Buongiorno!

Questo è un nuovo numero di Areale, newsletter che – dopo la trasferta in Uganda – torna in Italia, Milano nord, temperature già insostenibili.

Coraggio!

Anzi, per farci coraggio, iniziamo parlando di una notizia grande, per numeri, prospettiva e speranza: il ritorno del lupo in Italia.

Paese per lupi

Forse stiamo sottovalutando la portata della storia del ritorno del lupo in Italia. Due generazioni fa, sembrava una specie condannata all’estinzione, l’Italia era destinata a non essere un paese per lupi. Poi tutto è cambiato.

Questa settimana è uscito il primo monitoraggio nazionale coordinato dall’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) e i numeri hanno confermato una tendenza osservata già da anni nelle aree interne del nostro paese: il lupo si è ripreso l’Italia. I dati di questi due anni di lavoro sul campo ci dicono che sono 3.300 gli esemplari in questo momento sul nostro territorio, circa 950 sull’arco alpino e 2.400 lungo il resto della penisola italiana. L’areale del lupo in Italia è di 41.600 km2 sulle Alpi e 108.500 km2 nel resto della penisola, dove quasi ogni ambiente idoneo è stato colonizzato.

Ne ho parlato con Francesca Marucco, zoologa specializzata in lupi, che lavora al dipartimento Scienze della vita e Biologia dell’Università di Torino. Mi ha dato le proporzioni di questa ricolonizzazione alpina (l’ambiente dove l’ateneo di Torino ha fatto da coordinamento per il monitoraggio Ispra): «Quando ho iniziato a occuparmene, negli anni Novanta, su tutte le Alpi c’erano tre branchi di lupi. Oggi i branchi sulle Alpi sono 124». È successo in trent’anni.

Quella del lupo è una delle grandi storie di conservazione italiana, di come siamo passati dal cacciarli attivamente alla protezione integrale. Una delle tappe fondamentali, dal punto di vista culturale e sociale, fu l’Operazione San Francesco, all’inizio degli anni Settanta. Era una campagna di sensibilizzazione promossa dal Parco nazionale d’Abruzzo e dal giovane WWF Italia, che pescava dall’immaginario nativo nordamericano e dall’animalismo del santo patrono d’Italia. «Con tutti gli esseri, e con tutte le cose, noi saremo fratelli», era il motto.

Nel 1971 il decreto Natali proibisce esche e bocconi avvelenati, e cinque anni dopo, col decreto Marcora, il lupo diventa specie integralmente protetta. Il resto lo ha fatto l’evoluzione del nostro territorio: il lupo è tornato anche perché il bosco è tornato, in Italia.

Infografica ISPRA

La crescita della popolazione è stata graduale, come racconta Marucco. «I primi branchi hanno preso gli habitat migliori, quelli più montani e selvatici, gli altri si sono dovuti accontentare di habitat di serie b».

I lupi sono animali territoriali, lo spazio di un branco non si sovrappone a quello di un altro, e piano piano l’areale diventa un mosaico di questa colonizzazione, che a nord ha avuto un andamento concentrico: dalla montagna verso le aree di pianura e dalle Alpi occidentali verso quelle orientali, dove il lupo si è congiunto con la popolazione in arrivo dalla Slovenia. Qualche anno fa è nato il primo branco «misto», in Lessinia, nel veronese, composto da due popolazioni che per secoli erano state separate.

La storia del lupo è diversa da quella dell’orso, perché è stata molto più naturale e molto meno «indotta» dalla mano umana, i lupi hanno fatto da soli, insomma. «Sono molto più adattabili e opportunisti degli orsi, hanno colto il cambiamento del contesto, più prede, più foreste, è stato un processo naturale dal punto di vista della gestione». Le interazioni tra i due grandi carnivori sono poche e non documentate, «ma l’orso spesso beneficia delle carcasse delle prede del lupo». Lavoro di squadra, insomma.

Il monitoraggio è una storia nella storia: col coordinamento di Ispra si sono mosse 3mila persone, tra cui 1.500 volontari di WWF, CAI, Legambiente, Lipu. Hanno percorso 85mila chilometri in due anni. A piedi. «È stato massacrante», conferma Marucco. Per altro, il lupo in questi monitoraggi lo si vede davvero molto poco. È tutto un lavoro di osservazione dello spazio, deduzione, statistica. Hanno raccolto migliaia di escrementi, tracce, carcasse, avvistamenti fotografici. «Tendenzialmente, non è un animale che si fa avvistare, è molto diffidente, a volte succede, ma non è un obiettivo del monitoraggio».

