A chi volete che gliene importi di Mongiuffï? Continuavano a vivere come trecento quattrocento anni or sono, come se quel buco nella pietra della montagna fosse ancora otturato e il sentiero finisse là, sullo strapiombo del canyon
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione
C’è una Sicilia misteriosa e remota che nessuno conosce. Così lontana (lontana dalle notizie del mondo, dalle coste del mare, dagli interessi umani, da tutte le cose dentro le quali noi siamo fino al collo) da apparire irraggiungibile. Paesi che gli indigeni costruirono cinquecento o mille anni or sono sulle cime di incredibili montagne, le case l’una sull’altra, in modo che si reggessero a vicenda, e su in cima un torrione ed un campanile. I barbari, i saraceni, gli arabi, i normanni saccheggiavano le coste ma non ardivano giungere fin lassù.
Per conquistare un paesino ci sarebbe voluto un esercito che però avrebbe dovuto valicare montagne, guadare torrenti, procurarsi cibo, seminare di morti quelle giornate di avventura, e poi cercarsi la via disperata della fuga in mezzo a quelle vallate. E per quale obiettivo? Distruggere un mucchio di case ed un campanile, razziare una decina di stalle, rapire o stuprare un centinaio di pecoraie. Questi paesini furono le sole cose invitte della storia siciliana fatta di invasioni, stragi, dominazioni. Passarono i barbari ed i paesini rimasero in cima alle montagne e divennero baronie.
Non fu una grande evoluzione civile. Molti baroni furono semplicemente quei pecorai e contadini che avevano la famiglia più numerosa, più folta di figli maschi e quindi potevano imporre i loro interessi a bastonate nei confronti dei pecorai o contadini rivali. O più semplicemente il contadino più forte, il più ricco o il più astuto, magari il più malvagio, cioè disposto secondo la teoria dei Borgia ad eliminare gli avversari. I vicerè della costa che venivano da Siviglia o da Tolone non concedevano infatti baronie a coloro che avessero maggiormente contribuito al buon nome del villaggio per vigore cristiano o studi umanistici (l’analfabetismo era peraltro quasi totale) ma a quei sudditi che avessero la casa più robusta, che fornissero all’occorrenza un maggior numero di armati, che pagassero un tributo più sicuro di olio e frumento.
I preferiti a loro volta non misero tempo a farsi case ancora più alte e più minacciose, a imporre balzelli, ad acquistare spade di migliore tempra, esercitarsi nell’uso delle stesse, accaparrarsi la fedeltà dei più rissosi e violenti, mangiare meglio, vestire meglio, imparare a leggere e scrivere, istruire le truppe, adulare il vicino più potente, tradire il più debole, razziare il feudo del vicino più distratto ed in definitiva guadagnarsi il titolo. Molte baronie, ducati, contee furono guadagnati valorosamente sui campi di battaglia delle crociate, altre invece si formarono cupamente nelle segrete regioni dell’isola dove l’autorità dei sovrani non era mai riuscita a penetrare. Passarono i secoli.
I baroni scesero alle città della costa, ai grandi centri della pianura: erano ricchi di soldi e dell’ambizione di distinguersi in una società dove non ci si faceva più avanti a bastonate, ma con arti più sottili ed insidiose. Comperarono agrumeti in pianura, fecero costruire palazzi nelle città, dai maestri del colore fecero dipingere quadri dove i loro antenati erano effigiati con pergamene e pandette, fondarono pie istituzioni, costruirono giardini pubblici, fecero studiare i loro figli che a loro volta illustrarono le città di residenza, divennero senatori, professori, esploratori, si sposarono fra cugini per conservare più a lungo la «roba».
Così per secoli, finché, nello spazio di cinquant’anni, una cataratta di guerre e rivoluzioni non li cancellò come ceto, come organismo produttivo della società e li disperse pateticamente sulla faccia della terra, in piccoli feudi sfuggiti alla riforma agraria o negli uffici delle banche. Lassù, sulle cime delle montagne dove essi li avevano lasciati, e come li avevano abbandonati, rimasero i misteriosi, minuscoli paesi, aggrappati sullo strapiombo delle gole, per centinaia di anni sempre più vecchi, più remoti, avulsi, anzi recisi da qualsiasi interesse sociale politico ed umano che non fosse l’interesse degli sparuti superstiti. Se strade e sentieri c’erano per la costa, si coprirono di erba e polvere, franarono e furono cancellati. L’unica strada per molti paesi rimase il letto del torrente che saliva da una gola all’altra e si insinuava fra le valli. Si calcola che ancora almeno duecentomila siciliani abitino in paesi così, dove gli altri cinque milioni di siciliani non metteranno mai piede, e di cui si conoscerà solo il nome, quasi per una leggenda.
