Nel 2022 le temperature medie registrate a Milano sarebbero state quelle che nel periodo 1991-2020 avresti trovato a Elassóna, in Grecia, 610 chilometri più a sud. Quelle di Genova nel decennio precedente sarebbero state quelle di Fushë-Krujë, in Albania, 320 chilometri più a sud. Secondo uno studio della società di valutazione dei rischi climatici Callendar, le temperature dell’anno scorso in Europa sono state in media simili a quelle che avremmo trovato 425 chilometri più a sud: è la linea del caldo, che sta venendo a prenderci. (Puoi giocare con le mappe interattive qui).

Negli Stati Uniti la primavera è arrivata con tre settimane di anticipo in diversi stati del sud: Texas, Arkansas, Louisiana, Mississippi, Alabama, Georgia e South Carolina. In Toscana sono fiorite le mimose. A Milano ieri sera c’era un’arietta sospetta. Ciao, questa è Areale, una newsletter che tra poco compie due anni, buon sabato, come stai?

Cronaca di una morte annunciata

Juan Carrito era un orso marsicano che in realtà si chiamava M20, perché i nomi come Amarena, Daniza, Juan Carrito sono pericolosi. I nomi sono già un pezzo di giusta distanza che si è persa, addomesticamento sociale di qualcosa che non dovremmo addomesticare. Le sigle lettera-numero come M20 sono più etologicamente corrette, poi tutti – io per primo – usiamo i nomi perché ci piacciono le storie e alle storie servono i nomi.

La storia di Juan Carrito si è interrotta il 23 gennaio, sulla strada statale 17 all’altezza di Castel di Sangro, in Abruzzo. M20 è stato investito da un’automobile, così va la vita, direbbe Kurt Vonnegut, ma la sua storia di orso confidente e di orso diventato famoso in quanto confidente dice molto di quello che non abbiamo ancora capito su come deve funzionare una civiltà contemporanea in un paese biodiverso come l’Italia.

In Abruzzo vivono 50 orsi marsicani, ne sono simbolo, identità, memoria e risorsa economica. A questi orsi serve spazio, per crescere la popolazione ha bisogno di espandere il suo areale, quello spazio non siamo stati in grado di concederlo e anche per questo Juan Carrito è morto sulla strada che era costretto ad attraversare per vivere. Gli animali selvatici purtroppo ci piacciono a condizione che siano vicini, accessibili, nostri. E quella vicinanza è pericolosa, per noi e loro.

Avevo sentito parlare di Juan Carrito per la prima in un bar di Scanno, nell’estate del 2020, quando erano iniziate le sue scorribande, al seguito della cucciolata di sua madre, Amarena. Da allora la sua confidenza, l’attitudine a mescolarsi con l’umano, non ha fatto che crescere, M20 è diventato pericoloso per se stesso e per gli altri nel momento in cui ha iniziato a perdere la naturale diffidenza nei confronti degli umani e dei posti dove vivono. La confidenza è stata frutto del suo carattere e anche di mancanza di formazione e consapevolezza, inciviltà, ingenuità, disorganizzazione: troppo accesso al cibo, regalato o abbandonato, e da lì sono venute incursioni, foto e video, su YouTube ne trovi quanti ne vuoi, poi una cattura temporanea lo scorso inverno, la liberazione, fino all’incidente.

La vicinanza è un problema di convivenza ed è causa di conflitto: l’altra faccia della giusta distanza che non c’è è che allevatori e agricoltori gli orsi (e lupi, cervi, cinghiali) hanno bisogno di tenerli lontani. L’ultimo orso marsicano ucciso da un umano in Abruzzo fu proprio per mano di un allevatore a Pettorano, nel 2014. Da allora è stato fatto tanto per rendere le attività economiche a prova di orso, smart bear community sul modello importato dal Canada (dove spazi e problemi e anche orsi sono molto diversi), per smorzare il conflitto interspecie tra allevatore e animale, ma non abbastanza per rendere la vita dell’orso a prova di comunità umane.

M20 è morto per un problema infrastrutturale, l’areale degli orsi del Parco d’Abruzzo Lazio e Molise è attraversato da due autostrade e da diverse statali, dove i limiti di velocità vengono regolarmente superati e la messa in sicurezza è incompleta e spesso affidata al lavoro di organizzazioni locali, come Salviamo l’orso, che da anni mette segnaletica visiva e acustica per avvertire auto e moto che quello è un territorio di orsi. Come abbiamo visto, non è bastato, la missione di mettere in sicurezza centinaia di chilometri è troppo grande per una piccola organizzazione, gli incidenti oggi sono la prima causa di morte accidentale per gli orsi marsicani, anche perché sono decenni che si chiede invano la costruzione di corridoi ecologici.

Su una popolazione di cinquanta esemplari perdere un maschio adulto è una tragedia, è un pezzo di margine in meno verso la possibilità dell’estinzione. La vita di M20 è stata un assedio. La curiosità di smartphone, macchine fotografiche, cibo per attirarlo e inseguimenti in auto è stata un assedio. L’industria turistica dell’orso come prodotto tipico regionale è stata un assedio. Ma anche l’indifferenza istituzionale si è tradotta in un assedio fisico: le infrastrutture stradali, quelle sciistiche e quelle del gas sono cresciute parallelamente al nostro interesse per le avventure di M20, gli abbiamo costruito intorno un immaginario visivo senza responsabilità. Bello l’orso, a patto che si conceda senza chiedere nulla in cambio.

