Esattamente un anno fa il pilota di Formula 1 Sebastian Vettel si era presentato al gran premio di Miami con una t-shirt che descriveva la gara in Florida come la prima competizione automobilistica da organizzare sott’acqua.

Era una denuncia potente della crisi climatica, ma sembrava anche una provocazione lontana nel tempo, un gesto da Cassandra per rovinare la festa a tutti. E invece è successo già un anno dopo: il disastro dell’Emilia-Romagna ha portato come effetto collaterale minore ma fortemente simbolico la cancellazione del gran premio di Imola, previsto per questo weekend.

Le immagini del paddock già pronto alla gara e sommerso dall’acqua sono arrivate con decenni di anticipo rispetto a quanto pensassimo, e sono arrivate in Italia, non a Miami, proprio nella Motor valley così ostinatamente aggrappata ai motori a benzina, ai combustibili fossili, alle cause stesse del disastro che l’ha sommersa.

Attese e paure

LAPRESSE

Migliaia di evacuati, nove morti, tutto il reticolo di fiumi e torrenti fino all’Adriatico ha superato gli argini ed è esondato, le persone sono annegate nei campi, in cantina, in auto, in casa propria. La ciclicità di questi eventi costringe anche a ripetere gli stessi concetti a ogni reiterazione: l’attribuzione di ogni singolo evento estremo ai cambiamenti climatici è una scienza complessa, che richiede tempo, serviranno mesi prima che il progetto più autorevole del ramo, il World Weather Attribution (collaborazione di decine di atenei del mondo tra cui l’Imperial college di Londra e la Princeton University) possa darci risposte in merito.

Però abbiamo già le informazioni che ci servono: eventi come quelli che hanno colpito l’Emilia-Romagna sono perfettamente coerenti con i modelli, con le attese e con le paure. Sistemi temporaleschi persistenti e intensi che si alternano a prolungati periodi di siccità.

Il ciclone tropicale in risalita dal nord Africa è rimasto intrappolato sulle stesse aree e ha scaricato al suolo in poche ore la pioggia di mesi, senza compensare la siccità e senza poter essere assorbito, perché i terreni erano ancora saturi della pioggia di settimane fa, per la cattiva manutenzione del territorio e per la cementificazione accumulata nei decenni e ancora in atto. A quel punto, acqua e fango hanno invaso tutto. Il Cnr lo ha classificato come evento estremo, la climatologa Marina Baldi lo ha definito «insolito e straordinariamente intenso».

«Il suolo non resuscita»

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Una delle peggiori letture che si possano fare con eventi estremi di questo tipo è contrapporre il suolo e l’atmosfera, dire che: o è colpa del consumo di suolo o è colpa della crisi climatica, come se fossero sistemi diversi che richiedono approcci alternativi, uno conservatore e uno progressista, uno di destra e uno di sinistra, quando sono invece due lati della stessa crisi. Questo è un problema complesso che richiede ragionamenti complessi, non binari. Occuparsi del suolo non vuol dire dimenticare l’atmosfera, e viceversa.

Abbiamo costruito il nostro territorio per un altro clima e basandoci su un’idea di mondo a risorse infinite, quando il suolo è invece una risorsa limitata con capacità limitate: o lo usiamo per un parcheggio, e allora ci potremo mettere tutte le auto che vogliamo ma non sarà più in grado di assorbire l’acqua e contenere le piene, o lo lasciamo alla natura, non ci potremo parcheggiare le auto, ma sarà in grado di contenere in parte le piene.

L’Emilia-Romagna è diventata un modello di cementificazione, con il 9 per cento di suolo impermeabilizzato, sopra la media italiana già insostenibile del 7,1 per cento, terza regione d’Italia, secondo i dati Ispra. Nell’ultimo anno, un ettaro su dieci consumato in Italia è sparito in Emilia-Romagna. Come dice Paolo Pileri, docente di Pianificazione territoriale al Politecnico di Milano, «il suolo non resuscita, una volta cementificato è perso, non torna indietro».