Ne abbiamo scelto uno per conoscerlo: Mongiuffi, per il quale il gergo popolare ha creato oscure e pittoresche allusioni. Un nome che sembra una razza, una tribù… Oltrepassato il golfo di Mazzarò ed il capo Spisone, lungo la costa di Letojanni, c’è una grande fiumara che sbuca fra due montagne, e lì accanto una strada minuscola che subito scompare fra i dirupi. Una specie di varco segreto, un trabocchetto. Subito si comincia a salire e si valica una prima montagna, per una strada che diventa sempre più stretta, si scende ad una valle e si risale il fianco di un’altra montagna.
Credi ancora di aver il mare alle spalle, ma quando improvvisamente ti volti, trovi solo una muraglia di montagne, il mare è scomparso, inghiottito di colpo laggiù in fondo alla valle, come per lo scarico di un lavandino. E si sale, prima forse erano colline, ora autentiche montagne; cominci a sentire un rumore sterminato e lontanissimo: sono le acque che corrono da ogni dove, sul fondo dei burroni, fra i crepacci, i boschi, sottoterra, sul fianco dei monti, da un’infinità di misteriose vie e sorgenti.
D’un tratto un brivido: mentre corri sul fianco di una montagna, la strada finisce di colpo contro un’altra montagna più alta. A sinistra c’è soltanto il burrone, come uno di quegli immensi canyon del West e laggiù il tonfo di una cascata che non vedi nemmeno tanto è profonda. Una curva ancora e la strada si affonda in un tunnel di pietra, una specie di portone buio, un ponte levatoio, una botola al di là della quale si emerge in uno straordinario paesaggio, un’immensa vallata in mezzo alla quale si erge un monte spaccato in due, e sulle due creste di pietra un rovinio di case, l’una in equilibrio sull’altra, con un campanile in cima. Tutt’intorno montagne, verdi in basso, bianche ed aride sulle cime poiché il vento le rade instancabilmente. Sembra una specie di Atlantide alla rovescia, un paesaggio emerso da un diluvio.
Trent’anni or sono questa strada e questo tunnel non c’erano. Coloro i quali volevano recarsi a Mongiuffi, rigattieri, ciarlatani, venditori ambulanti, il medico, i carabinieri, il prete, il mercante di bestiame dovevano seguire il fondo dei torrenti e scavalcare quest’ultima incredibile montagna. E di lassù gli indigeni, se volevano scendere alla costa per vendere un gregge, le pezze di formaggio, per acquistare le stoffe, i chiodi, gli arnesi, una medicina, dovevano camminare un giorno interno, fosse pioggia o vento, guadare acque, dormire all’addiaccio con gli animali. Ma non scendevano quasi mai: avevano imparato a non avere bisogno di niente, allevavano i maiali ed i vitelli per la carne, le mucche per il latte, le capre e le pecore per la lana, tessevano sul telaio le lenzuola, le coperte, i mantelli; con il cuoio delle pelli si facevano le scarpe, le cinghie, le redini, gli stivali, dalla montagna scavavano la pietra per costruire le case, cuocevano l’argilla per farne le tegole, tagliavano gli alberi dei boschi per costruire le porte, le sedie, i tavoli, gli stipiti, gli aratri. Avevano il torchio per trarre l’olio dalle ulive, le macine di pietra per la farina, i forni per cuocere il pane, i palmeti per una botte di vino a testa. Con l’agave facevano le corde per impagliare le sedie, per legare le bestie, per sollevare i carichi e, se accadeva, anche per impiccarsi. Con il grasso degli animali facevano il sego per le candele. Mancava loro soltanto il vetro ma non era importante. E mancava il ferro per tutte quelle cose che invece debbono essere fatte di ferro. Una volta l’anno ne compravano nei paesi della costa quanto bastava per lavorarlo.
