La sopravvivenza delle miniere siciliane era legata solo alla probabilità che l’America fosse coinvolta in una guerra di vaste proporzioni, ed in effetti, negli anni cinquanta, per tutto il tempo della guerra di Corea, lo zolfo siciliano tornò ad essere solo sul mercato siciliano
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione
Ho scelto di viaggiare verso il Sud. Il mare d’Africa, le coste deserte e maledette della Sicilia. I sociologi europei lo chiamano il «cul de sac» del continente. Ho cominciato questo nuovo processo ai Siciliani senza una meta precisa, aspettando che fosse l’occasione, voglio dire una immagine, un essere umano, o comunque un incontro, ad indicarmi una scelta. Strada verso il sud, lunghi rettilinei, una giornata di sole e di vento, file di camion, nuvole bianchissime che corrono sulle colline, trascorrendo come ombre immense sulle campagne.
Dinnanzi a me un gigantesco camion lentissimo, carico di polvere gialla; il camion procede in questo alone di polvere gialla, è tutto giallo di questo pulviscolo, anche i mozzi delle ruote. È zolfo che arriva dalle miniere dell’interno verso i complessi petrolchimici della costa. Così almeno credo.
Poi alla fine scoprirà che è zolfo belga e viene scaricato a Catania da una nave francese. Ricordo il discorso di un tecnico minerario, un uomo allampanato, tristissimo che aveva lavorato in tutto il mondo: «Il sottosuolo siciliano probabilmente è il più ricco d’Italia, petrolio, sali potassici, salgemma, zolfo. I siciliani vivono poveri su una terra ricchissima!
Lo zolfo è il più miserabile di tutti i prodotti minerari e tuttavia esso è indispensabile per un’infinità di prodotti chimici essenziali, fertilizzanti, medicinali, esplosivi ad alto potenziale!» In cima a quel corpo così magro da sembrare oscillante, l’ingegnere aveva una grande testa bizzarra, quasi triangolare, con il mento aguzzo e la bocca sottile, un grande naso con gli occhi attaccati in cima, e gli zigomi che via via si allargavano in una immensa fronte sulla quale i capelli si rizzavano come quelli di Pampurio. Sembrava una caricatura.
Anche le cose che spiegava sembravano caricature dialettiche. Mi spiegò infatti che, senza lo zolfo, sarebbe estremamente difficile combattere talune malattie degli animali, oppure operare la disinfestazione delle campagne, e infine anche la guerra a cannonate diventerebbe molto più costosa, bisognerebbe farla soltanto con le atomiche e le baionette.
Mi chiarì che il sottosuolo americano conteneva enormi giacimenti di zolfo, che però non era stato mai sfruttato perché bisognava scavare fino a mille metri di profondità e scendere in quelle caverne sfidando i rischi mortali del grisou, e perciò gli americani avevano sempre preferito comperare lo zolfo siciliano che era molto più economico, scavato in fondo alle montagne da gente affamata alla quale si poteva pagare un salario miserabile.
Finché un giorno uno scienziato tedesco di nome Frasch inventò un sistema di semplicità quasi puerile: capì cioè che lo zolfo americano raggruppato in sterminati giacimenti sotterranei, era però circondato da strati di roccia estremamente porosa e che dunque bastava introdurre una sonda di acciaio fino alla profondità del giacimento immettendovi vapore acqueo alla temperatura di 180 gradi.
Si provocava così la fusione dello zolfo che, ribollendo, si faceva strada attraverso gli strati di roccia spugnosa e per un’altra sonda risaliva alla superficie. Purtroppo il metodo non poteva essere applicato ai giacimenti siciliani, schiacciati da impenetrabili strati di roccia basaltica, che bisognava dunque scavare adagio adagio con i picconi, per centinaia di metri in profondità, e laggiù scavare altre gallerie seguendo i capricci del giacimento, e con la forza delle braccia umane picconare lo zolfo per staccarlo pietra a pietra, e caricarlo sui vagoni di legno che i muli e gli asini tiravano adagio verso il pozzo di risalita.
I muli e gli asini venivano calati nelle viscere della montagna quando erano ancora puledri: giorno dopo giorno, per anni ed anni, tiravano migliaia di vagoni, senza mai più vedere la luce del sole.
Lentamente diventavano ciechi, finché un giorno crollavano in mezzo alle pietre e finalmente la carogna risaliva all’aria aperta. E difficile poter trovare un destino di essere vivente così assurdo e triste come quello degli asini in fondo alle miniere siciliane. Con dieci uomini e una doppia sonda il signor Frasch riuscì praticamente a fare il lavoro di cinquecento minatori e venti asini siciliani.
Lo zolfo siciliano costava sul mercato, poniamo, mille lire al chilo, e quello americano solo cinquanta lire. Uno degli elementi cardini dell’economia siciliana venne distrutto di colpo. La sopravvivenza delle miniere siciliane era legata solo alla probabilità che l’America fosse coinvolta in una guerra di vaste proporzioni, ed in effetti, negli anni cinquanta, per tutto il tempo della guerra di Corea, lo zolfo siciliano tornò ad essere solo sul mercato siciliano. Accadde infatti che l’America ritenendo il minerale prezioso ai fini bellici, avesse bloccato completamente le sue esportazioni e fosse addirittura diventata il maggiore acquirente dello zolfo siciliano, al duplice fine di risparmiare la propria produzione e di sottrarre quanto più possibile zolfo ad altre potenze militari.