E com’è, vedere un lupo? «Noi siamo persone di scienza, tendiamo a non fare sovrapposizioni emotive e sentimentali con come ci sentiamo. Ma è sicuramente interessante». Un altro strumento per contare i lupi sono gli ululati fatti partire dai registratori e amplificati nel bosco dai megafoni. Gli animali reagiscono, la ricercatrice prende appunti. «Ci interessa soprattutto per capire come sta andando la riproduzione, per sentire la voce dei cuccioli che rispondono». A volte, in vista di lunghe camminate in foresta, non ci si porta tutta l’attrezzatura e il richiamo al lupo viene fatto a voce. La ricercatrice in questo caso ulula, il giovane lupo risponde, la ricercatrice prende appunti. «È qualcosa che dobbiamo imparare, non è difficile, con un po’ di pratica». Un romanzo di Cormac McCarthy in Lessinia, quasi. 

Il futuro del lupo in Italia è la convivenza con gli umani: «Non siamo nel Montana, dove ho lavorato negli anni Novanta, lì c’è tutto lo spazio che serve e il mondo sembra ancora allo stato naturale. Qui il livello di antropizzazione è altissimo, c’è tanta gente, tante attività, tutte le azioni vanno nella direzione della sostenibilità umana, sociale e ambientale». Un pezzo enorme è l’educazione: spesso ci sono più problemi di convivenza dove ci sono ancora pochi lupi, perché sono appena arrivati e le persone non sono abituate. Lì dove la coabitazione sul territorio si consolida, le persone imparano, i conflitti calano. «Altro grande problema: l’ibridazione con il cane, soprattutto in Appennino. È la principale minaccia al futuro della specie: tutti gli esemplari ibridi sarebbero da catturare e sterilizzare».  

La grande muraglia verde è ferma

Il 20 maggio si è conclusa la quindicesima sessione della conferenza delle parti Onu sulla desertificazione, ad Abidjan, in Costa D’Avorio. Si è parlato tantissimo del progetto simbolo contro la desertificazione in Africa: il Great green wall, la Grande muraglia verde del Sahel, un’idea bellissima, 7.800 chilometri di rigenerazione forestale, dal Senegal al Gibuti, per fermare la conquista di spazio e territorio del Sahara verso sud. Un simbolo, ma anche un progetto dal grande senso pratico, comunitario, locale.

Mappa Great Green Wall

Come è andata?
Così così, per ora.

Il Great green wall è partito nel 2007, quindici anni fa, a oggi dei 100 milioni di ettari di riconquista verde se ne sono visti solo 4: un decennio e mezzo per completare solo il 4 per cento di un progetto che in teoria ora avrebbe solo altri otto anni per essere portato a termine.

Tante cose sono andate storte: innanzitutto, la crisi climatica in sé, che qui va a quasi il doppio della velocità e rende questa attività di riforestazione il doppio più difficile. Il conflitto armato: più di metà del Great green wall attraversa zone di guerra, dove si combatte attivamente. I paesi inclusi sono Burkina Faso, Gibuti, Eritrea, Etiopia, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Senegal, Sudan e Ciad. E poi: i soldi. Al One planet Summit organizzato dalla Francia lo scorso anno erano stati promessi 19 miliardi di dollari. Non sono mai arrivati e, come racconta Chloé Farand su Climate Home News, Macron non è certo venuto qui a spiegare perché. L’importante è sempre annunciare.

La crisi dimenticata dell’inquinamento

Parliamo di inquinamento. Sarò breve, ma il 12 maggio la Corte di giustizia Ue ha accolto un ricorso della Commissione e ha stabilito che l’Italia viene sistematicamente meno agli obblighi e agli standard europei sulla qualità dell’aria. Eravamo già in procedura di infrazione da tempo.

La Corte ha accertato che i livelli di biossido d’azoto superano le soglie di sicurezza dal 2010 a Torino, Milano, Bergamo, Brescia, Firenze, Roma, Genova e Catania. Non benissimo. Pochi giorni dopo, è apparsa una ricerca su Lancet, che parla di inquinamento e che ha numeri sconvolgenti. Dal 2015 al 2019 una morte su sei al mondo era causata dall’inquinamento dell’aria, dell’acqua, del suolo o chimico. La tossicità del mondo in cui viviamo uccide 9 milioni di esseri umani all’anno, più di guerra, terrorismo, incidenti stradali, malaria, droghe, alcol.

