Care lettrici e cari lettori di Domani, venerdì 11 giugno è uscito il nuovo singolo della cantautrice neozelandese Lorde, si intitola Solar Power, non parla di fotovoltaico, ma perché non illuderci un po'? Questa è Areale, la newsletter settimanale sull'ambiente, uno spazio dove cerchiamo sostegno alle fonti rinnovabili di energia ovunque se ne possa trovare (iscriviti qui, è gratis). 

La crisi politica della plastica

Oggi però iniziamo parlando di economia circolare e soprattutto di plastica. Un anno fa una ricerca di Pew Charitable Trusts aveva pesato numericamente il fallimento globale nell'affrontare la questione del flusso di plastica dai nostri consumi fino agli oceani. Attualmente siamo intorno a 11 milioni di tonnellate ogni anno, il dato – se non faremo niente per cambiare le cose – potrebbe arrivare a 29 milioni entro il 2040, quando l'accumulo totale potrebbe passare da 150 a 600 milioni di tonnellate. È tanto, davvero tanto. Il 75 per cento di questa plastica viene da sole dieci categorie merceologiche. Tra queste, nella top ten, ci sono cose che probabilmente abbiamo usato tutti di recente: buste, bottiglie, stoviglie, involucri per il cibo, tappi per le tazze di caffè da asporto, tappi delle bottiglie.

La buona notizia è che non è vero che non stiamo facendo niente: il 3 luglio entra in vigore nell'Unione europea la direttiva 904 del 2019 sulle Sup, le single use plastic. Saranno vietate le stoviglie usa e getta in plastica, la palette per il caffè, i contenitori di polistirolo, le aste dei palloncini, le cannucce, i cotton fioc.
Insomma, un primo passo, no?

In Italia questo primo passo, lineare e noto da due anni, si è trasformato, a un mese dall'entrata in vigore, in un dibattito nel quale si mettono in discussione due cardini di questo governo: ecologia ed europeismo. L'Italia sta trattando con la Commissione europea e sta facendo di tutto per poter recepire la direttiva al ribasso, in versione soft. Qui da noi la plastica monouso è diventata all'improvviso simbolo e trincea del conflitto ambientale, perché il fronte governo-Confindustria non sembra pronto a superare la plastica monouso secondo le richieste europee. 

Breve antologia delle dichiarazioni 

Il ministro Cingolani: «L'Europa ha dato una definizione di plastica stranissima, e cioè che va bene solo quella riciclabile. Tutte le altre, anche se sono biodegradabili o sono additivate di qualcosa, no». 

Il ministro Giorgetti: «L’ecologia non può essere sinonimo di leggerezza. Condivido la difesa ambientale, la prospettiva green funzionale ma dobbiamo essere capaci di creare un sistema che permetta alle nostre aziende una transizione positiva e non inutilmente traumatica». 

Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha denunciato una «impropria, ingiustificata e sproporzionata applicazione della direttiva». 

L'ex presidente di Confindustria Antonio D'Amato (leader del gruppo Seda, settore imballaggi e packaging) ha addirittura detto che la direttiva trasforma il Green Deal europeo in un Black Deal. 

Insomma, non hanno niente contro l'ecologia, hanno tanti amici ecologisti, ma non toccategli la plastica italiana. 

L'Italia sta contestando sia la definizione di plastica che quella di «monouso», chiede che siano salvate dal bando quelle biodegradabili e compostabili e anche i bicchieri di carta coperti da uno strato di polimeri per renderli impermeabili. La Commissione resiste perché non ci sono abbastanza evidenze scientifiche per essere certi che questi prodotti siano biodegradabili in condizioni naturali. Sulle plastiche bio però da noi si è investito in incentivi, crediti di imposta, ricerca e sviluppo, anche dopo la direttiva europea che le aveva equiparate alla plastica tradizionale. Insomma, ci avevano dato due anni per abbandonarle, ma non li abbiamo usati.

Sui posti di lavoro in gioco, c'è da capire se siano stati messi a rischio dalla direttiva europea o dalla scelta italiana di ignorarla. Insomma, siamo andati contro il mandato europeo finché le due impostazioni non sono finite in conflitto, cioè ora.
Non è solo un problema di quali stoviglie di plastica mettere al bando e quali continuare a usare, qui ci sono due visioni di futuro che si scontrano. «Mentre in altri paesi europei si sta passando dall'usa e getta al riuso, l'Italia vuole fare la transizione da una tipologia di usa e getta all'altra», spiega Giuseppe Ungherese, responsabile inquinamento di Greenpeace. «Economia circolare non è solo riciclo ma far durare i beni più a lungo. La politica italiana aveva due anni di tempo per adattarsi. Invece abbiamo una classe politica che si fa piombare le cose addosso e si sveglia un mese prima che la direttiva entri in vigore». La trattativa con la Commissione è comunque in corso, ma l'effetto politico è vistoso anche perché rischiamo di presentarci alla Cop26 di Glasgow da paese co-organizzatore e contemporaneamente da baluardo europeo della plastica monouso. 

