Non è stata soltanto la vasta frontiera africana a favorire il bipedismo: nuove scoperte stanno mettendo in discussione vecchie convinzioni, a partire dagli studi fatti nelle aree delle foreste pluviali
Per decenni, la narrazione dominante sull’evoluzione umana ha dipinto un quadro chiaro: i nostri antenati, abbandonati i sicuri rifugi degli alberi, si sarebbero avventurati nelle vaste savane africane, un ambiente che avrebbe plasmato la loro evoluzione, portandoli al bipedismo e allo sviluppo di caratteristiche unicamente umane. Le fitte foreste tropicali, al contrario, venivano considerate zone marginali, “frontiere ostili” inadatte alla vita umana per gran parte della preistoria.
Ma nuove ricerche e scoperte archeologiche stanno radicalmente mettendo in discussione questa visione consolidata, aprendo un affascinante capitolo sulla nostra storia evolutiva. Un caso emblematico arriva dalle Filippine, precisamente dalla grotta di Tabon, sull’isola di Palawan.
Gli scavi, iniziati negli anni Sessanta, avevano già rivelato la presenza di esseri umani in questo sito almeno 40mila anni fa. Ora, un recente studio pubblicato sul Journal of Paleolithic Archaeology ha rianalizzato le prove, concentrandosi sui resti di guano di pipistrelli e uccelli e sugli utensili in pietra rinvenuti nella grotta.
Nuove analisi
L’analisi isotopica del carbonio nel guano, combinata con il ritrovamento di polline di alberi tipici di foreste pluviali, come querce e mangrovie, ha fornito una chiara immagine dell’ambiente circostante: una rigogliosa foresta tropicale. Ma la scoperta più sorprendente riguarda l’analisi degli utensili in pietra, datati tra 39mila e 30mila anni fa.
Le tracce d’uso rivelano che questi strumenti venivano impiegati per tagliare e lavorare piante, in particolare il bambù, suggerendo la fabbricazione di oggetti come cesti, corde e forse persino abitazioni.
Questa evidenza archeologica dimostra inequivocabilmente che i cacciatori-raccoglitori vissero con successo in una foresta pluviale tropicale per migliaia di anni, confutando l’idea che questo ambiente fosse inospitale per l’uomo. Questa scoperta non è un caso isolato, ma si inserisce in un corpus di prove sempre più consistente che suggerisce una frequentazione assidua, da parte di umani e ominidi, degli ambienti forestali. Studi condotti in Amazzonia, ad esempio, hanno portato alla luce antichi insediamenti e pratiche agricole che non prevedevano la completa deforestazione, ma una sapiente convivenza con l’ecosistema forestale.
La difficoltà di conservazione dei resti organici nelle foreste pluviali, unita alla tendenza a utilizzare materiali deperibili come il bambù (che ha portato alla formulazione dell’ipotesi del bambù, secondo cui nel Sud-Est asiatico non vi era la necessità di sviluppare utensili in pietra più complessi proprio per l’abbondanza di questo materiale), potrebbe aver contribuito a sottostimare la presenza umana in questi ambienti.
Ulteriori conferme giungono da ricerche in siti limitrofi alle foreste pluviali, come la grotta di Panga ya Saidi in Kenya, che testimonia la presenza umana 78mila anni fa in un ambiente misto di foresta e prateria. Anche lo studio di specie come l’Homo floresiensis e l’Homo luzonensis, ominidi di piccola statura adattati a vivere in fitte foreste insulari, rafforza l’idea di uno stretto legame tra ominidi e ambienti forestali.
Testaedentigrandi.ÈilnuovoominideIpotesi da rivedere
Perfino la classica “ipotesi della savana”, che attribuisce l’evoluzione del bipedismo al passaggio dalle foreste alle savane, è stata sottoposta a una revisione critica. Sebbene studi sulla diffusione delle savane in Africa tra 15 e 3 milioni di anni fa suggeriscano un’espansione di questi ambienti, i tempi non coincidono perfettamente con le prime evidenze di bipedismo (6 milioni di anni fa) e con la presenza di ominidi in praterie aperte (2 milioni di anni fa). Un’ipotesi alternativa, che il bipedismo si sia sviluppato inizialmente tra i rami degli alberi, trova supporto in recenti studi sugli scimpanzé, che mostrano una maggiore frequenza di bipedismo proprio in questo contesto. In conclusione, la visione tradizionale dell’evoluzione umana come una transizione lineare dagli alberi alla savana si rivela insufficiente.
Le nuove scoperte archeologiche e gli studi paleoantropologici delineano un quadro molto più complesso, caratterizzato da una continua e profonda interazione tra ominidi e ambienti forestali nel corso dell’evoluzione. Le foreste, lungi dall’essere un ostacolo, sembrano aver giocato un ruolo cruciale nella nostra storia. Forse, in un certo senso, non abbiamo mai veramente abbandonato la foresta.
