Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, questo è un nuovo numero di Areale, la newsletter sul clima, l’ambiente, la Terra, la possibilità del futuro.

Iniziamo, dai.

Bruciare risorse e tempo: un problema di infrastruttura mentale

LaPresse

Questa settimana si è parlato molto dei voli fantasma che i vettori europei hanno scelto di continuare a fare per non perdere il diritto agli slot negli aeroporti. Secondo le regole europee, per non perdere il vantaggio di operare certe rotte a determinati orari, le compagnie devono usarne almeno l’80 per cento, non importa come, anche a costo di far partire aerei senza passeggeri. Le regole erano state allentate durante il primo lockdown ed erano tornate in vigore nel 2021.

Nella versione della realtà-come-un-foglio-Excel, per Lufthansa, ad esempio, ha senso far viaggiare per 18mila volte aerei vuoti o semi vuoti pur di non perdere il diritto futuro a usare quelle rotte.

Secondo un calcolo di Greenpeace, i voli fantasma potrebbero alla fine essere 100mila in Europa. Non conoscendo le tratte e gli aerei, è impossibile fare un calcolo esatto delle emissioni, ma siamo nell’ordine di 360mila tonnellate di CO2 a vuoto, gratis, per non spostare nessuno, quanto quelle di 240mila auto a diesel o benzina.

Ci sono sempre più voci che chiedono all’Unione europea delle regole più ragionevoli, il governo belga ha scritto alla commissaria ai trasporti Adina Valean.

Questo è un classico esempio di uso irragionevole delle risorse causato dal fatto che la realtà (climatica, ecologica, economica) va a un ritmo più veloce della nostra capacità come società di aggiornare le regole. Un problema di infrastruttura giuridica e, direi, mentale.

Se vogliamo questa è una storia marginale nel grande disegno delle cose, ma contiene un aspetto fondamentale: far volare aerei vuoti non è nell’interesse di nessuno, non solo climatico, ma nemmeno economico e finanziario. È un esempio che ci permette di visualizzare tutte le volte in cui bruciamo risorse (e soldi) (e tempo) solo per l’incapacità di concepire un modo diverso di fare le cose in tempi ragionevoli.

Una settimana con tanti numeri

È stata una settimana piena di numeri, tanti numeri. Sono quelli dentro le pubblicazioni di rapporti e ricerche che fanno una sintesi di come è stato il 2021 per il clima. In generale non sono dati buoni, ma soprattutto sono tanti, quindi proviamo a mettere un po’ di ordine.

  • Il termometro europeo della Terra

Lunedì sono usciti i dati di Copernicus, il sistema di osservazione satellitare dell’Unione europea, il nostro euro-occhio sulla Terra e sulle sue temperature. Copernicus deve essere pensato come un termometro satellitare globale: ogni anno misura la febbre e a gennaio ci dà i risultati.

Ecco, la crisi climatica non è asintomatica. Non so dove eravate e cosa facevate nel 2015, provate a ricordarlo, a pensare a quanto è cambiata la vostra vita da allora. Per la Terra, i sette anni dal 2015 a oggi sono stati i più caldi da quando registriamo e teniamo traccia delle temperature.

(Copernicus)

Il 2021 è stato il quinto anno più caldo, grazie all’effetto di mitigazione di un fenomeno chiamato La Niña, il raffreddamento ciclico delle temperature sull’oceano Pacifico. È un effetto che dobbiamo tenere a mente quando valutiamo i dati del 2021: senza La Niña sarebbero stati molto peggio di così.

Per l’Europa, l’ultima è stata l’estate più calda di sempre. E sono aumentate in modo costante le concentrazioni di CO2 (siamo a una media di 414,3 parti per milione) e metano.

  • Colpi di calore in mare

E gli oceani? Come stanno gli oceani? Così così, ci dice una ricerca pubblicata questa settimana su Advances in Atmospheric Science. Anzi, guardiamo la cometa e lasciamo stare gli eufemismi: stanno malissimo.

Da quando abbiamo iniziato a misurarne le temperatura (sessanta anni fa), gli oceani non avevano mai intrappolato così tanto calore. Nel 2021 abbiamo battuto il record di temperatura marina, che era stato stabilito nel 2020, che a sua volta aveva superato il precedente, che era del 2019, e così è stato in ogni anno degli ultimi sei. Ed è dalla fine degli anni Ottanta che il loro tasso di riscaldamento risulta essere otto volte più veloce che nei decenni precedenti.

Gli oceani immagazzinano un terzo delle emissioni causate dall’attività umana (diventando più acidi) e il 90 per cento dell’aumento netto della temperatura causato dai gas serra. La maggior parte degli eventi atmosferici estremi (dalle tempeste anomale sulla Sicilia in autunno, all’intensa stagione degli uragani nell’Atlantico) parte da qui.

I duemila metri sotto la superficie sono quelli che si riscaldano di più: l’anno scorso hanno assorbito 145 volte in più dell’equivalente di tutta l’energia elettrica prodotta sulla Terra.

Il mare assorbe questi colpi di calore prima della Terra, è una sentinella, perché l’acqua è più densa dell’aria e trattiene di più il caldo, facendo guadagnare tempo a noi che viviamo all’asciutto ed è tempo che dovremmo usare, in qualche modo.

  • Il collasso artico

Un’altra zona sensibile è l’Artico e anche sull’Artico, questa settimana, è uscita una ricerca preoccupante, pubblicata su Nature Reviews Earth & Environment.

