Mentre l’aggressione all’Ucraina è in corso, l’Unione europea non può più far finta di non vedere che c’è un altro focolaio di conflitto potenziale a ridosso dei suoi confini. Si tratta dei Balcani occidentali, e della Bosnia ed Erzegovina in particolare.

Già teatro di guerra negli anni Novanta, più di recente questa regione è terreno di destabilizzazione da parte di Mosca, che ha operato non a caso in modo da rallentarne l’ingresso nell’Ue.

«L’interesse della Russia, la sua influenza sulla nostra regione, gli attori che partecipano a questa influenza: tutto questo è chiaro da tempo, e da tempo ve lo ripetiamo», dice Željko Komšić, presidente della Bosnia ed Erzegovina, alle istituzioni europee. A marzo ha sollecitato l’Ue perché conceda lo status di paese candidato: le ragioni di «stabilità e sicurezza» sono sempre più evidenti.

Agenti di destabilizzazione

A quali attori si riferisca il presidente, quando parla dell’influenza del Cremlino, lo dice in parte lui, e in parte i fatti: la sua accusa esplicita è al separatista serbo Milorad Dodik, lo stesso che ha provato a spingere la Bosnia ed Erzegovina verso una posizione neutrale sull’aggressione russa.

Ma c’è anche il premier ungherese Viktor Orbán, che ieri era in piazza a Budapest: ha sempre appoggiato Dodik, cominciando col frenare le sanzioni Ue nei suoi confronti, fino a garantirgli l’approccio morbido del commissario Ue ungherese che ha la delega all’allargamento.

E poi nei Balcani c’è un altro grande sodale sia di Orbán che di Putin: è il presidente serbo Aleksandar Vučić. Grazie a lui, Mosca ha potuto mantenere aperto un corridoio aereo verso l’Europa, mentre intanto tutta l’Ue blindava i cieli alle compagnie aeree russe in risposta all’aggressione dell’Ucraina.

Sia Orbán che Vučić si barcamenano in questa fase tra la loro alleanza pragmatica con il Cremlino e la necessità di non alienarsi l’Europa: entrambi hanno una data segnata in rosso sul calendario, ed è il 3 aprile, giorno di elezioni sia in Ungheria che in Serbia.

Le guerre d’Europa

Ieri la commissione Affari esteri dell’Europarlamento ha invitato a riferire alcuni dei personaggi chiave della crisi politica in Bosnia ed Erzegovina. La guerra in Ucraina scuote un’Unione europea che finora non ha fatto abbastanza per bloccare le spinte separatiste di Dodik; e che anzi ha finito, su spinta dell’Ungheria, per rendersene complice suo malgrado.

La Bosnia conosce già bene la guerra: a marzo di trenta anni fa, il referendum che ha sancito l’indipendenza dalla federazione jugoslava è stato l’innesco che ha trascinato il paese nello scontro armato.

Da quel 5 aprile 1992 in cui, con la contrarietà dei serbi, i bosniaci si sono dichiarati indipendenti, si sono susseguiti non solo la guerra civile e l’assedio di Sarajevo, ma anche il genocidio, con oltre 8mila bosniaci musulmani uccisi dai serbi, e il massacro di Srebrenica.

Oggi per il conflitto ucraino c’è chi ventila la Terza guerra mondiale, ma se si confrontano le analisi di oggi con le dichiarazioni di trent’anni fa, viene fuori un grande rimosso collettivo: già nei Balcani, è stata «portata avanti una guerra mondiale nascosta, che implica più o meno direttamente tutte le forze mondiali», come ha riconosciuto il segretario generale delle Nazioni unite.

La caduta e l’eccidio di Srebrenica, del luglio 1995, è stata riconosciuta da Kofi Annan come un fallimento dell’Onu ed è anche stata lo spartiacque che ha innescato l’intervento militare della Nato, ad agosto di quell’anno.

Al 1995 risalgono anche gli accordi di Dayton, siglati su impulso dell’amministrazione Clinton, e che tuttora plasmano l’architettura politica e istituzionale del paese. La presidenza della Bosnia ed Erzegovina è concepita come tripartita – con rappresentanze serba, bosniaca e croata – e il paese si articola in più entità territoriali. La federazione di Bosnia ed Erzegovina (Bih) e la Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina (Republika Srpska).