Il tempo di ritorno

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L’altro lato della complessità è capire che questa fame di suolo ha amplificato il disastro, ma non lo ha causato. In queste ore si citano spesso le alluvioni che in passato hanno colpito queste terre. Forse dobbiamo imparare a familiarizzare con il concetto scientifico di “tempo di ritorno”. Le alluvioni ci sono sempre state, è vero, ma una volta passate venivano consegnate alla memoria delle generazioni.

La crisi climatica rende comuni gli eventi eventi eccezionali, ne aumenta l’intensità e la frequenza, il tempo di ritorno si accorcia, le tempeste da “una volta ogni secolo” diventano una volta ogni decennio e spesso anche meno, a Faenza il tempo di ritorno è stato di due settimane. E questo è un mondo più caldo rispetto all’èra pre-industriale di “solo” 1,15°C di media globale.

Una ricerca diffusa mercoledì dalla World Meteorological Organization annuncia che abbiamo due possibilità su tre di sfondare per la prima volta la soglia di sicurezza di +1,5°C già nei prossimi cinque anni. Il passaggio alla fase di El Niño, l’oscillazione meteo ciclica e naturale che riscalda l’oceano Pacifico e il globo, ci dà il 98 per cento delle probabilità di avere nel prossimo quinquennio l’anno più caldo della storia.

«Lo sviluppo di El Niño con il suo effetto riscaldante combinato con i cambiamenti climatici causati dagli esseri umani ci porteranno in un territorio completamente sconosciuto», avverte Petteri Taalas, segretario generale della World Meteorological Organization.

Le tempeste sull’Emilia-Romagna sono una dolorosa anticipazione di questo mondo nuovo. Le traiettorie dei nostri consumi energetici ci portano secondo l’Unep, l’agenzia ambientale dell’Onu, a un aumento di temperatura doppio di quello attuale, tra +2,5°C e +3°C. Tradotto in termini concreti: non abbiamo ancora visto niente di quello che può succedere.

Combustibili fossili

Questa è una crisi climatica causata dall’abuso e dalla dipendenza dai combustibili fossili nei sistemi energetici, nel riscaldamento degli edifici, nei trasporti, nella produzione di cibo. Per usare una metafora che abbiamo ancora fresca, quella della pandemia, le emissioni di gas serra sono il virus, la transizione ecologica ed energetica per ridurre quelle emissioni equivale alla vaccinazione di massa, l’unico strumento davvero scalabile a nostra disposizione per affrontare il problema, mentre l’adattamento ha il potere che avevano il distanziamento sociale e le mascherine: ci fanno guadagnare tempo e margine di azione, salvano vite umane e sono la soluzione più immediata per rispondere all’emergenza.

Ma se pensiamo di affrontare la crisi climatica solo adattando il territorio e gestendolo in modo migliore rispetto al passato non abbiamo compreso la scala di questa crisi e non saremo mai in grado di affrontarla. Esistono livelli di riscaldamento globale ai quali non ci si potrà adattare, e noi stiamo correndo verso questo aumento di temperature come un’automobile senza freni.

Un diversivo

Nel nostro approccio al problema c’è stato nei decenni uno slittamento semantico. Negli anni '80 si parlava di effetto serra, la perfetta metafora scientifica per spiegare cosa succede a un pianeta che accumula così tanta CO2 nell’atmosfera. Poi le formule sono diventate via via più dirette, mentre il problema peggiorava più velocemente di quanto pensassimo: cambiamenti climatici, crisi climatica. E forse l’ultimo passo per ricordarci davvero le cause insieme agli effetti è chiamare questa crisi per quella che è: la crisi dei combustibili fossili.

In un articolo puntuale e documentato sulla mala gestione del territorio nell’Emilia-Romagna di Stefano Bonaccini, i Wu Ming hanno parlato della tendenza a nascondersi dietro il discorso sul clima, a usarlo come «sinonimo di sfiga», aggiungendo che «quest’uso del clima è un diversivo» e che «se queste piogge hanno impatti sempre più devastanti è perché il territorio è deturpato ed è contro chi deturpa che dobbiamo lottare».

È una visione parziale, si può e si deve lottare allo stesso tempo contro il collasso del suolo e contro quell’atmosfera. La crisi climatica non è un set di problemi già definito con cui confrontarci, se la transizione ecologica non viene attivata continuerà a peggiorare su un piano inclinato che nessun territorio ben manutenuto potrà reggere.

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