Mentre Joe Biden chiama a raccolta in videoconferenza gli alleati occidentali, la dimensione globale del conflitto in Ucraina diventa sempre più evidente.

La Cina, dopo aver spedito missili in Serbia, comincia un “tour diplomatico” nell’est Europa. Al contempo stringe accordi militari nel Pacifico, dove sale la tensione con gli Usa.

La pressione della guerra

Il presidente degli Stati Uniti ha cominciato la giornata di martedì dalla situation room, nel tentativo di tenere allineato il fronte occidentale sulle sue posizioni. La scorsa settimana, la Casa Bianca ha aumentato il proprio supporto militare all’Ucraina, con un ulteriore pacchetto del valore di circa 740 milioni di euro. «Ampio consenso è stato espresso sulla necessità di rafforzare la pressione sul Cremlino, anche con ulteriori sanzioni, e di accrescere l’isolamento di Mosca»: sono le parole del premier Mario Draghi, presente alla videochiamata assieme ai leader di Francia, Germania, Polonia, Romania, Regno Unito, Canada, Giappone, ai presidenti di Commissione e Consiglio europeo e al segretario della Nato.

«Rafforzare la pressione» è appunto l’impulso che arriva da Biden, mentre il Fondo monetario internazionale registra gli effetti globali della guerra.

Mosca ventila ricorsi legali contro il congelamento dei propri asset, ma l’impatto del conflitto è sulle economie di tutti. Per l’Fmi, le aspettative di crescita dell’economia mondiale decelerano (al 3,6 per cento) e «gli effetti della guerra si diffondono ampiamente e rapidamente», in modo simile «a un terremoto». Intanto anche le tensioni geopolitiche si estendono a livello globale.

Pechino e l’est Europa

L’intraprendenza di Pechino arriva fin dentro l’Ue e riguarda anche l’invio di armi. Comincia questa settimana il tour diplomatico europeo di Pechino. L’ambasciatrice Huo Yuzhen fa tappa in Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Croazia, Slovenia, Estonia, Lettonia e Polonia: l’azione diplomatica sul fianco orientale d’Europa coinvolge sia governi amici, come quello ungherese di Viktor Orbán, che i paesi più timorosi della politica aggressiva di Mosca, come Polonia e paesi baltici.

L’obiettivo è proprio quello di ristorare e rinvigorire relazioni che la guerra in Ucraina e le relazioni con Putin possono compromettere. Ma la Cina non si ferma al soft power: questo mese Pechino ha fatto un passo avanti militare dentro il continente europeo. Sabato 9 aprile, in un clima di grande riservatezza, all’aeroporto di Belgrado sono arrivati sei aerei militari cinesi; trasportavano missili terra-aria Hq-22. I rapporti tra il presidente serbo Aleksandar Vučić, fresco di rielezione, e la Cina, sono sempre più intensi.

Il ruolo della Serbia in questa fase di conflitto ucraino è significativo per almeno due ragioni. La prima è che, mentre l’Ue chiudeva i cieli alle compagnie russe e imponeva sanzioni a Mosca, Vučić ha mantenuto un corridoio aereo aperto e non ha aderito alle misure economiche. Il secondo motivo per il quale la Serbia è cruciale, è che passa per il presidente serbo, come pure per il premier ungherese e per il presidente russo, il piano di destabilizzazione dei Balcani occidentali, incarnato dal leader separatista serbo-bosniaco Milorad Dodik.

Lo scacchiere del Pacifico

L’ultima querelle con Pechino riguarda il Pacifico. Questo martedì Wang Wenbin, il portavoce del ministero degli Esteri cinese, ha divulgato la stesura di un accordo tra la Cina e le isole Salomone, nel Pacifico meridionale.

Nella videochiamata del 18 marzo tra Joe Biden e Xi Jinping, che riguardava anche il ruolo di Pechino nella guerra in Ucraina, la Cina si era detta convinta di aver portato a casa un punto chiave: che Biden non sostenga l’indipendenza di Taiwan. Ma quando, la scorsa settimana, un gruppo di parlamentari statunitensi si è recato in missione proprio a Taiwan, il ministro della Difesa cinese ha parlato di «provocazione» e il 15 aprile Pechino ha risposto con esercitazioni militari nell’area.

Martedì, l’annuncio dell’accordo con le isole Salomone, definito come «patto per la sicurezza»: comprende «il mantenimento dell’ordine sociale», riguarda polizia, personale militare, e rappresenta un avamposto strategico per la Cina. Notizie parziali sulla elaborazione di questo accordo sono filtrate da qualche settimana, e martedì, al momento dell’annuncio, l’Australia ha chiesto «più chiarezza».

Ma oltre all’opacità dei contenuti dell’accordo, il punto per Canberra sono «i rischi per la sicurezza» e la presenza di Pechino nell’area. Alla fine del 2021, Honiara, la capitale delle isole Salomone, è stata sede di accese proteste, che il governo australiano ha contribuito attivamente a sedare. Ma anche Pechino in quella fase ha stabilito un canale con il governo delle isole.

Oggi, l’accordo cinese è considerato dall’Australia come rischioso per due motivi: il primo è il timore di una base navale cinese a duemila chilometri di distanza. Il secondo è di più ampio respiro: negli ultimi tempi, Canberra ha cambiato rotta e ha abbandonato la sua politica estera multivettoriale, aperta anche a Pechino.

Sempre di più, l’Australia ha rotto i rapporti con la Cina e si è legata agli Stati Uniti; il “patto Aukus” annunciato a settembre e stilato con Londra e Washington riguarda «la sicurezza nell’Indo-Pacifico» e la cooperazione affinché l’Australia si doti di sottomarini a propulsione nucleare.

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