Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione


Catania è l’anticapitale per eccellenza come poteva essere Cartagine con Roma, Sparta contro Atene, come oggi Leningrado con Mosca, Barcellona con Madrid, Milano con Roma.

Della città anticapitale Catania ha tutte le caratteristiche sociali e mentali: anzitutto il complesso di inferiorità che tende a mascherarsi con l’ironia, l’attivismo febbrile con cui giustifica la sua pretesa alla supremazia, quindi l’amore per il denaro nel quale, in mancanza di un assoluto potere legislativo o esecutivo, identifica il supremo mezzo della potenza, infine una concezione quasi gloriosa delle virtù che possiede e il disprezzo per tutte quelle altre virtù che invece le mancano. Per completare: una costante vocazione alla disubbidienza, cioè una voluta ignoranza di tutte le regole, che essa contrabbanda per libertà.

Ora, considerato che di solito, negli uomini, nel carattere, nella vocazione storica, diciamo addirittura nella sua struttura, un’anticapitale è esattamente l’opposto della capitale, onde avere una definizione quasi perfetta di Palermo utilizziamo questa equazione in negativo.

Per identificare Palermo basta rovesciare l’immagine di Catania.

Catania è febbrile sfottente e allegra, e Palermo invece appagata, ironica e malinconica.

Catania è furiosamente laboriosa in tutte le sue attività esistenziali, quindi anche nel ladrocinio, nel furto, nella truffa, nel crimine, cioè produce de naro, e invece Palermo questo denaro tende a conglobarlo dagli altri anche nel delitto. Catania è colei che corrompe, Palermo è colei che si fa corrompere.

Catania corre per andare a vedere le cose, Palermo tia quieta in attesa che le cose le passino dinnanzi. Catania è nera, Palermo è bianca. Catania è popolare, Palermo nobile.

Infine l’essenziale: Catania rifiuta il potere poiché lo ritiene una sopraffazione e quindi ogni suo cittadino tende a trasformare, anzi ad accomodare la legge al suo interesse personale, mentre Palermo crede nel potere anzi nel suo diritto al potere. Ecco perché i più grandi e geniali delinquenti catanesi sono stati soprattutto falsari, ed a Palermo invece mafiosi. Il paradigma è evidente.

Palermo conta quasi un milione di abitanti con le borgate, cioè ha assunto oramai le proporzioni di un’autentica metropoli europea, estendendosi praticamente dalle colline di Monreale per tutta l’immensa plaga che conduce fino all’aeroporto di Terrasini.

Il centro storico conserva intatta la sua incomparabile maestà architettonica attraverso una successione di piazze e monumenti che hanno davvero pochi eguali nel mondo, il favoloso palazzo dei Normanni accanto alla cattedrale, la via Maqueda, il groviglio fantastico della Civita, l’imponenza del teatro Massimo (sarà stato un atroce momento di autolesionismo per i palermitani intitolarlo al catanese Bellini), la mole del Politeama.

La città nuova che si apre dal viale fino agli immensi giardini della Favorita, ha gli splendori caotici di tutte le grandi città moderne, strade e palazzi maestosi, che all’apparenza sembrano disegnati nel segno dell’imponenza e invece costituiscono un’accozzaglia urbanistica, disordinata e soprattutto arrogante.

Tutte le norme dell’urbanistica civile vi sono disprezzate: arterie che non hanno un senso o una direzione logistica, quartieri costruiti per migliaia di famiglie borghesi, e però sprovvisti di qualsiasi parcheggio, carenza di servizi essenziali, acqua, fogne, scuole, ospedali, un’altra città insomma nata nel segno della prepotenza e dell’avidità.

In realtà Palermo è bellissima, in modo quasi tracotante. Non esiste in tutto il Sud dell’Italia una città che sia così bella, ma bella in un modo particolare, in modo sprezzante, con uno sperpero continuo ed oltraggioso di se stessa; palazzi di sovrani dove le ricchezze e le arti si sono concentrate per secoli, e subito accanto i quartieri osceni, lugubri, pavimentati di sterco, le case dove invece si sono concentrati gli elementi della miseria, i letti l’uno accanto all’altro nella stessa stanza, i pidocchi, il buio, la malattia.

