Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Trame, il festival dei libri sulle mafie che si tiene dal 21 al 25 giugno a Lamezia Terme.


Quanta preparazione ha richiesto la realizzazione del documentario “Terroriste, Zehra e altre”?

Ci sono voluti tre anni per realizzare questo documentario. L’idea è nata durante il tentato golpe in Turchia nel luglio del 2016. La notizia dei rastrellamenti della polizia turca nelle redazioni giornalistiche, nelle università e persino dentro ai tribunali, con migliaia di arresti, mi aveva colpito moltissimo. L’accusa era sempre la stessa: propaganda terroristica. Nel 2013 avevo seguito le proteste di Gezi Park a Istanbul e avevo toccato con mano la ferocia del regime di Erdogan, anche per questo sentivo il bisogno di raccontarla attraverso storie paradigmatiche. Ho scelto quelle di tre donne che, ognuna nel proprio ambito, rappresentano modi diversi di combattere la medesima battaglia contro la repressione e l’oscurantismo: si tratta di una pittrice, una scrittrice e una docente universitaria. Tre intellettuali di fama internazionale arrestate con l’accusa di fare propaganda terroristica. La loro colpa? Avere appoggiato la causa curda. Due di loro, scarcerate in attesa del processo, le abbiamo intervistate nel 2017. La pittrice Zehra Dogan è stata invece condannata in via definitiva a quasi tre anni di prigione (per aver condiviso un disegno sui social network) pochi giorni prima della nostra partenza per Istanbul. Solo un anno dopo sono riuscita, insieme con le altre registe del documentario, a entrare in contatto con lei attraverso il suo avvocato, che ci ha fatto avere dal carcere una lettera autografa di 21 pagine come risposta alle nostre domande. Da quella lettera, trasformata in animazione grafica, è nato “Terroriste”.

È ancora in contatto con le donne che ha intervistato?

Sì, sono in contatto con ognuna di loro. L’artista Zehra Dogan e la scrittrice Asli Erdogan vivono in esilio in Germania, mentre la presidente dell’associazione dei medici turchi, Sebnem Fincanci, recentemente ri-arrestata e condannata a due anni di carcere per propaganda terroristica, continua a vivere a Istanbul. Con Zehra ci siamo più volte incontrate in questi anni ed è nata una straordinaria amicizia.

Il suo documentario “Terroriste, Zehra e altre” è stato pubblicato nel 2019. Da allora la Turchia ha vissuto una pandemia, l’uscita del paese dalla convenzione di Istanbul, un terremoto devastante e la rielezione di Erdogan. Quanto e cosa è cambiato nella vita delle donne che ha intervistato?

Il carcere lascia ferite indelebili, ma può essere anche fonte di ispirazione. Le donne che raccontiamo in questo documentario sono a modo loro eccezionali, perché in questi anni hanno continuato a resistere attraverso la scrittura, l’arte e la scienza. Zehra Dogan, dopo aver scontato la pena, è diventata un’artista di fama internazionale e oggi espone nelle più prestigiose gallerie del mondo. Non solo, in carcere ha prodotto più opere d’arte di quanto abbia fatto quando era una donna libera. Senza avere a disposizione nulla, dietro le sbarre, ha trovato il modo per esprimere il proprio dissenso, sotto forma di arte politica, utilizzando avanzi di cibo e di bevande e anche il sangue mestruale. Se il regime di Erdogan voleva zittirla mettendola in prigione, l’obiettivo sortito è stato esattamente l’opposto: la sua storia e le sofferenze del popolo curdo hanno fatto il giro del mondo.

Qual è stato il momento in cui ha capito che il suo documentario avrebbe portato la storia delle tante donne (e dei tanti uomini) che hanno fatto loro la causa curda al di fuori dei confini turchi?

La preziosa testimonianza di Zehra Dogan ha aiutato molto a veicolare il messaggio e le tante storie contenute in questo documentario. Ho conosciuto la storia di Zehra nel 2016, quando nessuno sapeva chi fosse. Con questo documentario siamo state tra le prime a raccontare la sua esperienza e a portarla fuori dai confini della Turchia. La potenza iconografica dei suoi dipinti, poi, ha fatto il resto.

Che cosa significa la rielezione di Erdogan per le donne che ne combattono l’autoritarismo? E per coloro che ne sono sostenitrici?

La rielezione di Erdogan rischia di far scivolare la Turchia nel baratro dei diritti civili. Nei suoi discorsi in campagna elettorale, il presidente ha promesso di proteggere la sacralità della famiglia tradizionale, esprimendosi pesantemente contro la comunità LGBT e accusando la minoranza curda di terrorismo. Poche settimane prima delle elezioni, la polizia turca ha arrestato centinaia di politici, avvocati, giornalisti e attivisti, per reprimere il dissenso. Due anni fa, con un decreto firmato da Erdogan, la Turchia ha revocato la propria partecipazione alla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne. Lo ha fatto senza un dibattito parlamentare e senza confrontarsi con la società civile, sulla spinta dei gruppi conservatori turchi spaventati dalla diffusione della cosiddetta “ideologia gender”. La diseguaglianza di genere e la violenza sulle donne sono una piaga sociale in Turchia ed è ormai evidente che il programma politico di Erdogan, attraverso un processo di due decenni di repressione e autoritarismo, sia volto a una re-islamizzazione della società turca, nella quale c’è sempre meno spazio per le libertà personali e i diritti civili. Soprattutto delle donne.

Il suo lavoro con le donne che sostengono la causa curda in Turchia sta continuando?

Seguo sempre con attenzione quello che accade in quella parte di mondo e sono in contatto con molte donne e molti uomini che sostengono la causa curda. Mi piacerebbe tornare in Kurdistan prima o poi.

Dopo il suo documentario, è tornata in Turchia?

No, credo che non mi accoglierebbero a braccia aperte.

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