L’hub del gas, col raddoppio della linea adriatica e del gasdotto da Sulmona a Minerbio, sarebbe (anche) l’inizio della fine dell’orso marsicano, e almeno è giusto saperlo, con trasparenza, cosa mettiamo sul piatto e cosa decidiamo di sacrificare. A M20 abbiamo mentito due volte: quando gli abbiamo fatto credere che sarebbe stato nel suo interesse avvicinarsi verso gli umani, per mangiare dormire e giocare. E quando abbiamo costruito un ambiente umano sempre più pericoloso per la sua vita. La sua morte era imprevista ma non imprevedibile, era scritta nelle sue traiettorie, nei suoi percorsi e nel nostro assedio. Gli orsi marsicani non sono perduti, ma sono – oltre a un simbolo, un gadget animale, un prodotto e un pericolo – anche una responsabilità con cui dovremmo venire a patti. Vale per l’orso perché vale per ogni dimensione ecologica della nostra società.

Il futuro desiderabile di GKN

Questa settimana ho visitato l’ex fabbrica GKN occupata, a Campi Bisenzio, in Toscana. Avevo ascoltato il portavoce di questa lotta, Dario Salvetti, al Climate Social Camp di Torino, a luglio, il suo racconto mi aveva colpito e lasciato il desiderio di visitare il campo base di questa convergenza tra sindacato e ambientalismo che è l’ex GKN oggi, e così ho passato un po’ di tempo con lui in fabbrica.

La situazione è complessa, la resistenza per salvare il lavoro e la fabbrica inserendo il tutto nel contesto della transizione ecologica è a rischio, passata l’onda di attenzione per quello che succede nello stabilimento rimane la realtà di centinaia di persone da mesi senza stipendi. «Non siamo licenziati, non siamo cassaintegrati, non siamo stipendiati, siamo in un limbo, è in corso una guerra di nervi per piegarci», mi ha spiegato.

Il logoramento è nella frizione tra la nuova proprietà, che doveva rilanciare la fabbrica per rivenderla e non ci sta riuscendo, e il collettivo, che ha fatto di tutto per offrire alternative che siano contemporanee, costruzione di pezzi di presente e di futuro: convertire la produzione della fabbrica per fare il semiasse degli autobus elettrici per il trasporto pubblico, o inserirla nella nuova filiera delle rinnovabili che si sta provando a creare in Italia, o ancora il nuovo prototipo di cargo-bike. La fabbrica intanto è ferma, le linee stanno invecchiando e nessuno sa in che condizioni possano ripartire, mentre le componenti prodotte prima della chiusura sono diventate rottami da smaltire, cumuli che sono l’immagine dell’assenza di un vero disegno industriale per l’Italia di oggi.

La transizione ecologica sarà un dosaggio di iniziative che arrivano dall’alto (Green Deal, Pnrr, leggi, regolamenti, tasse, grandi investimenti) e di iniziative costruite dal basso. Non può esistere una sola traiettoria, una transizione che viene solo dal basso non avrebbe gambe e fiato, una transizione imposta solo dall’alto non avrebbe il consenso necessario per essere brusca e radicale come richiede la scienza. Per questo l’esperimento del collettivo GNK è così importante. È un tentativo di immaginare – insieme ai vari gruppi di consulenza solidale al lavoro da mesi insieme agli operai – una fabbrica pubblica per un futuro decarbonizzato.

«Il lavoro che dovrebbero fare gli esecutori di Pnrr e Green Deal in realtà lo stiamo facendo noi, lo stiamo offrendo al territorio, allo stato e all’Italia», dice Salvetti. Un’offerta che non ha trovato interlocutori («Qui hanno fatto solo passerella, il ministro dello Sviluppo economico del governo Meloni non so nemmeno che faccia abbia») e che si è trasformata in una guerra sindacale di frizione. L’altra novità decisiva è proprio nella parola chiave: «convergenza», letteralmente «avere una direzione comune», tra il collettivo e i movimenti per il clima. «Al sindacato oggi serve una radicalità che si può solo imparare da gruppi come Fridays for future», e da qui è arrivato il percorso comune, fatto di manifestazioni e progettazione congiunte, ognuno con i propri strumenti: Firenze, Napoli, Bologna. «Fusione di competenze e lotte», GKN ha radicato il movimento per il clima nella realtà, il movimento per il clima ha dato a GKN un orizzonte oltre il destino della fabbrica: «per questo, per altro e per tutto», come dice lo striscione manifesto appeso fuori dallo stabilimento.

