Buongiorno da Glasgow, lettrici e lettori di Domani, questo è un numero di Areale scritto nel Media Centre dello Scottish Event Campus, la sede di un evento che potreste aver sentito nominare, la Cop26.

In questa prima edizione scozzese di Areale proviamo a mettere un po’ di ordine tra le cose più importanti che sono successe in questa prima settimana di lavori e negoziati. A un evento serale, ieri, ho sentito citare la frase di un film inglese degli anni Ottanta, Clockwise: «Posso gestire la disperazione, è la speranza che non reggo». Ed è qualcosa che si applica bene a questa settimana di avvio di Cop26. Sembra che la comunità mondiale ormai si sia messa d’accordo sul fatto che siamo in un’emergenza, c’è però conflitto sul ritmo del cambiamento. In ogni caso, qualcosa si è mosso e ora facciamo il punto sintetico di questa settimana.

Prima, però, un po’ di numeri forniti da Energy Transition Commission per sapere dove siamo e dove dobbiamo arrivare. Per arrivare al nostro obiettivo (aumento di temperatura entro 1,5°C) dobbiamo togliere 22 gigaton di Co2 dall’atmosfera. Gli impegni presi nella prima settimana (se rispettati, sempre se rispettati) ne toglierebbero 9. Ne mancano ancora 13.

La riduzione del metano è fondamentale per avere ancora un pianeta abitabile. Per stare entro 1,5°C le emissioni di metano devono essere ridotte del 40 per cento. Gli impegni presi a Glasgow ci portano a un terzo di questa riduzione del 40 per cento.

Glasgow Leaders’ Declaration on Forests and Land Use

È stato l’annuncio di più alto livello fatto al World Leaders Summit, i due giorni di discorsi, sfilate di capi di stato e governo, prese di posizione sulla crisi climatica che hanno inaugurato Cop26. Più di cento paesi si sono impegnati ad azzerare la deforestazione entro il 2030: nove anni per riuscire a fare quello che non si era riusciti a concludere in sedici, dalla New York Declaration of Forests, che aveva lo stesso obiettivo, lo stesso orizzonte, ed era stata firmata nel 2014.

Perché è importante: La distruzione delle foreste non è solo una catastrofe ecologica, è anche un acceleratore della crisi climatica. Se contassimo le emissioni della deforestazione come contiamo quelle di una nazione, la troveremmo al terzo posto dietro la Cina e gli Stati Uniti. Negli ultimi anni abbiamo continuato a perdere superficie, al ritmo di cinque milioni di ettari a decennio, o ventisette campi di calcio ogni minuto.

Luci: La principale forza di questa iniziativa è il fronte che la Cop26 è riuscita a creare: ci sono paesi di grande distruzione forestale passata e presente, come la Repubblica Democratica del Congo, l’Indonesia e il Brasile. Ci sono India, Russia e Cina, segno che sul trattato di pace con le foreste si è riusciti a creare quel fronte che su altri temi – come il carbone – sembra ancora impossibile da costruire. E poi ci sono i soldi, tanti soldi: 19 miliardi di dollari, mobilitati secondo lo schema presentato da Draghi in assemblea plenaria, finanza pubblica e privata che si potenziano a vicenda.

Ombre: Questo elemento sarà ricorrente in questa analisi della prima settimana di Cop26: la dichiarazione sulle foreste non è un accordo vincolante. È un impegno politico, e vale comunque tantissimo, ma non ci sono strumenti legali per sanzionare chi non crea le condizioni per mettere davvero fine alla deforestazione. Sono inoltre poco chiari i meccanismi di implementazione e quelli – cruciali – di monitoraggio, sul quale c’è anche un tema di sovranità nazionale.

È previsto un meccanismo di eliminazione della deforestazione dalle filiere dei prodotti che consumiamo, ma non è menzionato il ruolo delle nostre diete, che è uno dei principali acceleratori del fenomeno (le foreste vengono distrutte all’80 per cento per farci mangiare carne e consumare proteine animali) e che è finito in un angolo cieco di questo impegno.

