Da decenni ogni volta che si parla di fusione nucleare i fisici e gli ingegneri dicono che potrebbe diventare realtà «tra una cinquantina di anni». Ma la situazione nell’ultimo periodo è profondamente cambiata e quei «cinquant’anni» potrebbero ridursi enormemente.
Per chi non ricordasse o non sapesse cos’è la fusione nucleare (da non confondere con la fissione nucleare, usata oggi nelle centrali nucleari) la si può riassumere dicendo che è un modo per ottenere una grande quantità di energia pulita (ossia senza scorie nucleari che durano decine di migliaia di anni), facendo scontrare tra loro atomi leggeri (ossia con pochi protoni) proprio come avviene nel cuore del Sole. Le problematiche stanno nel riuscire a ottenere temperature e pressioni tali che permettano la fusione degli atomi. L’obiettivo non è semplice da raggiungere.

Culham è una cittadina inglese che potrebbe far parlare molto di sé nei prossimi anni. Qui infatti, nel 2022, una società privata dovrebbe costruire una struttura per dare concretamente il via alla tecnologia necessaria alla fusione. Ma quella società non è l’unica al mondo ad avere investito e scommesso sulla fusione nucleare. Ad oggi ci sono più di 30 aziende private che lavorano in questo campo. Lo sostiene la Fusion Industry Association di Washington, che ha recentemente realizzato un sondaggio su queste aziende. Stando a quanto riporta Nature, le 18 aziende che hanno dichiarato anche il proprio finanziamento affermano di aver attratto più di 2,4 miliardi di dollari, quasi interamente da investimenti privati. 

La ricerca che avanza

A guidare gli investimenti sono i progressi nella ricerca su nuovi materiali e nell'informatica. Così diventano disponibili tecnologie diverse dai progetti standard che le agenzie statali e internazionali hanno perseguito per tanto tempo con risultati positivi, ma estremamente lunghi da ottenere. A Culham, il fulcro della ricerca sulla fusione nel Regno Unito, nascerà un impianto dimostrativo della General fusion (Gf), una società con sede a Burnaby, in Canada. 

È previsto che inizi a funzionare nel 2025. L'azienda mira ad avere reattori disponibili per la vendita all'inizio degli anni Trenta, quindi tra una decina di anni. «Sarà la prima dimostrazione su larga scala di un certo valore che darà vita a una centrale elettrica a fusione», afferma a Nature l'amministratore delegato di Gf, Chris Mowry. A meno che i suoi concorrenti non arrivino prima.

Anche l’Eni crede molto nella fusione nucleare. E infatti sta partecipando allo sviluppo dei principali progetti italiani e internazionali sulla fusione a confinamento magnetico, dal Commonwealth Fusion System, al Plasma Science and Fusion Center del Mit, fino al Divertor Tokamak Test, progetto dell’Enea – l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile a Frascati – e all’Iter.

Intervengono i privati

Sembra che la fusione nucleare voglia ricalcare quanto sta avvenendo nell’industria spaziale. Anche questo settore un tempo era limitato alle agenzie governative, ma ora beneficia della spinta e dell'immaginazione di un'agile (anche se spesso assistita dallo stato) impresa privata. 

Questo è «il momento della fusione di SpaceX», afferma Mowry, riferendosi alla compagnia di voli spaziali di Elon Musk a Hawthorne, in California. «L'atteggiamento è cambiato», afferma Thomas Klinger, specialista della fusione presso il Max Planck Institut für Plasmaphysik (Ipp) a Greifswald, in Germania. 

Gli investitori intuiscono la reale prospettiva di un ritorno dei loro investimenti: Google e la banca d'investimento Goldman Sachs, con sede a New York City, ad esempio, sono tra coloro che finanziano la società che studia la fusione nucleare Tae Technologies, con sede a Foothill Ranch, in California, che al momento ha raccolto circa 880 milioni di dollari. 