Scendevano laggiù ai paesi della costa soltanto per una malattia, a cercare una salvezza ormai impossibile, oppure a chiedere giustizia di malefatte oramai definitive. E quando arrivavano da quelle remote valli che nessuno conosceva e dove nessuno avrebbe mai avuto occasione di andare, trovavano il mondo che incessantemente, furiosamente continuava a cambiare. La bicicletta, il treno, la nave, le automobili, i fascisti, la radio, gli inglesi, la televisione, i turisti, la penicillina. E sbigottivano. Angelo Musco, in una commedia famosa, ad un certo momento disse a soggetto all’antagonista: «Da dove vieni? Dai Mongiuffi?».
Millecinquecento abitanti, metà sulla cima di una montagna che si chiama Mongiuffi, e metà sull’altra cima che si chiama Melia. All’ingresso dell’abitato alcune panchine di pietra sulle quali stanno seduti in fila alcuni vegliardi candidi, rattrappiti, silenziosi. Non si muovono. Cento metri più in là quattro ragazzi che giocano con una palla di carta, un camion con i pneumatici a terra incrostati di fango sino ai mozzi: deve essere fermo qui da almeno sei mesi. Un carabiniere che sbuca attonito da un cortile, un gruppo di donne sedute in cerchio su un ballatoio, il martello di un fabbro che picchia da qualche parte, una fontana con acqua quasi gelida, un piccolo bar dinnanzi al quale stanno cinque o sei persone, come se fossero esposte, come se il padrone, invece di vendere bibite e caramelle, vendesse quei suoi avventori.
Vi raccontiamo Mongiuffi attraverso tre colloqui: Un contadino scuro, piccolo, educatissimo: «Io sono di Melia. Una cosa diversa! Sapete qual è la fama di quelli di Mongiuffi? Una volta erano litigiosi, litigavano per niente, anche per l’ombra più corta o più lunga. Mio padre mi diceva che quelli di Mongiuffï camminavano con il mazzo delle carte in una tasca e con il codice nell’altra. Io mi alzo all’alba, vado per la terra, semino, zappo, taglio, a seconda delle stagioni. Oppure porto gli animali ad abbeverarsi e li governo, mungo il latte, toso la lana, aggiusto i muri. Oppure sto sotto un albero senza fare niente. Io non sono povero, io ho la casa, un po’ di terra, gli animali. E perché dovrei emigrare, qui nessuno emigra, qui non ce ne sono disoccupati.
Volete sapere quanto costa una casa? Niente! Voglio dire che qui nessuno vuole comprare una casa. Ognuno ha la sua, che dovrebbe farsene di un’altra? Sissignore, io so giocare a scopa, tressette, briscola coperta e scoperta, ma il mio più grande spasso è la festa della Madonna della Catena sull’altopiano, poiché c’è una bella processione di almeno dieci chilometri, la funzione sacra, e poi in mezzo alle campagne ognuno si scanna il suo montone, accende il fuoco e se lo fa cuocere sulle pietre. Tutti mangiano, bevono e dormono, anche i vecchi, le donne e i bambini!». Un impiegato scarno, un po’ curvo, ancora molto giovane, una piega di straziante malinconia alla bocca, due penne stilografiche nel taschino, i denti cariati, gli occhiali da sole. Dal tono della voce non si riesce a capire se sia ironico, nostalgico o sadico. «Tra comune, scuola, caserma, gli impiegati del paese siamo venti. Io sono proprio di Mongiuffi.
Una volta a Catania in un ufficio mi chiesero la carta d’identità e l’impiegato dello sportello pareva incantato a leggere la mia carta di identità. Si mise gli occhiali, poi mi guardò a lungo e mi chiese se ero proprio di Mongiuffi. Chiamò anche alcuni suoi colleghi dicendo “…Venite, c’è uno di Mongiuffi”. Il disonesto! Io abito qui come ad un altro capita di abitare a Parigi e fra gli esquimesi. Per cominciare io conosco lo scrittore francese Peyrefitte che è stato qui a Mongiuffï per scrivere un libro. Volete sapere la situazione del paese? Bene. C’è un segretario comunale, un vice segretario, tre carabinieri, otto maestri elementari, il medico condotto, il farmacista ed un vigile urbano. Nossignore, netturbini non ce n’è. C’è un contadino che ogni tanto spazza le strade e viene pagato a cottimo.