Lo spreco, l’indolenza, la maestà decadente. Lungo la periferia si aprono quartieri che hanno ancora le fondamenta macchiate di sangue. Per ogni area edificabile ci furono morti, uomini rincorsi e straziati in mezzo alle strade, ed ora si spalancano grattacieli di marmo, con i giardini sulle terrazze.

Al centro della città invece si ergono antichi palazzi che da soli potrebbero fare l’orgoglio architettonico di una città, e sono però spaccati, deserti, i balconi sfondati e bui.

Chiese, cattedrali che non hanno eguali, un groviglio di fantasie e genialità, mosaici di oro, giardini di incredibile opulenza, reggie per le quali consumarono la vita migliaia di operai e si impoverirono per decenni le popolazioni, ed alle loro spalle strade profonde come burroni, dove il sole penetra un attimo, a mezzogiorno, un lampo, una lama di luce su un vermicaio di esseri umani, su una continua putrefazione umana, migliaia di lenzuoli immobili alle ringhiere come sudari, cani, gatti, bambini; le pareti delle case sono intrise di un sudore fetido, i vecchi e gli ammalati stanno definitivamente lì dentro, come in un anticipo della tomba, immaginano che il paradiso sia semplicemente un letto sul quale sdraiarsi per sempre.

Nel centro di Palermo hai la straordinaria impressione che, accanto ad un nobilissimo quartiere della Roma pontificia, si sia incastrato, anzi sovrapposto un paese come Palma di Montechiano. Non esiste forse alcuna altra città italiana dove la ricchezza e la miseria sia così profonda e oltraggiosa.

L’anima della città rassomiglia al suo volto. Giustamente è la capitale dell’isola, poiché ne rappresenta il costume come su un palcoscenico. E si fa pagare per questo, cioè accetta di recitare il personaggio ed il ruolo di capitale a patto che la mantengano, a patto che tutti gli altri sudditi accettino di pagane la sua magnificenza ed i suoi vizi. Il reddito della città di Palermo, cioè la cifra che guadagna e produce la popolazione, è di quasi 1000 miliardi l’anno, metà dei quali sono pagati per stipendi.

Qui vivono i funzionari più pagati dell’isola, i direttori, vicedirettori, condirettori, consiglieri di amministrazione, capisenvizi, deputati, segretari di tutte le organizzazioni, banche, istituti, uffici, enti che coprono l’intero territorio siciliano. Siamo una delle popolazioni più povere del continente, ma abbiamo in proporzione il maggior numero di impiegati d’Europa: metà della popolazione lavora nelle fabbriche, nelle campagne, sul mare, nelle miniere, nei cantieri e l’altra metà amministra. Abbiamo enti per tutto, per ogni cosa, attività, desiderio, esigenza; enti per la riforma di una terra che i contadini hanno oramai abbandonato, per emigrare, enti per studiare la verticalizzazione delle miniere, per compilare gli elenchi dei disoccupati e distribuire i loro relativi assegni, per prestare denaro, per controllare chi presta denaro, per liquidare le aziende alle quali il denaro è stato prestato e sono però fallite. Voglio qui semplicemente dire che a Palermo vivono i dirigenti di tutte queste organizzazioni, coloro che hanno gli stipendi più alti, che possono pagarsi l’appartamento più vasto e confortevole, l’auto di maggiore cilindrata, il cibo più appetitoso, che possono mantenere la cameriera, mandare i figlioli nei collegi più aristocratici. Abbiamo detto: arroganza! Ecco il termine che avremmo dovuto subito usare per definire la supremazia politica di Palermo, una città che ha tutto il diritto di essere capitale e che perciò ritiene di potere esercitare questo diritto solo nel suo nome e nel suo interesse.

In definitiva Palermo è la capitale che noi siciliani meritiamo poiché ci rappresenta perfettamente: la sua alterigia e miseria, la sua antica maestà e corruzione, il disordine mentale, il disfacimento dell’antica bellezza, la prosopopea culturale, la prevaricazione politica, la violenza elevata ad infallibile sistema di potere, il servilismo come unico infallibile modo di resistere alla violenza assoggettandosi. Infinite cose che accadono in Sicilia rassomigliano a questa immagine.