Poi la guerra di Corea finì e l’America riaprì le esportazioni: chi vuole zolfo, della migliore qualità, a prezzi infimi? E le zolfare siciliane cominciarono definitivamente a morire. A questo punto si sarebbe dovuto fare un atto politico di intelligenza e di onestà: cioè guardare in faccia la realtà e decidere con estrema saggezza l’unica soluzione possibile, cioè la chiusura delle miniere siciliane.
Ma la politica non è saggezza, poiché la saggezza spesso è dolorosa, nemica delle clientele politiche e della retorica. C’erano ottomila minatori che ogni giorno scendevano in fondo alle montagne a cavare lo zolfo, vale a dire ottomila famiglie, e dunque tutta l’economia di una zona. Ed era anche coinvolto il lavoro di altre centinaia di famiglie, i trasportatori, i carrettieri, i camionisti, gli operai delle raffinerie catanesi. E naturalmente c’erano anche gli interessi di decine di grandi proprietari i quali vedevano vanificare di colpo la propria potenza economica.
Da una parte la disperazione popolare, dall’altra l’affannosa cupidigia dei padroni. Le grandi crisi siciliane sono spesso grottesche perché non vi è mai un dolore preciso né un interesse perfettamente identificabile, ma ogni cosa confluisce confusamente da destra e da sinistra, e in mezzo anche i falsi dolori, le disperazioni retoriche, gli interessi camuffati.
Tutto infine viene confuso dalla speculazione politica, cioè dal febbrile istinto di trarre ognuno quanto più vantaggio possibile dal disastro: voti, appalti, incarichi, ladronerie, stanziamenti straordinari. Il terremoto del Belice provocò cinquecento morti, la distruzione sociale di migliaia di famiglie, la disintegrazione di un territorio, la sparizione di alcuni centri abitati, un dolore tragico a tutta la nazione, e l’intrallazzo di trecento miliardi di pubblico denaro.
Il dramma delle zolfare siciliane fu un balletto quasi analogo, ancora più tortuoso ed esemplare. La soluzione sarebbe stata infatti inequivocabile: chiusura delle miniere e riconversione sociale delle forze di lavoro, destinando la valanga di miliardi del probabile deficit ad altre imprese di pubblica utilità: strade, dighe, bacini idrici, rimboschimento, allevamenti, edilizia popolane, trasformazione dell’agricoltura. Si sarebbe potuta operare una trasformazione civile del territorio, dentro la quale avrebbero potuto trovare un loro posto sociale anche quelle ottomila, diecimila famiglie che vivevano sulle miniere.
Era una soluzione semplice, dura, ma essenziale, e appunto perché troppo logica vi si scagliarono contro tutti, compresi i sindacati che vedevano una loro autentica forza minacciata di fulminea disgregazione.
E si opposero tutti coloro che temevano una dispersione del loro capitale politico, si opposero i proprietari che cercavano di salvare un capitale economico, e ovviamente in quel caos retorico e nell’incubo di una disoccupazione senza alternativa si opposero anche gli ottomila minatori.
Probabilmente erano i soli ad avere ragione poiché presagivano già come sarebbero stati dispersi, in nuovi enti, sistemazioni clientelari, ed altre opere buffe, i miliardi della riconversione. Che il loro terrore umano dei politici fosse giustificato, lo avrebbero poi sperimentato tragicamente sulla loro pelle i terremotati di Montevago e Gibellina.
Asciughiamo i fatti all’essenziale. La Regione creò la «Sochimisi», cioè la «Società chimica mineraria siciliana» alla quale affidò la gestione delle miniere con il compito di chiudere quelle oramai inagibili o troppo pericolose, e di ristrutturare i giacimenti più vasti per renderli competitivi. Praticamente la Sochimisi funzionò soltanto da società liquidatrice, cioè ebbe in partenza un destino fallimentare, non potè far altro che accumulare deficit paurosi, decine di miliardi che moltiplicati negli anni diventarono centinaia di miliardi, nell’illusione, anzi nella follia politica di risolvere, bandiere al vento, salvando il gruzzolo elettorale, quello che era solo un tragico problema di economia.
Finché anche i politici si rendono conto del ridicolo, ed attraverso una serie di proposte, polemiche, violenze retoriche, compromessi, si arriva alla legge numero 42 del 1975 che reca in titolo «Provvedimenti per la ripresa economica delle zone ricadenti nei bacini minerari zolfiferi siciliani».
Insomma la famosa riconversione del territorio e delle forze di lavoro che nel frattempo per anni hanno divorato centinaia di miliardi. All’articolo primo la legge infatti stabilisce che per alcuni paesi delle province di Caltanissetta, Enna ed Agrigento siano spesi novanta miliardi per lo sviluppo industriale agricolo e turistico per pubblici servizi ed opere che possano compensare l’impoverimento del reddito minerario.