Talvolta però il comune non ha soldi ed il contadino non lavora. Il comune è povero, ha cinquanta milioni di debiti. Alle ultime elezioni hanno detto che i problemi di Mongiuffi sono un nuovo edificio scolastico, l’acqua in tutte le case ed una strada più larga verso la costa. Balle! Il problema più importante è il fatto delle donne: se uno vuole conoscere una donna deve sposarsi. Oppure bisognerebbe avere una automobile ed andarsene ogni sera a Mazzarò! Almeno uno potesse leggere. Ma qui, non arrivano nemmeno i giornali: non si vede nemmeno la televisione perché ci sono le montagne, si vedono solo ombre strane. Abbiamo persino costruito un’antenna di dieci metri. Niente! Ci sono una ventina di ragazzi che seguono i corsi di scuola media per televisione, ma debbono regolarsi solo da quello che sentono. Per l’esattezza è il primo canale che si vede male. Il secondo non si vede per niente.
Certo uno potrebbe sempre andarsene da questo paese. Ma qui uno ha la sua casa, la madre e il padre, gli amici. E poi gli impiegati municipali, la guardia, i carabinieri, il medico, il farmacista, i maestri elementari come possono lasciare il paese? Che è un paese buono questa è una cosa che non si deve dimenticare. Non c’è un ladro, un delinquente. Negli ultimi venti anni c’è stato solo un furto di galline. Si scoprì che erano stati tre catanesi. Cose da pazzi: avevano speso almeno duemila lire per arrivare in automobile fin quassù e rubare otto galline! La cosa più strana fu che proprio loro, i catanesi, si fecero acciuffare subito da quelli di Mongiuffi!».
Terzo colloquio. Un vecchio, su in cima alla montagna, più in alto ancora del paese, dove la strada diventa un sentiero e poi anche il sentiero finisce. Stava seduto sul muretto e guardava immobile il paese e la vallata. Aveva un cappello con le falde larghe, una specie di panama, una lunga giacca nera, degli strani occhiali da vista e una cravatta azzurra, Doveva avere almeno ottanta anni. Fumava e sembrava schiacciato da un’indicibile tristezza. Pensammo che fosse triste perché presentiva la morte ed egli ci guardò con rancore come se avesse intuito il nostro pensiero. Parlava stentatamente, con parole che nel dialetto non si usano da decenni: «Io non so niente, io non vi conosco.
Non so quanti abitanti fa Mongiuffi. Io sono di passaggio poiché debbo tornare a New York dove ci sono i miei figli, i miei nipoti e la casa. Io sono stato cinquant’anni a New York, che ci sto a fare a Mongiuffi? Andatevene, non vi conosco, non conosco nessuno qui!». Si mise a fumare, ricominciò a guardare con odio la vallata, come se cercasse un varco da qualche parte. Nel paese rivedemmo quei sei o sette vecchi, quasi nell’identica posizione, l’uno accanto all’altro, sul sedile di pietra. Immobili, muti. Probabilmente non avevano scambiato una parola. Imbruniva. Sulle terrazze o dinnanzi agli usci stavano seduti uomini e donne a gruppetti ed i bambini con loro. Ci stupì che non parlassero fra di loro.
Né la gente che passava rivolgeva loro la parola o viceversa. Capimmo una cosa: che vivevano insieme da venti, da cinquanta, da ottanta anni, ognuno secondo la sua età, e si vedevano ogni giorno, si conoscevano l’uno con l’altro, si erano salutati migliaia di volte, avevano trascorso migliaia di ore infallibilmente insieme e tutte le cose semplici che avevano da dirsi se l’erano dette. Non vedevano la televisione e non potevano leggere il giornale, e dunque non avevano nemmeno da discutere di «Domenica in» di Bettega, del banchiere Sindona, di Fanfani. Stavano insieme per il piacere fisico di starci e basta. E stavano bene, non sembravano infelici, e nemmeno in collera con qualcuno. Avevano una bella sera dinnanzi, completamente vuota. Mangiare, fumare, stare in silenzio ed infine dormire.
Ognuno aveva la sua casa, né avrebbe desiderato farsene un’altra perché non avrebbe avuto a chi venderla; ognuno aveva la sua parte di terra, il frumento, il latte, l’olio, il vino, il lavoro, venti sigarette al giorno, la sedia, il letto, l’acqua, gli amici e tutto intero il suo tempo. Nessuno si ricorderà di loro per allargare la strada, per fare un ripetitore televisivo sulle montagne, per costruire un cinema: a chi volete che gliene importi di Mongiuffï? Continuavano a vivere come trecento quattrocento anni or sono, come se quel buco nella pietra della montagna fosse ancora otturato e il sentiero finisse là, sullo strapiombo del canyon
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