Il secessionista

A ridosso degli accordi di Dayton, gli Stati Uniti erano persuasi che Milorad Dodik, il leader serbo-bosniaco, rappresentasse un fattore di coesione: in un paese sempre a rischio di cadere in dinamiche settarie, Dodik era per Washington – e per la segretaria di Stato dell’epoca, Madeleine Albright – una «boccata d’aria fresca».

Dodik si è rivelato invece il principale attore di destabilizzazione. Da decenni è una figura chiave della Republika Srpska: premier dal 1998 al 2001, dal 2006 al 2010, poi presidente fino al 2018. Quattro anni fa, il leader serbo-bosniaco ha assunto, assieme al bosniaco Šefik Džaferović e al croato Željko Komšić, la presidenza tripartita della Bosnia ed Erzegovina. Già da molto tempo, Dodik celebra criminali di guerra serbi, o va a dire che la definizione di Srebrenica come genocidio è «arbitraria e inaccettabile».

Dodik ha boicottato istituzioni e processi decisionali condivisi. A dicembre il parlamentino serbo-bosniaco ha dato il semaforo verde al piano per separare entro sei mesi le istituzioni chiave della Republika Srpska – fisco, forze armate, sfera giudiziaria – da quelle del resto del paese.

Il bivio e il ruolo dell’Ue

«Questa situazione di conflitto congelato è andata bene alla Russia perché ci allontanava dall’ingresso nella Nato oltre che nell’Ue», ha detto ieri agli eurodeputati Željko Komšić, che in Bosnia ed Erzegovina è rappresentante croato della presidenza tripartita, e ha la presidenza di turno. Per Komšić le strade sono due: o lo stallo si sblocca positivamente, e la Bosnia ed Erzegovina ottiene lo status di paese candidato Ue, oppure «queste divisioni etniche si esasperano, portano al conflitto e all’inizio della dissoluzione» del paese.

Se finora l’Ue non ha agito in modo incisivo per frenare Dodik, è per il ruolo giocato dai sodali di Putin, primo fra tutti il premier ungherese. A gennaio è filtrato un documento rivelatore: mostra che il commissario europeo all’allargamento, l’ungherese Olivér Várhelyi, fedelissimo di Orbán, dalla sua posizione chiave ha favorito e persino stipulato con Dodik i piani per frammentare la Bosnia. A metà febbraio, pochi giorni prima dell’invasione dell’Ucraina, ancora una volta il premier ungherese si è messo alla guida di un blocco di paesi per fermare le sanzioni Ue contro Dodik, già avviate invece dagli Usa.

Putin, la guerra e la Bosnia

Dopo l’aggressione a Kiev, l’Europarlamento spinge per fare chiarezza e sostenere il percorso della Bosnia ed Erzegovina verso l’Ue. In questa fase persino Dodik camuffa le proprie intenzioni: «Sì, ho parlato al telefono con il ministro degli Esteri russo dopo che è scoppiato il conflitto in Ucraina, ma era solo per assicurarmi gli approvvigionamenti energetici», ha detto ieri alla commissione Affari esteri dell’Europarlamento.

Tineke Strik, che ne fa parte ed è eurodeputata verde olandese, dice che «al commissario Ue Várhelyi ho chiesto più chiarezza nel condannare Dodik; per ora, mi ha detto, ha almeno bloccato i 600 milioni che dovevano arrivargli per progetti infrastrutturali.

Ma per quanto tutti, compresa l’Ungheria, diano segno di voler almeno un po’ riallinearsi per la guerra, tuttora è difficile far passare l’idea delle sanzioni». La Germania spinge. Il 10 marzo la ministra degli Esteri Annalena Baerbock era a Sarajevo a predicare che «bisogna lavorare più intensamente per avvicinare i Balcani all’Europa».

Il Cremlino punta nella direzione opposta. Non solo ha potuto contare finora sulle complicità ungheresi e serbe, e supporta da sempre Dodik; ma ha anche chiaro che i Balcani sono l’altra scacchiera del conflitto.

Basti pensare che Sergej Lavrov, in conferenza stampa a fianco a Luigi Di Maio il 17 febbraio, ha fatto esplicitamente riferimento ai Balcani. Nel 2018 già diceva che «l’occidente non ha imparato nulla dalla tragedia ucraina, i Balcani devono scegliere se stare con Mosca o con Usa e Ue».

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