La stessa legge, continuando, impone però praticamente la continuazione dell’attività mineraria, escogitando una serie di iniziative per il rilancio delle zolfare, sfoltimento del personale, ammodernamento degli impianti, verticalizzazione del prodotto industriale, scavo di nuove gallerie. A pensarci bene sembra un discorso divertente e sinistro. Come se un medico avesse dilapidato tutta la fortuna di una famiglia per tenere in vita un disgraziato cieco, sordo e paralitico e alla fine, con un sorriso vagamente mistificatorio annunciasse: «Beh, in effetti non c’è proprio niente da fare, però ora tentiamo di tagliargli le mani e i piedi, gli resechiamo l’intestino, insomnia lo accorciamo di statura e lo facciamo più leggero, e cerchiamo di fargli correre i cento metri all’olimpiade. Che ne dite?».
La situazione attuale. Sono state chiuse definitivamente le miniere di Gibellina, Stretto Cuvello, Muculufa, Trabia, Trabonella, Zimbalia, Cingagliano, mentre restano in attività quelle di Ciavalotta, Cozzo Disi, Floristella, Gessolungo, Giumentano, La Grasta e Lucia. La più grande e moderna è quella di Cozzo Disi la quale produce quasi centomila tonnellate di zolfo all’anno e la più piccola, forse miserabile, quella di Lucia che produce meno di novemila tonnellate. In totale la produzione dello zolfo siciliano è di 214.500 tonnellate annue, i minatori che lavorano sottoterra sono 1904, gli impiegati duecento, i dirigenti sette.
Il costo di lavoro per unità comprese ritenute di legge e contributi, si aggira sui quindici milioni l’anno per ogni dipendente. La grande trovata della legge regionale è quella di indurre delicatamente tali dipendenti. minatori ed impiegati, ad andarsene, il tutto studiato con una carezza ai sindacati, una strizzatina d’occhio agli interessi politici, un’affettuosa pacca ai lavoratori e un sospiro di fastidio per l’opinione pubblica.
Secondo la legge infatti i minatori possono andare in pensione, con il massimo della quiescenza e liquidazione con cinque anni di anticipo sulla regola. Inoltre essi possono lavorare in miniera solo fino ai cinquant’anni, dopo di che sono sospesi e, in attesa di maturare la pensione, continuano ad usufruire di un trattamento economico pari all’ottanta per cento della retribuzione, compresi tutti gli annessi assistenziali.
Sono proibite le assunzioni a qualsiasi livello. In altre parole il corpo minerario è stato diviso in tre gruppi: nel primo coloro i quali sono andati in pensione con cinque anni di anticipo; nel secondo coloro i quali hanno raggiunto i cinquant’anni, non lavorano più, ma vengono pagati lo stesso quasi col massimo della retribuzione: ed infine coloro che non avendo cinquant’anni, debbono ancora continuare a lavorare. Costoro continuano ogni giorno a calarsi nelle voragini, a scavare gallerie, a estrarre zolfo, a portarlo in cima alle montagne. Per niente!
Poiché estraggono un prodotto che non ha più mercato, che costa troppo, che nessuno vuole e nessuno compera. Paradossalmente sarebbe molto più razionale che questi minatori fossero pagati egualmente, col massimo della retribuzione, e però se ne stessero a casa.
Si risparmierebbero tutti quegli altri miliardi che vengono spesi per l’attività di produzione: energia elettrica mezzo miliardo per acquisto di materiali, un altro mezzo miliardo per manutenzione delle macchine, trecento milioni per trasporti e così via per altre centinaia di milioni e miliardi. È raro trovare esempio di un altro congegno politico altrettanto buffo. Ponete mente alle cifre che ora vi diremo. Nell’ultimo anno il costo di gestione delle miniere è stato di ventiquattro miliardi, di cui 18 miliardi per salari e quiescenza, e tre miliardi per stipendi.
Nello stesso anno l’Ente minerario ha venduto zolfo sul mercato interno e internazionale per appena un miliardo e 650 milioni con un deficit abissale di oltre ventidue miliardi. Di questi quasi tredici miliardi sono assicurati per finanziamento straordinario da quella legge 42 e gli altri nove bisogna andarli a reperire nelle banche.
I divoranti interessi passivi rappresentano la martellata che Michelangelo si dice abbia scagliato contro la sua statua del Mosè, quando, avendolo completato, esclamò: «Sei troppo perfetto. Un capolavoro!» E torniamo ora su questi rettilinei che vanno al Sud e sui quali sto correndo per cominciare questo processo ai siciliani.
Dinnanzi a me c’è questo camion giallo, che avanza nel sole e nel vento in un alone di polvere gialla. Chissà da quale miniera viene, chissà verso quale industria corre. Ecco, caliamoci anche noi in una miniera di zolfo, a settecento metri sottoterra, vediamo che accade e come. L’impressione è che la vera martellata di Michelangelo a questo capolavoro dobbiamo ancora scoprirla.
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