«Le aziende stanno iniziando a costruire strutture a un livello che solo fino a pochi anni fa lo facevano i governi», spiega Bob Mumgaard, amministratore delegato di Commonwealth Fusion Systems (Cfs), con sede a Cambridge, nel Massachusetts.

Una nuova strada

E proprio mentre i viaggi spaziali privati ​​si stanno materializzando, molti osservatori del settore prevedono che lo stesso modello di business darà origine alla fusione – assolutamente necessaria per decarbonizzare l'economia energetica – entro un decennio. 

«Si è aperta un nuova e concreta strada per arrivarci in meno di dieci anni», afferma Michl Binderbauer, amministratore delegato di Tae Technologies.  Ma che provenga da piccole imprese private o da grandi progetti di fusione nazionali o internazionali, o un po' da entrambi, la fusione nucleare sembra finalmente essere all'orizzonte.

«Questa forma di produzione di energia – spiega Klinger – è l'unica fonte di energia primaria rimasta nell'Universo che dobbiamo ancora sfruttare. Da quando il processo che alimenta le stelle è stato utilizzato negli anni Cinquanta per le bombe all'idrogeno, i tecnologi hanno sognato di poterlo controllare per la generazione di energia. E non siamo lontani».

Difficile da contenere

Oggi la maggior parte degli sforzi per sfruttare la fusione nei reattori utilizza il sistema che prevede il riscaldamento degli isotopi dell'idrogeno deuterio (D) e trizio (T) fino a formare un plasma, uno stato fluido della materia contenente atomi ionizzati e altre particelle cariche, e quindi farli fondere. 

La fusione D-T genera alcune radiazioni sotto forma di neutroni di breve durata, ma nessun rifiuto radioattivo di lunga durata, a differenza della fissione. È anche più sicuro della fissione perché si spegne facilmente: se il plasma viene portato al di sotto di soglie critiche di temperatura o densità, le reazioni nucleari si fermano immediatamente. Nessuna possibilità di esplosioni nucleari.

Ciò che rende estremamente difficile realizzare il processo in modo controllato, tuttavia, è trovare il modo per contenere in una macchina il plasma in fase di fusione a temperature di circa 100 milioni di gradi centigradi, una temperatura dieci volte più elevata di quella che c’è al centro del Sole. Questa temperatura si rende necessaria perché sulla Terra non è possibile generare le pressioni che ci sono nel cuore della nostra stella e quindi è necessario “giocare” su temperature estremamente elevate.

In genere, i ricercatori utilizzano campi magnetici per confinare e far levitare il plasma all'interno del reattore, così che non vada a colpire le pareti del reattore stesso. Ma le instabilità in questo fluido infernale rendono molto difficile il contenimento e finora hanno impedito che la fusione fosse sostenuta abbastanza a lungo da estrarre più energia di quanta ne sia stata immessa per innescarla.

“Stellarator”

Oggi il punto di forza istituzionale più importante al mondo dove si studia la fusione è Iter, un reattore a fusione in costruzione nel sud della Francia e supportato da 35 nazioni, tra cui Cina, stati membri dell'Unione europea, Stati Uniti, Russia, Corea del Sud e Giappone, con un investimento di almeno 22 miliardi di dollari. Sebbene i primi test siano previsti per il 2025, la fusione D-T completa non è prevista fino al 2035. Ma quello sarà solo un primo passo verso la costruzione di una vera centrale a fusione. Un'altra serie di grandi reattori potrebbe affiancare Iter: la Cina, che ha tre reattori a fusione per la ricerca, pianifica un reattore cinese per il 2030 e sia la Corea del Sud sia l'Unione europea propongono già di costruire centrali elettriche dimostrative che dovrebbero seguire Iter.

Come per l'esplorazione spaziale, uno dei vantaggi della ricerca privata è una maggiore diversità di approcci rispetto a quella delle imprese statali che generalmente sono monolitiche. Iter sta utilizzando l'approccio più comune per confinare il plasma, in un dispositivo chiamato “tokamak”, che utilizza potenti magneti superconduttori per trattenere il plasma in un recipiente a forma di anello (si dice: toroidale). Il flusso delle stesse particelle di plasma caricate elettricamente genera anche un campo magnetico che aiuta ulteriormente a confinare il plasma.

