Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore


Bisogna attendere quasi trent’anni prima che un altro “uomo d’onore” si decida a “saltare il fosso” e collabori con gli inquirenti. Si chiamava Luciano Raia, imputato nel processo a carico di Luciano Leggio + 63, sui quali pesava l’accusa di essere responsabili di nove omicidi perpetrati a Corleone tra il 1955 e il 1962, nonché di associazione per delinquere.

Nel gennaio 1966, agli inquirenti sembrò che il muro di omertà che sino ad allora aveva impedito di fare chiarezza su quei gravi fatti di sangue avesse finalmente ceduto grazie alla inattesa collaborazione di Raia.

Costui riferì di avere ascoltato nel carcere di Palermo le conversazioni fra due mafiosi sui delitti compiuti da Luciano Leggio e dai suoi uomini per eliminare la cosca capeggiata dal medico Michele Navarra, allora capomafia di Corleone.

Il processo venne celebrato a Bari per “legittima suspicione”, l’espediente “salvifico” al quale si ricorse a man bassa per ottenere in sedi più “congeniali” sentenze di assoluzione con formula ampiamente liberatoria o per insufficienza di prove oppure di condanna ma con applicazioni di pene irrisorie.

Con la sentenza del 10 giugno 1969 la Corte di Assise di Bari pronunciò l’assoluzione di Leggio e degli altri correi dalle imputazioni di omicidio, limitandosi a irrogare lievi condanne per i reati di associazione per delinquere semplice prevista dall’articolo 416 c.p. (all’epoca, non esisteva ancora il 416 bis c.p.).

La Corte di Assise, infatti, non credette alle propalazioni di Raia, dichiarandolo inattendibile perché si trattava di un soggetto più volte ricoverato in manicomio, omosessuale, che si era indotto a parlare soltanto dopo avere avuto assicurazione dal vice-questore Angelo Mangano che sarebbe stato aiutato sia per ottenere una eventuale libertà provvisoria (era accusato di estorsione e di associazione per delinquere), sia per avere gli assegni familiari per i figli dei detenuti.

Uno “scenario” simile si ripeterà a Palermo alcuni anni dopo.

Il 30 marzo del 1973 successe qualcosa che avrebbe consentito a investigatori e magistrati più attenti e solerti di scoprire i segreti dell’organizzazione mafiosa.

In un verbale di dichiarazioni rese al dottor Bruno Contrada, commissario della Polizia di Stato, Leonardo “Leuccio” Vitale, nato nella borgata palermitana di Altarello di Baida e nipote di Giovanbattista “Titta” Vitale, capo del mandamento locale, anticipò di oltre un decennio le analoghe, ma più precise e circostanziate, rivelazioni di Tommaso Buscetta. Sia pure a livello delle sue parziali e incomplete conoscenze, trattandosi di un giovane aspirante “uomo d’onore”, Vitale descrisse l’organigramma delle “famiglie” mafiose operanti nella provincia di Palermo, facendo nomi e cognomi di numerosi sodali e di persone contigue a Cosa nostra.

Tra gli altri, menzionò Alessandro Vanni Calvello principe di San Vincenzo (il quale, quando aveva ospiti della sua stessa risma, era solito far loro riporre le armi dentro un mobile della sala d’ingresso). E poi anche Pippo Calò, il cassiere dell’organizzazione, e il corleonese Vito Ciancimino, a lungo assessore comunale ai lavori pubblici e per breve tempo sindaco, responsabile del cosiddetto “sacco di Palermo”, una spregiudicata devastazione architettonica compiuta attraverso una affaristica urbanizzazione della città.

Dimenticavo, “Leuccio” Vitale fece anche il nome di uno sconosciutissimo Totò Riina. Fu il primo. E riempì 42 pagine di verbale che avrebbero potuto risparmiare molti lutti e probabilmente cambiato la storia della mafia e dell’Italia, se le sue dichiarazioni fossero state prese in seria considerazione dagli inquirenti e dai magistrati dell’epoca.

In quel verbale, infatti, Vitale raccontò di una tangente contesa fra due “famiglie” mafiose, quelle di Altarello di Baida e della Noce. Fu Totò Riina a chiudere prepotentemente la disputa con la frase “Io la Noce ce l’ho nel cuore”, pronunciata nel corso di una “commissione”. Nessuno dei presenti, tra i quali i più autorevoli capi mandamento, ebbe qualcosa da ridire sulla decisione adottata da Riina.

Siamo nella primavera del 1973 e l’episodio è importante perché allora Riina, latitante da quattro anni, era ritenuto dagli inquirenti un “viddano”, un contadino. Pericoloso, avendo scatenato una sanguinosa guerra a Corleone, ma pur sempre un contadino non ancora in grado di sfidare le cosche del palermitano. E invece ‒ lo rivelò proprio Vitale ‒ aveva già una posizione apicale in seno a Cosa nostra.

Leonardo Vitale, soprannominato anche “il Joe Valachi di borgata”, con riferimento al mafioso siculo-americano della famiglia Genovese, però non venne creduto, anzi, essendo stato dichiarato seminfermo di mente ‒ ricordate Raia? ‒ e affetto da schizofrenia, venne condannato per i reati commessi e confessati e internato nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, dal quale fu dimesso nel giugno del 1984. E nessuna ‒ o quasi ‒ iniziativa giudiziaria venne intrapresa nei confronti delle persone chiamate in reità e correità.

Ma Cosa nostra non dimentica mai e il 2 dicembre 1984, qualche mese dopo il suo rientro a Palermo, punì il suo “tradimento” con due colpi di lupara che lo uccisero all’uscita dalla Chiesa dei Cappuccini, mentre era in compagnia della madre. Nella ordinanza-sentenza dell’8 novembre 1985, abbiamo voluto ricordarlo scrivendo: “A differenza della Giustizia dello Stato, la mafia percepì l’importanza delle sue rivelazioni e lo punì inesorabilmente per aver violato la legge dell’omertà. È augurabile che, almeno dopo morto, Vitale trovi il credito che meritava e che merita”.

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