Una vittoria che vale una generazione

Questa settimana l'oleodotto Keystone XL, pensato per trasportare 830mila barili di petrolio dalle sabbie di catrame del Canada agli Usa, è stato definitivamente cancellato da TC Energy, mossa inevitabile dopo l'ordine esecutivo di Biden contro il progetto ma ugualmente simbolica. È un simbolo in effetti gigante, forse la singola vittoria ambientalista più importante degli ultimi anni. 

Vale la pena ricostruirla, per dare l'idea di cosa significhi essere riusciti a bloccare questa infrastruttura in una battaglia durata esattamente un decennio. Dopo aver letto Areale, vi consiglio di leggere anche tutto questo lungo racconto di Jamie Henn, uno dei fondatori di 350.org, una delle associazioni leader del movimento contro Keystone XL. 

Era il 2011, alla Casa Bianca c'era Obama. L'allora presidente aveva provato invano a far passare una legge sul clima che non riuscì nemmeno ad arrivare al Senato. Obama ci stava provando, ma stava fallendo, travolto da lobby, interessi e veti incrociati. Battersi per il clima all'epoca voleva dire perdere, perdere ogni giorno. Nel 2011 «i guanti con cui Obama veniva trattato dagli ambientalisti vennero tolti», racconta Henn, e lo spunto fu proprio un oleodotto del quale a livello pubblico non si era mai parlato. «Serviva un permesso presidenziale per costruirlo, il progetto era un modo per testare l'impegno di Obama sulle fonti fossili. Dovevamo tracciare una linea nella sabbia e il Keystone XL era quella linea». 

Il contesto è importante: nel 2011 era difficile anche solo far parlare di clima, figurarsi di un'oscura e noiosa infrastruttura del petrolio canadese. Scelsero le due settimane più politicamente vuote d'America, alla fine di agosto. La manifestazione era un sit-in davanti alla Casa Bianca, sarebbero stati tutti arrestati e lo avevano messo in chiaro a chi veniva. A chi ci stava chiesero anche di presentarsi «col vestito della domenica», in onore alla tradizione delle proteste per i diritti civili. Per una generazione di attivisti sul clima è stato come un battesimo, sono quasi commoventi le foto di leader del movimento e giovani che si fanno arrestare e portare via col sorriso. Furono ammanettati luminari come Bill McKibben e Gus Speth, che aveva lavorato con l'amministrazione Carter nel Council on Environmental Quality. Era la più grande manifestazione di disobbedienza civile da anni negli Stati Uniti. Con 1.200 arresti, finalmente gli americani sapevano cos'era il Keystone XL. 

L'oleodotto entrò nella campagna elettorale del 2012. Un mese dopo l'inaugurazione del secondo mandato di Obama, arrivarono a Washington 40mila persone. Nel 2014 scesero in strada a New York in 400mila. Gli ambientalisti si erano uniti ai movimenti dei nativi a difesa delle loro terre, saldando un'alleanza che dura ancora oggi. Il 6 novembre del 2015, a un mese dagli accordi di Parigi, Obama negò il permesso (vittoria), che sarebbe poi stato concesso da Trump (sconfitta) e di nuovo negato da Biden (vittoria definitiva), che ha scelto il Keystone XL insieme al rientro negli accordi di Parigi, come primi ordini esecutivi della sua presidenza. Il Keystone XL non aveva più margine e questa settimana è stato definitivamente cancellato. 

«Un cambiamento sociale è una guerra di attrito, una gara di resistenza tra chi difende lo status quo e chi chiede il progresso», scrive Henn. Quella gara di resistenza è stata vinta, negli Stati Uniti (e ovunque) ce ne sono altre in gioco. Sul suolo americano il conflitto è su un altro oleodotto, la Line 3 in Minnesota, questa settimana c'è stata un'altra protesta, con uno schema ormai consolidato, sit-in, arresti, visibilità, pressione. In Europa un simbolo paragonabile per dimensioni e impatto potrebbe essere la centrale a carbone di Bełchatów, in Polonia, il più grande singolo inquinatore dell'Unione. Il suo gestore ha annunciato che sarà chiusa entro il 2036, meglio dei piani precedenti di andare fin dentro gli anni Quaranta, meno di quanto chiedono gli ambientalisti: spegnere nel 2030. Intanto lo stesso gruppo ha rinunciato ai piani di costruire una miniera di lignite a Złoczew. Il carbone perde terreno nel paese più carbonifero dell'Unione. 