Sabbia sotto assedio
La sabbia, seconda solo all’acqua per consumo globale, è un elemento essenziale per la nostra vita moderna. Dai cellulari al cemento, dal vetro ai cosmetici, fino alle infrastrutture stradali, questa risorsa apparentemente banale permea ogni aspetto della nostra quotidianità. Ma il suo ruolo va ben oltre l’ambito industriale: per miliardi di persone che vivono nelle zone costiere, la sabbia rappresenta una barriera naturale contro le tempeste e l’innalzamento del livello del mare, un effetto collaterale sempre più preoccupante del cambiamento climatico. Spiagge e dune costiere fungono da veri e propri ammortizzatori contro gli eventi meteorologici estremi, offrendo al contempo habitat cruciali per la riproduzione di specie come uccelli costieri e tartarughe marine.
La sabbia è inoltre fondamentale per la bonifica dei territori e per la costruzione di difese costiere che mirano a rallentare l’erosione causata dalle onde. Nonostante la sua apparente abbondanza, non tutta la sabbia è adatta all’uso commerciale o edilizio. La sabbia del deserto, erosa per millenni dal vento, presenta grani lisci che ne impediscono il legame con i materiali industriali. Al contrario, la sabbia estratta da fiumi, laghi e cave, caratterizzata da grani irregolari e angolari, è la più richiesta.
L’impennata della domanda da parte dell’industria delle costruzioni ha generato una vera e propria crisi della sabbia in alcune aree del pianeta, spostando l’attenzione verso l’estrazione di sabbia marina e costiera, la cosiddetta “sabbia oceanica”. Questo ha innescato una rapida espansione dell’industria del dragaggio, spesso a discapito delle comunità costiere e dell’equilibrio ambientale.
Per analizzare le conseguenze di questa pratica e il ruolo della sabbia nell’adattamento ai cambiamenti climatici, la Standford Univeristy ha fatto il punto che tre esperti del settore: Jean-Baptiste Jouffray, esperto di industrializzazione degli oceani presso lo Stanford Center for Ocean Solutions; Colette Wabnitz, scienziata capo dello stesso centro, specializzata in sistemi socio-ecologici e finanza oceanica; e Mathieu Lapôtre, geologo della Stanford Doerr School of Sustainability, che studia i processi fisici che modellano le superfici planetarie, con un focus recente sull’identificazione della sabbia estratta illegalmente tramite intelligenza artificiale.
La sabbia si presenta in una sorprendente varietà di forme e colori: dalle spiagge verdi di Hawai’i, composte da olivina vulcanica, alle spiagge rosa delle Bermuda, colorate dai foraminiferi, fino alla sabbia nera di Marte, derivata dall’erosione del basalto vulcanico.
Questa diversità, come sottolinea Wabnitz, evidenzia l’importanza di preservare i meccanismi naturali che creano le nostre spiagge. L’estrazione di sabbia, attraverso il dragaggio, ha pesanti conseguenze sugli habitat bentonici (che vivono sul fondo del mare), distruggendo il fondale marino e creando «pennacchi di torbidità», enormi nubi di sedimenti che soffocano ecosistemi delicati come barriere coralline e praterie di fanerogame.
Lapôtre evidenzia come l’estrazione alteri l’equilibrio naturale dei paesaggi, con effetti a catena come la perdita di terra in Louisiana, causata dalla costruzione di dighe che hanno ridotto il trasporto di sedimenti verso la costa. Inoltre, l’estrazione può rilasciare inquinanti intrappolati nei depositi di sabbia. Wabnitz porta l’esempio di Barbados, dove un progetto di ampliamento del porto, con conseguente dragaggio, ha minacciato una barriera corallina. Nonostante il trapianto di coralli per mitigare i danni, la perdita dell’ecosistema è inevitabile.
L’esperta sottolinea anche l’impatto sociale dell’estrazione, che spesso esclude le comunità locali dai processi decisionali, portando alla perdita di terre, mezzi di sussistenza, patrimonio culturale e identità. Cita il caso di Vancouver, dove le Prime Nazioni (popoli indigeni o autoctoni dell’odierno Canada) si oppongono a un progetto di ampliamento del porto che prevede la bonifica di nuove aree, con potenziali impatti su specie culturalmente importanti come orche e salmoni.
Jouffray spiega come la sabbia sia cruciale per la stabilizzazione delle coste di fronte all’innalzamento del livello del mare. «Il ripascimento delle spiagge», spiega, «una comune strategia di adattamento climatico, spesso avviene a scapito di altre aree costiere, accelerando l’erosione altrove.
Inoltre, la sabbia utilizzata per il ripascimento, essendo priva di vita, ha un impatto negativo su specie come le tartarughe marine». Wabnitz sottolinea la vulnerabilità delle popolazioni che vivono vicino alle coste, soprattutto nelle isole del Pacifico, dove l’innalzamento del livello del mare minaccia case, mezzi di sussistenza e patrimonio culturale. La perdita di sabbia o di intere isole a causa del cambiamento climatico rappresenta una grave perdita per queste comunità.
Spiega Jouffray: «L’uso della sabbia è un esempio emblematico dell’Antropocene, un’era in cui l’attività umana ha un impatto profondo sul pianeta. L’estrazione avviene a un ritmo insostenibile, con gravi conseguenze ambientali e sociali.
È necessario imparare da altri settori, come la pesca, regolamentando sia le attività su piccola scala che quelle industriali, promuovendo standard di buone pratiche e contrastando le attività illegali. I governi possono utilizzare tecnologie di monitoraggio, come il tracciamento delle imbarcazioni e le immagini satellitari, per controllare l’attività di dragaggio».
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