduto nel luglio del ‘93. E con tale consapevolezza egli operò la sua scelta, adottando due decisioni solo apparentemente di segno opposto, ma che in realtà rispecchiavano e davano concreta attuazione a un unico disegno.

Tanto basta per concludere che il reato si è perfezionato, e che Mori abbia materialmente contribuito a tale perfezionamento.

Ma le finalità del suo agire, per le ragioni già più volte esposte, sono incompatibili con la configurabilità a suo carico di un dolo di concorso nel reato di minaccia a Corpo politico dello stato, essendo suo obbiettivo esclusivo non già di corroborare la minaccia mafiosa, bensì di sterilizzarla, alimentando la spaccatura già esistente in Cosa nostra con un’iniziativa dagli effetti divisivi, e dissuasiva per gli associati che condividessero o simpatizzassero per la scelta strategica dello stragismo.

Ne segue che gli va assolto dall’imputazione per il reato di cui all’art. 338 c.p., per ciò che concerne le condotte poste in essere nel 1993, al pari che per quelle risalenti all’anno precedente, con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. E a cascata, con la medesima formula vanno assolti i coimputati De Donno e Subranni, ai quali in realtà non si contesta la partecipazione materiale ai fatti del ‘93.

E in effetti, della presenza di Subranni v’è traccia solo perché da lui promana la Nota del 28 agosto 1993 — peraltro firmata per suo conto dal Col. Castagna — con cui il Ros, rispondendo all’interpello del 30 luglio, si pronuncia a favore del mantenimento del 41 bis e quindi anche della proroga per tutti i decreti che andavano a scadere il 24 agosto. L’allora Capitano De Donno, invece, era addirittura tornato a prestare servizio a Napoli, occupandosi d’altro, a parte qualche proiezione a Palermo per evadere le deleghe conferitegli dalla procura di Palermo per accertamenti sulle dichiarazioni di Vito Ciancimino.

Tuttavia, stante l’inscindibile unità del reato consumatosi in pregiudizio dei governi Amato (destinatario della minaccia quando questa era ancora in itinere) e Ciampi (destinatario ultimo della minaccia ormai perfezionatasi), il contributo prestato nella prima fase - peraltro assai importante, pregnante e addirittura decisiva per i successivi sviluppi - del complessivo iter di realizzazione dell’unico reato, in assenza di qualsiasi elemento da cui poter desumersi che fosse intervenuta una volontaria desistenza e che addirittura si fossero adoperati per impedire che il disegno originariamente concertato venisse portato a compimento, sarebbe sufficiente ad integrare il concorso nel medesimo reato: se quell’apporto fosse stato sorretto da un effettivo intento di contribuire alla sua realizzazione, che invece non vi fu.

Ma ciò che manca in radice è proprio l’elemento soggettivo, avendo essi condiviso per la parte in cui ciascuno dei due vi concorse materialmente o solo “moralmente”, le finalità dell’iniziativa intrapresa da Mori (ovvero, concertata da Mori e De Donno con l’avallo di Subranni).

All’assoluzione segue la revoca delle statuizioni civili adottate dal giudice di prime cure nei riguardi dei tre imputati, e di ogni sanzione accessoria alla condanna.

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