Oggi è difficile prevedere quale possa essere l’esito di questa occupazione: «Tre mesi senza stipendio ci hanno tolto la capacità di filosofeggiare. Questa lotta deve arrivare fino in fondo, vincere o perdere. Perdere e spiegare perché ha perso, o vincere e spiegare in cosa consiste la vittoria», ha concluso Salvetti prima che ci salutassimo. «Siamo troppo forti per perdere e troppo deboli per vincere. Oggi la vittoria è tenere aperta una prospettiva. Conta la tramandabilità di quello che è successo, non bruciare questo percorso, passare un testimone». Comunque vada, a Campi Bisenzio è in atto un pezzo di futuro, immaginazione politica per un futuro industriale desiderabile.

Il contrattacco dell’aviazione su bando dei voli brevi

La messa al bando in Francia dei voli a corto raggio ha superato – con riserva – il processo di valutazione della Commissione europea di fine 2022, ma presto dovrà affrontare il contrattacco delle organizzazioni che riuniscono le compagnie aeree e gli aeroporti, pronti a dare battaglia per contrastare una delle più note e discusse misure di transizione del trasporto aereo effettuate in Europa.

Secondo la Commissione europea la Francia può bandire oggi solo tre rotte, le uniche che possono efficacemente essere sostituite da un trasporto su rotaia inferiore a due ore e mezza (che rende possibile quindi in modo agevole la trasferta in giornata): i voli da Parigi Orly a Bordeaux, Nantes e Lione. Altre tre rotte potrebbero essere aggiunte se dovessero migliorare le connessioni ad alta velocità, quelle da Parigi Charles de Gaulle a Lione e Rennes e quelle tra Lione e Marsiglia. Due sono state bocciate: da Parigi Charles de Gaulle a Bordeaux e Nantes. Il bando può durare tre anni, durante i quali dovrà essere avviato un processo revisione per valutarne impatti ed effetti. Questo lo stato dell’arte.

Secondo Reuters, l’industria dell’aviazione si sta preparando a reagire contro il bando dei voli brevi in Francia, invocando addirittura il principio che garantisce la libertà di movimento dei cittadini all’interno dell’Unione europea. Il ragionamento è che la chiusura delle tre rotte parigine rappresenti un precedente, e che questo precedente potrebbe portare a violare questa libertà. In questa fase la strategia è di esercitare pressione informale a livello europeo – quindi principalmente azione di lobby – più che portare avanti una sfida legale vera e propria alla legge francese sul piano europeo. Meglio insomma agire dietro le quinte che in piena vista.

Willie Walsh, capo di Scara, un gruppo che riunisce le compagnie aeree francesi, in una conferenza sull’economia dell’aviazione a Dublino ha dichiarato: «Imbarazzeremo la gente a forza di dati contro questo bando». I dati sono questi: un bando di tutti i voli a corto raggio in Europa farebbe risparmiare il 4 per cento delle emissioni del continente per quanto riguarda il traffico aereo. I voli brevi sono un terzo di quelli europei. Secondo Uaf, Union des aéroports français, le rotte messe al bando in Francia rappresentano solo lo 0,23 per cento del trasporto aereo francese, lo 0,04 per cento delle emissioni del settore trasporti, numeri sostanzialmente confermati da Transport&Environment. Su queste basi e partendo da questi dati, Uaf ha intenzione di fare ricorso al Conseil d’État, il Consiglio di Stato francese già questo mese.

Secondo le organizzazioni ambientaliste però questi numeri provano la verità opposta, che il bando ai voli brevi deciso dalla Francia è ancora troppo debole e funzionerebbe meglio se fosse esteso, se fosse costruito su basi più ambiziose, riprendendo lo spirito originario della proposta, abolire i voli su tratte che possono essere percorse in treno non in due ore e mezza (come ora) ma in quattro o addirittura in sei ore, come chiesto lo scorso ottobre da Greenpeace su base europea, una misura che farebbe risparmiare 3,5 milioni di tonnellate di CO2 all’anno. «Quello francese oggi è un bando ipocrita, che è stato fatto per non avere nessun impatto reale, c’era una spinta per ridurre l’ambizione», ha spiegato Sarah Fayolle, esperta di trasporti per Greenpeace Francia.

Sono diversi i governi europei che stanno facendo valutazioni in questa direzione: la Danimarca abolirà tutti i voli interni a partire dal 2030, a meno che non si trovi la soluzione tecnologica per farli decollare con carburanti a zero emissioni. Da un anno il governo spagnolo discute di un bando, da implementare però su tempi molto più lunghi: si parla di trent’anni. La stessa discussione è in corso in Germania, in campagna elettorale la leader dei Verdi Annalena Baerbock aveva dichiarato che in futuro i voli a corto raggio non dovrebbero proprio esistere. In Italia c’è un documento in valutazione ministeriale, secondo le direttive della Commissione europea sarebbero tagliate rotte già chiuse o in declino, come quelle che collegano Roma con Bologna, Firenze, Pisa e Napoli. La partita più importante su questa misura su scala europea si giocherà però sul destino della decisione francese, e su come reggerà al contrattacco delle organizzazioni di settore.

Anche per questa settimana è tutto, parliamoci, se hai voglia di scrivermi, l’indirizzo è ferdinando.cotugno@gmail.com. Per parlare con Domani, invece, lettori@editorialedomani.it. A presto!

Ferdinando Cotugno

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