Ma il tokamak non è l'unica opzione. Nei primi giorni della fusione, negli anni Cinquanta, l'astrofisico statunitense Lyman Spitzer dimostrò che i campi magnetici potevano essere configurati in un anello attorcigliato, ossia una macchina a forma di otto, per creare una “bottiglia magnetica” che poteva essere riempita di plasma. Questo design era noto come “stellarator”.

Ma risolvere le equazioni che descrivono il plasma per questa complessa geometria a quel tempo era troppo impegnativo dal punto di vista computazionale, quindi il concetto venne abbandonato una volta che i tokamak dimostrarono di funzionare.

Quando i supercomputer tuttavia sono diventati disponibili alla fine degli anni Ottanta, i ricercatori hanno rivisitato l'idea. Ciò ha portato alla costruzione di uno stellarator presso l’Ipp, chiamato reattore Wendelstein 7-X. Sono necessari circa 1 miliardo e 370 milioni di euro per la costruzione, il personale e il funzionamento fino al suo primo test nel 2025. Parte dei finanziamenti stanno arrivando direttamente dal governo tedesco.

Altre prospettive

«Gli stellarator hanno il vantaggio che il plasma può essere più facilmente confinato, senza bisogno (come nei tokamak) di guidare forti correnti elettriche attraverso di esso per tenere a freno le instabilità», afferma il fisico della fusione Josefine Proll dell'Università di tecnologia di Eindhoven nei Paesi Bassi. Al momento però, non è ancora chiaro se sarà possibile implementare la tecnologia stellarator in un reattore a fusione vero e proprio. «Abbiamo ancora molte domande fondamentali a cui rispondere», afferma Klinger. «Questa è una macchina unica nel suo genere, quindi bisogna essere pazienti e andare per gradi».

Alcune compagnie private che lavorano nella fusione si attengono al design del tokamak, ma ridimensionato. Tokamak Energy, un gruppo di circa 165 dipendenti, sta lavorando a un tokamak sferico, a forma di mela senza il torsolo. Con un diametro di 3,5 metri e quindi molto più piccolo del tokamak Iter, il quale con le apparecchiature di raffreddamento circostanti, sarà largo e alto quasi 30 metri.

Alcuni progetti stanno prendendo in considerazione anche il design sferico compatto: l'Ukaea, ad esempio, ha lanciato un progetto chiamato Step (Spherical Tokamak for Energy Production) che mira a creare un impianto prototipo che fornirebbe almeno 100 Mw alla rete nazionale inglese entro il 2040. L'Ukaea ha selezionato cinque siti per ospitare l'impianto e prevede che la scelta finale verrà effettuata il prossimo anno.

La chiave di questi progetti sono nuovi tipi di magneti realizzati con nastri di materiali superconduttori ad alta temperatura, che dovrebbero produrre campi molto più forti rispetto ai magneti superconduttori convenzionali utilizzati da Iter. Sono “un potenziale punto di svolta”, afferma Klinger, perché i superconduttori convenzionali necessitano di un raffreddamento a elio liquido. Questo è un incubo ingegneristico: la viscosità dell'elio liquido è quasi zero, permettendogli di fuoriuscire attraverso ogni minuscola fessura. I superconduttori ad alta temperatura, al contrario, possono essere raffreddati con azoto liquido, che è abbondante, economico e facile da immagazzinare.

Sia Tokamak Energy (in collaborazione con il Cern, il laboratorio europeo di fisica delle particelle vicino a Ginevra, Svizzera) sia Cfs puntano su questi nuovi magneti. Questi sono solo alcuni esempi dei grandi investimenti in atto in questo settore. Un settore che potrebbe essere fondamentale per il nostro pianeta quasi da poter dire che la fusione nucleare è il vaccino per il cambiamento climatico.

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