Il 90 per cento di queste morti avviene in paesi a basso e medio reddito, secondo la ricerca di Lancet. Le venti economie più ricche del mondo stanno attivamente facendo outsourcing delle morti e dei danni da inquinamento, esternalizzando produzione e tossicità e causando due milioni di vittime fuori dai propri confini ogni anno.

L’inquinamento più pericoloso è quello dell’aria: 6,7 milioni di morti all’anno. Segue quello dell’acqua: 1,4 milioni di morti. L’avvelenamento da piombo fa, da solo, un milione di vittime all’anno. Sì, ma l’economia deve andare avanti? Globalmente, i danni sanitari da inquinamento dell’aria riducono la ricchezza del mondo ogni anno del 6,1 per cento, in Asia meridionale la quota arriva al 10,3 per cento. Sono purtroppo i numeri di una crisi nascosta e ignorata.

Traffico marittimo e squali balena

Parliamo degli animali più belli e maestosi che esistano: mi riferisco ovviamente agli squali balena: sono squali, non balene, quindi sono pesci giganti, possono essere lunghi fino a venti metri, sono pacifici, hanno una pigmentazione a pois, la loro è la pelle più spessa del regno animale (14 centimetri).

È uscita una ricerca su un tema problematico: perché le popolazioni di squali balena continuano a declinare, nonostante siano una specie protetta? Il loro numero è crollato del 50 per cento negli ultimi 75 anni, nel 2016 sono stati inseriti tra gli squali in pericolo. (Un mondo senza squali balena sarebbe inaccettabile). In ogni caso, lo studio – pubblicato su PNAS – si concentra sulle collisioni tra gli squali balena e le navi. Il traffico marittimo potrebbe essere il buco nero che sta inghiottendo i pesci più grandi al mondo.

Gli squali balena si nutrono quasi esclusivamente di zooplancton: per questo motivo trascorrono gran parte della propria esistenza nuotando appena sotto la superficie dell’oceano. Un luogo molto pericoloso dove passare il tempo, se si incrociano le rotte del traffico navale internazionale, il nastro trasportatore acquatico che trasporta l’80 per cento delle nostre merci. Quando vengono colpiti, gli squali balena affondano, quindi non lasciano tracce né prove della collisione. Tutto quello che rimane sono racconti e aneddoti marittimi. C’è voluto un team di 60 ricercatori da 18 paesi diversi per aggirare questo problema, affidandosi a un progetto chiamato Global shark movement project. Sono stati 350 gli squali balena geotaggati attraverso un dispositivo fisico: un modo per tracciarne i movimenti, la vita, la biografia e la morte.

Primo dato: il 92 per cento dello spazio orizzontale e il 50 per cento di quello verticale degli squali balena incrociano le rotte del traffico navale. I modelli hanno analizzato le sparizioni del segnale degli squali (e presumibilmente la loro morte prematura, quindi), incrociandole con vie marittime più trafficate: Golfo del Messico, Golfo Persico, Mar Rosso. Gli angoli di mare con più grandi navi sono anche i luoghi dove il segnale degli squali balena sparisce più spesso dai radar. In sintesi, quando incrociano le navi cargo, questi meravigliosi animali sono quasi spacciati, anche perché le imbarcazioni vanno dieci volte più veloce di quanto loro possano nuotare, quindi i margini di reazione sono molto limitati.

I ricercatori chiedono che la International maritime organization sviluppi un registro mondiale delle collisioni, in modo da consolidare i loro dati e permettere alla comunità scientifica e marittima di conoscere i punti più pericolosi per gli squali balena. Una volta mappato il rischio, servirebbero misure regionali di prevenzione e limiti alla velocità della navigazione. «Un’azione rapida potrebbe essere l’unico modo per evitare che i numeri degli squali balena precipitino verso l’estinzione», hanno scritto.

Per questa settimana con Areale è tutto, grazie per essere arrivati a leggere fin qui, come sempre. Per scrivermi, dialogare, scambiare idee, spunti, notizie, l’indirizzo e-mail è ferdinando.cotugno@gmail.com. Per contattare Domani, invece, scrivete a lettori@editorialedomani.it

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Ferdinando Cotugno

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