Resta da capire se in questo dopoguerra è stata Palermo a fare lentamente una Sicilia a sua somiglianza, disposta cioè a lasciarsi governare con l’intrigo, il clientelismo, lo sperpero, l’arricchimento e la potenza dei pochi contrapposti alla sofferenza dei più, leggi a favore delle tribù e dei feudi, disprezzo per gli immensi problemi collettivi, oppure è stata la Sicilia con le sue infinite miserie anche mentali, il brulicare dei suoi individualismi, rancori, sordide avidità paesane, a costruirsi una capitale a sua immagine e necessità, capace perciò di tutte le corruzioni, violenze, congiure, complicità, assoluzioni.

Negli ultimi trent’anni Palermo ha pressoché raddoppiato la sua popolazione. La istituzione dell’autonomia regionale, con una indipendenza amministrativa e politica praticamente senza eguali in tutti gli ordinamenti costituzionali europei, la contemporanea moltiplicazione di enti ed istituti di governo, l’ingigantimento degli interessi economici e finanziari, hanno dilatato gradualmente l’importanza sociopolitica della città. In realtà Palermo è stata sempre una capitale, ne ha posseduto sempre la definizione, l’albagia, il potere, diremmo quasi la predestinazione. È stata addirittura costruita perché fosse capitale.

Il carattere della sua popolazione è stato sempre quello dei cittadini di una capitale.

Negli ultimi secoli questa funzione, questa maestà erano però soltanto teoriche sicché essa viveva la vita normale delle città medie italiane, come Bologna, Firenze, Bari, Catania, Venezia. Improvvisamente, proprio dall’oggi al domani, essa è diventata capitale autentica, cioè ha dovuto darsi la struttura per esercitare il suo potere di governo.

Prima migliaia di persone, poi decine di migliaia, centinaia di migliaia hanno gonfiato orribilmente il suo tessuto urbanistico, hanno divelto il suo schema di vita, hanno portato o imposto nuove necessità, fabbisogni, vizi. I nuovi cittadini sono arrivati da tutte le parti. I politici, i funzionari, i tecnici, gli impiegati, i presidenti, i direttori, i vicepresidenti e vicedirettori, i segretari, e dietro costoro la folla dei clienti, degli amici, dei parenti, degli elettori, ed ancora tutti coloro i quali intravedevano una possibilità di sistemazione, uno stipendio, una carica, un posto, un terreno fertile per i loro imbrogli, o più semplicemente un improvviso spiraglio per risolvere il loro fallimento umano.

Dopo l’ondata politica, quella borghese: funzionari, impiegati, segretari, bancari, commercianti, medici, avvocati, studenti, geometri, ingegneri, professori, e subito dopo appaltatori, negozianti, manovali, falegnami, studenti, e nello stesso tempo disoccupati, truffatori, ladri, imbroglioni, puttane, ruffiani, speculatori, agricoltori che vendevano la loro terra per investire il denaro in appartamenti e commerci, piccoli delinquenti che venivano a mettere a disposizione dei racket mafiosi la loro capacità di violenza, mafiosi che abbandonavano le faide di provincia per correre alla conquista dei nuovi mercati, l’edilizia, gli elettrodomestici, gli appalti pubblici. Nei paesi a più alto tenore di vita sono i grandi centri industriali che attirano da ogni parte gli scontenti, gli avidi, gli speculatori, i disoccupati, gli ambiziosi, ma anche le persone di ingegno, che hanno idee nuove, iniziative, ambizioni.

Laddove l’industria non esiste è la burocrazia che esercita questo invisibile potere di attrazione. Ma non si tratta di individui animati da una mente economica, che vengano cioè a cercare fortuna e spazio per una loro iniziativa industriale, credito per un loro commercio, fiducia per le loro imprese d’arte: si tratta soprattutto di uomini che cercano uno spazio politico. In questa città quasi nessuno ha portato buona volontà di lavoro, idee, entusiasmo, concorrenza, denaro, intelligenza. Quasi tutti sono venuti per prendere qualcosa, in qualsiasi maniera, offrendo in cambio cose senza valore economico: la propria dubbia devozione, qualche migliaio di voti, qualche raffica di mitra.