Qui l’annuncio: https://ukcop26.org/glasgow-leaders-declaration-on-forests-and-land-use/.

Global Methane Pledge

È un’iniziativa per la quale gli Stati Uniti e l’Unione europea stavano preparando il terreno già dall’Assemblea delle Nazioni Unite: l’impegno globale per tagliare le emissioni di metano del 30 per cento entro il 2030 in tutti i settori. A Cop26 più di cento paesi hanno aderito ma è considerato un successo diplomatico parziale, visto che mancano i principali emettitori di metano.

Perché è importante: Il metano che fuoriesce dall’estrazione di petrolio e gas, dalle discariche e dagli allevamenti ha un impatto sul clima da 20 a 30 volte più elevato della Co2, ma dura meno nell’atmosfera. Investire sulla riduzione del metano permette quindi non solo di liberarci dei suoi effetti, ma anche di ottenere risultati concreti in tempi rapidi.

Tagliare in modo sostanziale il metano potrebbe abbassare la temperatura sulla Terra di 0,2°C entro il 2050. Ursula von der Leyen ha definito un intervento su questo gas: «The low laying fruit», il frutto più facile da cogliere, quello da afferrare per primo per contrastare la crisi climatica.

Luci: Il Global Methane Pledge è il frutto di un lavoro diplomatico congiunto di Joe Biden e Ursula von der Leyen, forse il prodotto più chiaro e diretto della leadership dei paesi occidentali sul clima e del ritorno degli Stati Uniti nella partita, soprattutto dal momento in cui Trump aveva indebolito le regole sulle perdite di metano negli impianti da fracking (una delle principali cause di emissioni da metano). I paesi che hanno aderito rappresentano i due terzi dell’economia globale e la metà dei top 30 emettitori.
Ombre: La principale debolezza di questo pledge: mancano tre paesi troppo grandi e troppo compromessi con le emissioni di metano per considerare l’accordo efficace. Non ci sono infatti Cina, India, e Russia. Mancano anche Iran, Turkmenistan e Australia, responsabili di singoli eventi molto gravi di emissioni da metano. Inoltre, secondo Carbon Brief, il taglio del 30 per cento non è sufficiente, sarebbe servito arrivare al 50 per cento per avere un vero impatto. 

Statement on international public support for the clean energy transition

Venticinque tra paesi e istituzioni finanziarie (tra cui la Banca europea per gli investimenti) hanno preso l’impegno di interrompere il supporto pubblico a garanzia di nuove estrazioni di petrolio e gas all’estero a partire dal 2023. Si tratta di una svolta che sposta 17 miliardi di dollari dalla ricerca internazionale di fonti di energia fossili ad alte emissioni all’energia pulita. È stata promossa dalla diplomazia britannica, hanno aderito Stati Uniti, Canada, diversi paesi vulnerabili (per dare un segnale politico, principalmente) e soprattutto c’è l’Italia (un po’ rocambolescamente).

Perché è importante: Parliamo di sussidi pubblici a progetti che non solo rischiano di legarci a lungo termine a nuovi giacimenti ma anche di devastare ecosistemi delicati come l’artico siberiano o l’Africa meridionale, riferimento diretto a due progetti a partecipazione italiana, Arctic LNG-2 in Russia e l’oleodotto Eacop (East-african crude oil pipeline) che attraversa Uganda e Tanzania. È una decisione che rende operativo l’obiettivo di 1,5°C e va nella direzione della scienza: «Keep oil and gas in the ground».

