«Accettare la morte di qualcuno è un processo che dura tutta la vita. È un continuo patteggiamento con se stessi e con gli altri, che non implica che a un certo punto non faccia più male o che ci si dimentichi di quella persona. È un dire “Sarai sempre parte di me, ma è ora di lasciare andare il passato. E ciò che mi hai dato lo investo per il mio futuro”».

La voce di Lice Ghilardi, docente di neuroscienze alla CUNY School of Medicine di New York, risuona in una delle sale parrocchiali di Nembro, in provincia di Bergamo, paese dove è nata e cresciuta. Dall’ampia finestra alle sue spalle si distingue nitido il profilo dei paesaggi ruvidi della Val Seriana, mentre di fronte a lei, ad ascoltare la sua esposizione sulle fasi biologiche del lutto e su come il cervello umano risponda quando una persona amata muore, ci sono poco meno di una decina di persone, tutte impegnate a prendere appunti.

Sono uomini e donne di Nembro pronti a trasformarsi in intervistatori, a raccogliere le testimonianze dei compaesani che hanno perso qualcuno con la pandemia. Il loro lavoro è parte del progetto “Cantami”, un’elaborazione collettiva del lutto organizzata con l’aiuto di volontari e associazioni in uno dei luoghi del mondo che, con i suoi 188 abitanti scomparsi in poche settimane, è diventato uno degli epicentri del virus più noti nelle cronache internazionali.

Indagare il dolore

Scritti, testimonianze, fotografie, oggetti di chi non c’è più. Attraverso questi espedienti la comunità di Nembro ha scelto di indagare il suo dolore, provando a scuoterlo dalla posa immobile che l’assenza dei rituali dettata dall’isolamento gli ha conferito. Un rischio di cristallizzazione della sofferenza che in psichiatria prende il nome di lutto patologico, ossia il protrarsi oltre il tempo fisiologico di 12 mesi di sentimenti negativi come il senso di colpa, la rabbia e la depressione per la perdita di qualcuno.

«Il lutto che dobbiamo elaborare ci fa male, siamo ancora fermi. In paese un sacco di gente è sospesa – spiega Serena Rondi, anche lei nembrese, presidente provinciale dell’organizzazione di volontariato San Vincenzo de Paoli di Bergamo e tra coloro che hanno contribuito a dare il via all’iniziativa - Ci sono stati degli strappi nella nostra rete di relazioni. Chi li rattoppa più se non rafforziamo la memoria?».

L’idea dietro al progetto è di raccogliere le storie di chi se n’è andato in un sito apposito, una piattaforma digitale in cui possano però trovare spazio anche spunti che permettano di proiettarsi verso un nuovo inizio. Affinché questo lavoro rappresenti «un inno alla vita, e non un inno alla morte», ci tiene a specificare Serena.

Negli incontri propedeutici alle interviste con i parenti delle vittime, il punto focale resta tuttavia l’approfondimento dell’elaborazione della perdita e degli ostacoli che questo processo può avere quando vengono meno le condizioni per viverlo naturalmente. Di solito, il lutto patologico riguarda il 10-20 per cento delle persone. Ma la percentuale rischia di aumentare drammaticamente, perché le restrizioni legate alla pandemia hanno costretto a rinunciare a molte delle pratiche che consentivano di affrontare il distacco in modo consapevole, come stringere la mano al proprio caro in fin di vita oppure occuparsi della salma. Il fardello luttuoso che l’emergenza porta con sé è così imponente che, per la prima volta, si è stati messi di fronte al compito di analizzare la dimensione della perdita attraverso una lente scientifica.

Un nuovo interesse per il lutto

A testimoniare l’evoluzione dell’approccio sono i dati della piattaforma PubMed dove dalla scorsa primavera biologi, psichiatri e studiosi di tutto il mondo hanno pubblicato oltre 200 ricerche sulle ripercussioni del lutto, segnando una netta cesura con il sostanziale silenzio degli anni precedenti. Tra i molti, l’articolo “Covid-19 and Unfinished Mourning” sottolinea che, senza rituali, «le persone sono lasciate sole ad affrontare dolore ed esaurimento emotivo. Un senso di profonda tristezza permarrà nelle comunità, ed è necessario affrontare questo problema attraverso programmi di riabilitazione e di consulenza».