Salvare il clima e proteggere la biodiversità sono la stessa cosa

C'è un problema di fondo in come stiamo impostando la transizione ecologica globale: stiamo affrontando il riscaldamento globale e la perdita di biodiversità come se fossero due temi sostanzialmente separati. Gli scienziati e le istituzioni che lavorano per salvare il clima e quelli che lavorano per proteggere la natura hanno finora operato in due silos separati, ognuno per conto suo, talvolta proponendo soluzioni che si danneggiavano a vicenda, per esempio piantando alberi indiscriminatamente per assorbire carbonio, portando però pini ed eucalipti (facili da piantare e veloci a crescere) lì dove avrebbero solo fatto danni agli ecosistemi.
È uscito un rapporto che sottolinea quanto sia importante uscire da questa emergenza cognitiva e lo hanno firmato le due istituzioni più importanti dei due rispettivi settori: IPCC (clima) e IPBES (biodiversità). È la prima volta che lavorano insieme, non sarà l'ultima (si spera). Clima e natura non sono la stessa cosa, ma sono incredibilmente collegati, si influenzano a vicenda e possiamo risolvere le due crisi solo se le affrontiamo come se fossero una singola, grande crisi, unendo i saperi, coordinando le misure, facendo parlare le persone tra loro. Ora la politica globale è tutta sul clima, ma crisi climatica e perdita di biodiversità sono entrambe causate dall'attività umana, si rafforzano a vicenda e sono sfide che si vincono solo insieme. Tra le soluzioni proposte da IPCC e IPBES, ci sono: arrestare il degrado degli ecosistemi ricchi di carbonio e biodiversità, ripristinare quelli in difficoltà, incoraggiare pratiche agricole e forestali sostenibili ed eliminare i sussidi ecologicamente dannosi.

La casa delle scimmie

A proposito di biodiversità: stiamo distruggendo il mondo dei nostri parenti più prossimi: i grandi primati. Le scimmie perderanno il 90 per cento del loro areale entro il 2050 se continuiamo così, secondo una ricerca pubblicata su Diversity and Distributions. Già oggi Iucn (il più credibile ente globale sullo status di conservazione delle specie, quello che si prende il compito di dirci ogni anno quali sono estinte) ci fa sapere che quattro grandi scimmie su sei sono a un passo dall'estinzione. E lo spazio che avranno a disposizione per vivere si sta letteralmente disintegrando, per un mix di crisi climatica, distruzione dell'habitat per produrre legname e cibo ed estrarre minerali, crescita della popolazione. Importante: metà di questo territorio perso sarà in parchi nazionali e aree protette, segno che gli attuali metodi di conservazione fanno acqua da tutte le parti.

FILE - In this Monday, Sept. 2, 2019, file photo, a silverback mountain gorilla named Segasira walks in Volcanoes National Park, Rwanda. Conservationists are worried about the coronavirus spreading among wild great apes, but aren't currently planning a vaccination campaign. Instead, they are going to extreme measures to ensure that human trackers and researchers visiting the animals aren't spreading disease. (AP Photo/Felipe Dana, File)

La ricerca ha usato i dati sugli ultimi vent'anni di Iucn (che ha un database pubblico e consultabile sulle scimmie) per fare proiezioni e costruire modelli. Le terre di pianura rischiano di diventare inabitabili, gli animali che potranno si rifugeranno in altura, ma non tutti avranno alture dove rifugiarsi dall'attività umana. Chi non ce l'ha rimarrà senza un posto dove andare mentre il suo mondo sparisce. Se non è una condanna a morte, non so cosa lo sia. Lo scenario migliore, secondo questi modelli, è una perdita di habitat dell'85 per cento. Quello peggiore è una perdita di habitat del 94 per cento. 

Eugenio nel bosco

Chiudiamo su una nota positiva, raccontando l'avventura di un gruppo di amici di Areale, gli Eugenio in Via di Gioia, tra le pop band italiane forse la più attenta all'ecologia, anche perché due dei membri, Eugenio Cesaro ed Emanuele Via, sono laureati in ecodesign al Politecnico di Torino. 

Nel 2019 avevano lanciato una piattaforma digitale chiamata Lettera al Prossimo per raccogliere fondi a sostegno del progetto di Trentino Tree Agreement per la rigenerazione boschiva di Paneveggio, area boschiva devastata dalla tempesta Vaia del 2018. Il crowdfunding era andato bene, avrebbero dovuto piantare gli abeti rossi nel 2020, poi c'è stata la pandemia, tutto è stato rinviato, ma finalmente il 14 giugno gli Eugenio in Via di Gioia saranno a Paneveggio per dare il loro contributo alla rinascita della foresta, insieme alla startup Vaia, a Federforeste, a Coldiretti, e a tutto quel mondo che – spesso in silenzio – da tre anni sta lavorando per rigenerare le aree messe in ginocchio dalla tempesta Vaia. Quindi: bravi tutti. 

Questo numero di Areale finisce qui, per suggerimenti, incoraggiamenti, critiche, playlist eco-rock o storie di trekking sulla strada dei gorilla, contattatemi. Per una conversazione istituzionale, scrivete al giornale: lettori@editorialedomani.it. Per una conversazione personale, scrivete a me:  ferdinando.cotugno@gmail.com.

A presto!

Ferdinando Cotugno

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