Luci: La partecipazione dell’Italia è una notizia eccellente. Non è stato facile, la decisione è arrivata a pochi minuti dall’annuncio (infatti sulla mappa di presentazione non c’eravamo perché non c’è stato il tempo di inserirci). Viene interrotto tra un anno e mezzo un flusso di fondi pubblici che negli anni tra l’accordo di Parigi a oggi è stato – secondo i dati Re:Common – di 18 miliardi di dollari. Siamo entrati nell’accordo per impuntamento del ministero della Transizione ecologica e soprattutto perché sarebbe stato politicamente inaccettabile non farlo. Tradotto: è stata la pressione dell’opinione pubblica, degli attivisti, delle Ong, del sistema Cop, a farci fare la cosa giusta.

Ombre: La finestra temporale desta qualche preoccupazione. C’è il rischio concreto di vedere una accelerazione degli investimenti finché si può, visto che i progetti citati sopra (Artico, Africa) sono attualmente in fase di approvazione. Inoltre, la dichiarazione prevede una scappatoia (nel caso si dimostri che i nuovi piani sono compatibili con l’obiettivo di contenere l’aumento delle temperature a 1,5°) e parla di «unabated fossil fuels», quindi senza cattura e stoccaggio della Co2. E non è vincolante. 

Qui il link per la dichiarazione: https://ukcop26.org/statement-on-international-public-support-for-the-clean-energy-transition/.

End of coal in sight

Non è esattamente la fine del carbone, e non lo abbiamo ancora consegnato alla storia – come enfaticamente detto dal presidente della Cop26 Alok Sharma – ma la raccolta di impegni sul carbone è un bel risultato di sostanza: ventitré paesi per la prima volta si sono dati una scadenza sul suo utilizzo come fonte energetica. Inoltre diverse banche internazionali hanno annunciato la fine del supporto finanziario a nuove centrali a carbone entro la fine di quest’anno.

Perché è importante: Il carbone è la fonte di energia a più alto tasso di emissioni di Co2. Era uno degli obiettivi della Cop26 fissati da Boris Johnson con lo slogan: cars, cash, coal and trees. I dati degli ultimi anni erano stati contraddittori: il numero di nuove centrali è crollato del 76 per cento negli ultimi sei anni, con la cancellazione di 1000GW di nuove centrali. D’altra parte, Cina e India continuano a puntare sul carbone, per il quale la Cina prevede il picco solo nel 2025.

Luci: Tra i paesi che per la prima volta si sono impegnati a eliminare il carbone dal mix energetico ci sono diverse economie del sudest asiatico, come Indonesia e Vietnam, è un modo per invertire la narrazione che non c’è sviluppo per paesi emergenti senza carbone. C’è la Polonia, il gigante carbonifero dell’Europa. Ci sono storie africane significative, come quella del Botswana, anche in questo caso è da sottolineare che un paese africano abbia scelto di rinunciare al carbone e di slegare questa fonte di energia dal suo sviluppo.

Ombre: Ovviamente ce n’è una grandissima e vistosa, abbiamo tirato a bordo una serie di grandi consumatori, ma mancano i grandissimi, come Cina e India. La speranza è che questo annuncio produca un effetto innesco. La Cina si era già impegnata a rinunciare alla costruzione di nuove centrali all’estero, mentre l’India ha presentato un piano molto serio e strutturato al 2030 per la riduzione delle emissioni, piccole punte di luce nell’ombra. Mancano all’impegno sul carbone anche Australia e Sudafrica. Inoltre c’è da verificare i tempi di questo phase-out, ci sono diverse fasce tra 2030 e 2040 (un sistema energetico non si cambia in un anno), c’era stata significativa confusione sulla Polonia, che ha scelto alla fine una timeline da paese in via di sviluppo (quindi negli anni Quaranta).

Per oggi è tutto. La copertura della Cop26 continua ogni giorno su Domani in edicola e sul web, sulla pagina Instagram di Domani e – ora dopo ora – sul mio account Twitter.

Come sempre, se avete dubbi, spunti, precisazioni, domande, scrivetemi a: ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani, invece, l’indirizzo è lettori@editorialedomani.it.

A presto!

Ferdinando Cotugno

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