Ciao! In questa edizione di Areale leggerai un po’ di numeri che possono spaventarti, legittimamente, soprattutto se ti tocca assorbirli tutti insieme, ed è per questo motivo che oggi inizio parlando della speranza come atto politico per spogliarci del privilegio e di come la disperazione sia un lusso e un privilegio che non possiamo permetterci. I dati di Lancet, Onu, Unep sono stati diffusi questa settimana perché il 6 novembre inizia Cop27, le due settimane più importanti dell’anno per il clima, quindi un reality check prima di partire è sano e necessario.

La disperazione e la resa come privilegio

C’è un tipo di conversazione che mi capita di avere, ciclicamente. Se dovessi azzardare una statistica: maschi, borghesia urbana, una ragionevole stabilità esistenziale ed economica. Il punto di vista che mi arriva è: «Siamo condannati, siamo un virus, dobbiamo estinguerci, non c’è più niente da fare, ormai». Lo sconforto, la rabbia, la paura sono emozioni legittime, siamo costretti a navigarle e a prenderci le misure ogni giorno. Ma questo format della condanna-già-scritta è qualcosa di diverso, è allo stesso tempo autocompiacimento e autoassoluzione, un modo per rimanere chiusi dentro casa mentre il mondo si allaga.

Come ha scritto Rebecca Solnit: «La disperazione, il cinismo, il pessimismo, e anche l’ottimismo, sono nemici della speranza, e quello che hanno in comune è una serie di convinzioni su quello che accadrà, false certezze che diventano una scusa per l’inazione».

Il punto è esattamente questo. La resa comoda di chi dice: «È tutto perduto», e il cinismo di chi continua ad alimentare il vecchio mondo dei combustibili fossili hanno questo in comune: sono un ottimo modo per rimanere seduti e dire (e dirsi) «non dobbiamo fare niente». Solo il privilegio – economico, sociale, di genere, di provenienza geografica – può permetterti di stare comodo ad aspettare gli eventi, soltanto una vita con pareti robuste e impermeabili ti concede di valutare questa opzione. Tutti gli altri non ce l’hanno, e devono combattere.

C’è qualcosa di comodo nel dire: «Siamo un virus e dobbiamo toglierci di mezzo, non c’è alternativa», ti risparmia la fatica del dover mettere in discussione il tuo modo di vivere, il modello di sviluppo al quale attinge, è una forma di libertà individualista ed egoista. La disperazione, questo tipo di disperazione, può essere riposante, ma non abbiamo tempo per riposarci.

Scrive sempre Solnit: «Per quelli di noi che conducono vite già facili arrendersi significa renderle ancora più facili, almeno in termini di sforzi. Per quelli direttamente impattati, significa invece essere travolti dalla devastazione. Rinunciare a combattere anche per conto loro non è solidarietà. E dubito davvero che chiunque si trovi in una situazione di vera disperazione possa trarre conforto dall’idea che qualcuno che si trova molto più al sicuro possa essere arrabbiato e arrendersi per conto loro».

Siamo le ultime persone al mondo che hanno il diritto di arrendersi.
Non possiamo, non dopo aver partecipato alle cause del disastro.
La paura è comprensibile. La disperazione compiaciuta invece è una forma di piacere perverso che sfocia nel sabotaggio. Non hai davvero compreso la crisi climatica se pensi che la si possa attendere in salotto organizzandoti un’ultima cena, o una lunga serie di ultime cene.
Non funziona così.

Reality check/1: in pochi stanno facendo i compiti a casa

Il primo allarme arriva da Unfccc, l’organismo Onu che si occupa della convenzione quadro sui cambiamenti climatici (e che organizza le Cop): soltanto 26 paesi su 193 hanno mantenuto una delle promesse decisive della Cop26 di Glasgow, cioè aggiornare i propri «nationally determined contribution» (ndc). Gli ndc sono un pilastro dell’accordo di Parigi, sono gli impegni che ogni paese prende, ed è tenuto ad aggiornare ciclicamente, sulle proprie politiche di decarbonizzazione a breve e medio termine. Sono i compiti a casa.

L’accordo di Parigi stabilisce infatti un meccanismo, un’architettura generale, poi sono gli stati a metterci i contenuti: come facciamo davvero la transizione nel nostro contesto? Gli ndc sono i contenuti, la materia stessa di cui è fatto l’approccio climatico di ogni paese.

Da Cop26 eravamo usciti con la consapevolezza di essere nei guai e la necessità di aggiornarli rapidamente, perché gli impegni presi fino a quel momento erano insufficienti per il problema che abbiamo di fronte (altro che zuppa o purè). I delegati sono tornati a casa promettendo di fare la propria parte, ora scopriamo che non l’hanno fatta, soprattutto non i grandi emettitori. Non ci sono gli Stati Uniti, non c’è l’Italia, non c’è nessun paese dell’Unione europea.

