Questa settimana è stata una parabola sulla crisi climatica. Dopo mesi di politica e politiche, con la conversazione globale dominata dalla lentezza nell’affrontare la transizione ecologica, è stata la Terra a parlare, a restituirci la scala del problema. L’epicentro è un villaggio canadese che non c’è più: Lytton, in British Columbia, Canada, ha toccato temperature mai registrate per tre giorni di fila, fino a un incredibile 49,6°C, prima di essere divorato dalle fiamme.

L’innesco potrebbe essere stato casuale, il passaggio di un treno, ma non sono casuali le condizioni che lo hanno reso distruttivo: foreste secche e in stress idrico e un caldo insostenibile che ha alimentato le fiamme.

Il fuoco ha mangiato il 90 per cento degli edifici, «Lytton è persa», è andata, ha scritto su Facebook Edith Loring-Kuhanga, preside di una scuola nella valle, che ha fatto giusto in tempo a chiudere le valigie e scappare. Una comunità spazzata via dal cambiamento climatico in meno di un’ora.

Dall’Italia dobbiamo guardare con attenzione, non possiamo considerare remoto quello che è successo in Canada, sia per la situazione temperature che per quella incendi.

Morti da caldo

L’incendio ha distrutto Lytton, ma sono state le temperature a uccidere le persone. In British Columbia in meno di una settimana sono morti improvvisamente per infarti e colpi di calore in 486, il 200 per cento in più del normale tasso di mortalità. Il capo coroner ha avvisato: «Man mano che aggiorniamo i database, questi numeri cresceranno». La regione non era pronta a niente del genere, sono stati approntati dei rifugi per sfuggire al caldo.

Nel 2020 uno studio del Climate Impact Lab prevedeva che le morti da caldo entro il secolo potrebbero superare quelli da malattie infettive, le ondate di calore sono la più mortale forma di meteo estremo sulla Terra ma i numeri finiscono con l’essere sottostimati, perché sono più difficili da raccogliere rispetto a quelli causati da un uragano o da una inondazione. Secondo i dati di questa ricerca, le ondate di calore faranno 73 morti su 100mila persone entro il 2100, con picchi in paesi vulnerabili di 200 morti su 100mila. Secondo l’Oms, tra il 1998 e il 2017 sono stati 166mila i decessi attribuibili a temperature anomale.

La cupola di calore

L’ondata che ha colpito il nordovest Pacifico è dovuta a una «heat dome», una spaventosa cupola di calore che ha intrappolato l’area. «Le temperature hanno raggiunto valori aberranti», conferma Giulio Betti, meteorologo e climatologo Cnr/Lamma. «Sono valori più alti fino a 5°, 6°C rispetto alla norma, sfuggono completamente alle statistiche. Non solo Lytton, abbiamo superato 40 gradi al 60° parallelo nord, in Alberta, nei territori del nordovest. Il cambiamento climatico è questo».

La cupola bollente sul Canada si è creata quando un fronte di aria calda dal Pacifico, dopo aver viaggiato verso est e poi a nord, è rimasto bloccato, alimentato dall’elevata temperatura delle superfici. Non è la prima heat dome, a essere fuori scala sono però i picchi di calore e la sua durata.

Pensabile in Italia? Le dinamiche sono diverse, Lytton ha superato ogni nostro record (i 47°C di Foggia del 2007), ma quella che stiamo vivendo qui è già una stagione con temperature che Betti definisce «eccezionali: è cominciata col botto soprattutto a sud, con i 44°C di Caltagirone e Comiso. È un’estate nei canoni di queste nuove estati». È difficile prevedere l’impensabile, come era impossibile immaginare un Canada a quasi 50°C, «ma più si riscalda la Terra più aumenta la probabilità di temperature mai osservate, non siamo più indenni all’impensabile».

In Canada l’altra faccia dell’apocalisse sono gli incendi come quello che ha distrutto Lytton, come osservato l’anno scorso in California, questo è un fuoco talmente fuori scala da generare un proprio meteo: sul British Columbia sono stati registrati oltre 700mila fulmini questa settimana. Incendi di queste proporzioni sono un sistema che si autoalimenta, creando i cosiddetti pirocumulonembi, fronti temporaleschi fatti di fumo, cenere e vapore acqueo. Gli effetti, fulmini compresi, sono come quelli di un’eruzione vulcanica.

I roghi in Italia

In Italia quest’anno siamo avvantaggiati da una primavera fresca e umida, che ci ha lasciato una riserva idrica in grado di mitigare il calore. Ma il nostro rimane un territorio critico per gli incendi, una tempesta perfetta in attesa di scatenarsi. Come spiega Davide Ascoli, ricercatore dell’Università di Torino, uno dei massimi esperti in Italia, «Abbiamo una situazione climatica che porta verso gli estremi, un grande aumento dei boschi, quindi di biomassa predisposta a bruciare, e una elevata pressione antropica, quindi grandi possibilità di innesco». Nelle estati normali la situazione rimane gestibile, in quelle critiche la siccità rende il paesaggio infiammabile. È lo scenario peggiore, quello che all’inizio di ogni stagione possiamo solo pregare che non accada.

«Quando gli incendi hanno tutto quello spazio a disposizione, la scala supera le possibilità dell’intervento anti-incendio», spiega Ascoli, «C’è una dimensione critica oltre la quali puoi aggiungere mille uomini ma non cambierà niente». È successo nei due roghi peggiori della storia recente, quelli del 2017 in Val di Susa e nel Parco del Vesuvio. «In Val di Susa c’ero, dai 400 ai 2000 metri di altitudine era indomabile, è entrato in tutti i valloni, i Canadair erano impotenti, piccoli puntini contro la forza del fuoco. A quel punto puoi solo sperare che si spegna da solo».

In un paese dove la copertura boschiva è raddoppiata e arriva fino ai centri abitati, è come vivere accanto a una bomba climatica innescata. «L’unica strategia possibile è lavorare sul territorio per ridurne l’infiammabilità pianificando, gestendo, sottraendo spazio al fuoco, perché gli incendi record torneranno, dobbiamo solo chiederci se ci interessa la sicurezza degli italiani tra trent’anni. Next Generation è anche questo, no?».

© Riproduzione riservata