In qualche modo, il Covid ha costretto a liberare la tristezza della morte dalla sfera del privato, dal concetto di “troppo personale per discuterne” in cui era stata confinata dalla società occidentale, così attenta a fare del culto della spensieratezza e della forza d’animo la propria bandiera. La stessa società che il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han descrive come luogo «della prestazione», in cui il dolore è «segno di debolezza, qualcosa da nascondere o da eliminare in nome dell’ottimizzazione. Esso non è compatibile con la performance. […] Viene condannato a tacere».

Fingere di non rendersene conto non è più un’opzione sostenibile, sia per l’entità del problema che per le ripercussioni che si stanno avendo a livello biologico sui parenti delle vittime. «Nel sangue di chi affronta la scomparsa di qualcuno è stato riscontrato un importante rilascio di interleuchine, sostanze che possono causare infiammazioni in diverse parti del cervello – sottolinea Lice -.  La letteratura scientifica mostra crescente evidenza che questi fatti infiammatori giocano un ruolo importante nella genesi di malattie neurodegenerative come il Parkinson e l’Alzheimer. Il lutto patologico porta a una degenerazione delle funzioni cognitive». Se si calcola che per ogni persona che se ne va, ce ne sono almeno cinque che ne piangono la scomparsa, coloro che soffriranno delle conseguenze del cosiddetto lutto complicato supereranno le vittime del virus. Per ciò «servono ricercatori per prevenire questa catastrofe psicologica».

Affrontare la morte sui social

Nel progetto di Nembro, la narrazione si fa balsamo che allevia e rigenera, scioglie pesi altrimenti destinati a gravare sulla coscienza collettiva.  Ma i promotori di questa iniziativa non sono gli unici ad aver riconosciuto il valore della parola. Il racconto è un meccanismo di elaborazione così istintivo che, pur davanti all’erosione dello spazio fisico dettato dalle misure anti-contagio, molte persone hanno cominciato a diffonderlo attraverso i social network. In una fase storica in cui le piattaforme digitali erano già diventate pervasive in tanti momenti della vita, con la pandemia hanno finito per esserlo anche nei momenti legati alla morte.

Laura Mambriani, che ha perso il marito di Covid, è la fondatrice di “Unite dall’amore”, un gruppo Messenger poi divenuto una pagina Facebook che riunisce vedove da tutta Italia. «In poco tempo siamo diventate amiche come se ci fossimo conosciute da sempre. Insieme abbiamo ripreso a muovere i primi passi – racconta Laura -. Gli altri non vogliono più che si parli di quello che è successo. Invece noi mogli ne abbiamo ancora bisogno. Decideremo noi quando smettere».  

Del gruppo fa parte anche Francesca che, dopo la morte del marito, ha scoperto di essere a sua volta positiva, ed è rimasta isolata in casa sua per 40 giorni. «Sapevo che c’erano mogli che soffrivano come me. Volevo sentirle, condividere con loro la mia sofferenza, perché il peso mi schiacciava. Amici e parenti non volevano starmi a sentire – spiega Francesca, che prima di quel trauma non si era mai iscritta a un social network – In quel gruppo Messenger ci siamo raccontate tutto. Ancora oggi ripercorriamo il calvario dei nostri mariti. Abbiamo solo lo strumento del telefono. Che può sembrare una cosa fredda. Ma ci è di grande aiuto».  

Il trasferimento del processo luttuoso sui canali virtuali era già in atto da tempo, e la pandemia ha dato un’accelerata a questa forma di condivisione. Secondo il tanatologo Davide Sisto, autore del libro “La morte si fa social”, «in alcuni casi, le relazioni online sono considerate più sincere rispetto a quelle offline» perché «danno la sensazione di poter parlare con più libertà, grazie al fatto che i suoi messaggi sono mediati dallo schermo». Nel corso delle sue ricerche, Sisto si imbatte spesso in elaborazioni del lutto in rete, dove la sofferenza si affronta anche attraverso like, condivisioni e conforto veicolato nello spazio di un commento.

«Nella vita reale le discussioni sulla morte sono respinte, la stessa parola viene pronunciata il meno possibile – dice  il filosofo -. È segno che nella società capitalista in cui ci troviamo la debolezza è tollerata solo fino a un certo punto, poi scatta sempre l’invito a tirarsi su col morale, ad andare avanti». E visto il profondo isolamento in cui ci troviamo, i social hanno finito con l’avere un ruolo quasi paradossale: «Restituirci una dimensione più autentica di quella sperimentata nella realtà».

© Riproduzione riservata