Il riscaldamento del permafrost – il suolo che dovrebbe rimanere ghiacciato in modo permanente – rischia di mettere in crisi l’esistenza umana come la conosciamo sopra il Circolo polare artico. Qui le infrastrutture – tubi, strade, aeroporti, ospedali, tutto – sono state costruite nell’idea che il permafrost sarebbe rimasto tale.

Il riscaldamento in Artico va al triplo della velocità media, siamo già a 4°C di aumento della temperatura, e rischia di far cedere ogni cosa, come una cucitura che piano piano si strappa. Il 70 per cento di tutte le infrastrutture dell’emisfero boreale si trova in zone ad alto rischio di perdita del permafrost. Parliamo di 120mila edifici, 40mila chilometri di strade, in un’area di 11 milioni di chilometri. È una prospettiva che riguarda soprattutto la Russia, dove vive il 90 per cento della popolazione che abita sul permafrost. Il paper fa l’esempio della città di Vorkuta.

A proposito, dove si trova Vorkuta?

Qui.

È una città mineraria con un nome bellissimo perché significa: «Abbondanza di orsi». Ha 70mila abitanti, che ne fanno il quarto insediamento umano più popoloso sopra il Circolo polare artico.

Ha una lunga storia mineraria, gli inverni sono gelidi, è un posto difficile dove vivere, e ancora di più oggi, con la perdita di permafrost che ha già deformato l’80 per cento degli edifici.

Nel 2020 il collasso del permafrost ha causato la perdita di 20mila tonnellate di diesel dal serbatoio di una centrale a Norilsk, centinaia di chilometri più a est, sempre in Russia. È un intero mondo che viene giù.

E non è solo una questione di infrastrutture: il suolo ghiacciato intrappola anche quasi 2mila miliardi di tonnellate di carbonio. Il crollo delle infrastrutture sarebbe il primo problema, il rilascio di parte di questo carbonio stoccato nell’atmosfera il secondo, molto più grande, con effetti di sistema su tutta la Terra (perché quello che succede in Artico non rimane in Artico).

  • Il giorno più caldo

Infine, anche la Nasa (insieme alla Noaa National Oceanic and Atmospheric Administration) ha fatto il suo bilancio di fine anno.

Con i loro dati risulta che il 2021 è stato il sesto (e non il quinto, come dice Copernicus) anno più caldo di sempre. Cambia poco. In compenso, e ho trovato questo dato piuttosto interessante, nel corso dell’anno che si è appena chiuso, 1,8 miliardi di persone, quindi poco meno di un essere umano su quattro, hanno vissuto il giorno più caldo della propria vita.

E lo studio ribadisce quello che sappiamo: per ora gli oceani stanno facendo gran parte del lavoro di mitigazione. «Se non fosse per la loro capacità di immagazzinamento della temperatura, l’atmosfera si riscalderebbe molto più rapidamente»; ha spiegato Russell Vose, climatologo del Noaa. «Non importa come si facciano le analisi, ogni studio dimostra che la Terra si è riscaldata in modo drammatico». Non sanno più come dircelo.

Plastica all’italiana

Ieri è entrata in vigore anche in Italia la Direttiva europea Sup del 2019 contro le plastiche monouso. Il decreto legislativo è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale a novembre, quindi finalmente ci siamo.

Però il nostro paese fa proprie le regole europee con sei mesi di ritardo (la deadline era luglio, ne avevamo parlato qui su Areale) e con molte di quelle eccezioni che erano state a lungo rivendicate da Confindustria e dal ministero della Transizione ecologica.

Da questo momento sono al bando cannucce, bicchieri e piatti di plastica, aste per palloncini, contenitori e bicchieri per bevande. Si possono smaltire le forniture, ma non si possono immettere sul mercato nuovi prodotti. Sono escluse dalle regole italiane (ma non da quelle europee) le stoviglie compostabili e biodegradabili e i prodotti con un rivestimento in plastica che sia inferiore al 10 per cento del prodotto.

Nelle discrepanze tra la direttiva europea e l’adozione italiana ci sono interessi industriali, ovviamente (il giro d’affari è di oltre 30 miliardi di euro l’anno, con 160mila occupati), ma c’è anche uno scontro tra visioni e filosofie.

La battaglia dell’Italia è quella di chi vuole portare avanti un miglioramento delle materie prime (e un piatto compostabile è sicuramente meglio di uno di plastica da petrolio) senza rinunciare del tutto all’idea del monouso in sé.

La filosofia della Sup invece non prevede eccezioni, la posizione europea è che l’idea del monouso sia il cuore del problema e nessuna evoluzione della materia prima in senso rinnovabile potrà cambiare questa impostazione di fondo, che va invece verso il riuso degli oggetti.

L’Italia intanto è andata per la sua strada e ora rischia anche una procedura di infrazione, dopo la valutazione della Commissione sul testo.

Voi cosa ne pensate? Usa e getta sostenibile o insostenibilità dell’usa e getta?

Per questo numero di Areale è tutto, buon pranzo e buon sabato pomeriggio (o buon proseguimento di giornata, quale che sia la giornata in cui leggete la newsletter). Per punti di vista, pareri, commenti, critiche e osservazioni, scrivetemi: ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani, invece, lettori@editorialedomani.it.

A presto!

Ferdinando Cotugno

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