Non vogliamo fare qui una nuova storia della mafia, ma semplicemente raccontare come la improvvisa investitura a capitale abbia dapprima gonfiato Palermo poi l’abbia fatta straripare tumultuosamente in tutte le direzioni, senza un ordine preciso, senza nemmeno una logica sociale e politica. Un fiume che non riesce a contenere più le sue acque e improvvisamente devasta il suo stesso territorio. La forza politica avrebbe dovuto avvertire questa tragedia che riguardava un’intera città, proprio la capitale stessa del suo potere, ma fu travolta. Incapace di elaborare un ordine logico, un piano sociale che coordinasse questo immenso caos umano in mezzo al quale c’erano sì violenze e delitti, ma anche miserie e necessità umane, si fece essa stessa protagonista negativa, disponendosi a tutte le corruzioni, accettando tutti i saccheggi, spesso facendosi addirittura alleata o complice delle infamie. Invece di lottare contro questa devastazione, accettò di governarla. Il delitto compiuto per anni ed anni dai politici contro Palermo non ha praticamente riscontro nella storia recente di alcuna città italiana. Ecco un’altra differenza che vale sottolineare.

A Catania gli uomini politici inerti o mediocri hanno assistito da spettatori alla devastazione che i catanesi operavano sulla città. E infatti Catania è cresciuta selvaggiamente come i suoi cittadini, ognuno per conto suo, voracemente, ognuno per suo interesse, hanno voluto che fosse. Palermo invece è stata devastata dagli uomini politici che hanno amministrato la sua crescita da protagonisti. Negli anni sessanta l’ingigantimento della città divenne così furioso da essere insopportabile. Tutti gli argini furono rotti, molti interessi arrivarono al limite della vita e della morte, tutte le devastazioni si compirono. Palermo si insanguinò in ogni dove poiché corruzione e amicizie politiche non bastarono più a stabilire le gerarchie, e la violenza divenne la misura estrema dei valori umani. Ripeto: io non voglio rifare qui la storia della mafia, ma raccontare semplicemente Palermo. Basta semplicemente riferire la frase di un tassista palermitano, un ometto aguzzo e ridente, con una cicca all’angolo della bocca, il quale, accompagnandomi per le maestose arterie del centro residenziale, faceva anche da cicerone, come se mi guidasse per i corridoi di un museo: «Questa è via Notarbartolo, strada molto signorile, dentro i piloni di cemento dei palazzi sono murati almeno cinque o sei mafiosi… mentre il cemento era ancora liquido ci calavano il morto, pluff, e subito una bella colata sopra… questo è il viale della Regione, strada di uffici e assessorati, qui ce ne dovrebbero essere murati altri sei o sette… questo il viale Lazio, guardi che bello, negozi e ristoranti, una strada allegra, in quel palazzo ce ne dovrebbero essere murati tre, in quell’altro due…»

Così Palermo divenne enorme, nella dimensione di una vera capitale, inghiottendo adagio tutti gli orrori umani, le corruzioni, le infamie, le complicità, le violenze, le voracità, i dolori, le miserie, le vendette, le implorazioni che arrivano da ogni parte della Sicilia occidentale ed anche dall’oriente di Catania, Siracusa, Messina; trovando per tutti un tugurio o un palazzo, un impiego di bidello o presidente, di muratore o di imbroglione, di prete, deputato, architetto, killer, segretario, appaltatore, delinquente senza tuttavia mai lasciar sopraffare, ma governando sempre questo drammatico caos umano in modo che tutto accadesse nell’interesse del potere: le immense speculazioni edilizie, i giganteschi appalti pubblici, il disegno urbanistico della nuova città, le grandi attività commerciali ed economiche.

In questa crescita tumultuosa, apparentemente cieca, e tuttavia sempre oscuramente controllata, fiorivano come sempre accade nelle grandi trasformazioni civili, anche ansie culturali e artistiche improvvise, ribellioni sociali e poetiche; basti dire che proprio dall’humus palermitano sono germinati Guttuso, Bruno Caruso, Tomasi di Lampedusa, Buttitta, Pino Caruso, lo stesso Leonardo Sciascia, una generazione di talenti che però Palermo ha praticamente disperso, voci di bellezza, verità, disperazione che Palermo ha rifiutato.

È onesto riconoscere che in questa città splendida, davvero di uno splendore incomparabile, epperò saccheggiata e violentata come nessun’altra città italiana, la sola forza civile che abbia disperatamente tenuto testa alla violenza, sono stati i giornalisti. Io non posso certo giurare che nessuno di loro sia stato talvolta sottomesso o corrotto, ma guardando trenta anni di lotta umana, quotidiana, quasi sempre ai limiti del rischio esistenziale, sento l’orgoglio di essere giornalista e siciliano anch’io.

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