Aggiornare l’ndc è per altro il livello minimo, perché poi bisogna mantenerle quelle promesse. A oggi il ritardo, con una Cop che incombe, è la prova di quanto si stia ancora prendendo troppo poco sul serio il clima. Secondo i modelli di Unfccc, con gli attuali impegni siamo nella direzione di riscaldare il mondo in una forchetta che sta tra 2,1°C e 2,9°C (Unep, vedremo sotto, ha dati diversi ma compatibili). Sopra i 2°C, soglia massima dell’accordo di Parigi, vivremmo già in una Terra inabitabile.

E correre è necessario: la settimana scorsa avevamo parlato del rallentamento delle emissioni del settore energia con i dati dell’Agenzia internazionale dell’energia, ed era una notizia che andava accolta bene, ma il disegno più ampio rimane che con gli impegni attuali le emissioni aumenterebbero del 10,6 per cento al 2030, se confrontate con i livelli del 2010. Meglio di come eravamo messi l’anno scorso (andavamo verso un aumento del 13,7 per cento), male rispetto a dove dovremmo essere: - 45 per cento al 2030, questo ci dice la scienza per tenerci aperta la finestra per evitare il peggio della crisi climatica. Le cose stanno accadendo, ma è ancora troppo poco e troppo piano.

Reality check/2: questa è (anche) un’emergenza sanitaria

Questa settimana è uscito anche il settimo Lancet countdown Report, il tema è il rapporto tra crisi climatica e salute delle persone, il messaggio è uno e uno solo: questa è anche un’emergenza sanitaria. «La salute è alla mercé dei combustibili fossili». Il riscaldamento globale avviene anche nei nostri corpi, che sono la prima linea del disastro.

Lo studio di Lancet raggruppa il lavoro di 99 esperti da 51 istituzioni, tra cui Oms e World meteorological organization (Wmo), è la fotografia più autorevole sui risvolti sanitari della crisi climatica. È un tassello decisivo della conversazione della Cop27, che sarà sostanzialmente una conversazione sulle disuguaglianze.

I dati globali sono spaventosi. I bambini di meno di un anno hanno già sperimentato 600 milioni di giorni in più di ondate di calore, se hai avuto un figlio o una figlia nell’ultimo anno, nel suo pacchetto di accesso all’umanità ci sono 4,4 giorni di caldo estremo in più ogni anno. Il caldo uccide: le morti collegate alle ondate di calore sono aumentate del 68 per cento tra il 2017 e il 2021, se confrontate al periodo 2000-2004. Sono aumentati anche i giorni in cui l’umanità è più esposta a incendi estremi: +61 per cento. Il caldo ha anche un impatto sull’economia: nel 2021 sono state perse 470 miliardi di ore lavoro perché, semplicemente, non si poteva lavorare, con un impatto sproporzionato sui paesi più vulnerabili.

L’insicurezza alimentare moderata e acuta ha coinvolto 98 milioni di persone in più a causa del riscaldamento globale, quasi 100 milioni di persone che non avrebbero fame se non fosse per la crisi climatica. La superficie di terre emerse soggette a siccità è aumentata del 29 per cento nell’ultimo decennio, se confrontiamo i dati con gli anni Cinquanta. Le malattie infettive stanno diventando più pericolose e trasmissibili, soprattutto malaria (+32,1 per cento nelle Americhe, +14,9 per cento in Africa) e dengue (+12 per cento globalmente).

Non è solo un problema lontano. Il Lancet countdown ha un opportuno focus sull’Europa, sono dati ai quali dobbiamo fare molta attenzione. «C’è stato un aumento allarmante nei pericoli per la salute legati al clima in Europa», scrive Lancet. Tra il primo e il secondo decennio di questo secolo l’esposizione alle ondate di calore nel nostro continente è aumentata del 57 per cento, con picchi del 250 per cento. La mortalità per ondate di calore è aumentata di 15 morti per milione di abitanti in due decenni.

Il nostro continente sta iniziando ad avere le condizioni climatiche ideali per malattie come dengue, malaria, virus del Nilo occidentale. Gli alberi che causano più allergie iniziano a fiorire con 10-20 giorni di anticipo, sulle Alpi, nei Balcani e in Scandinavia addirittura con un mese di anticipo. L’inquinamento causato da combustibili fossili ha fatto 117mila morti nel 2020. Persone uccise da quello che respirano quando escono di casa.

Reality check/3: Mind the (emission) gap

Terzo rapporto decisivo di questi giorni, l’Emissions gap Report 2022 dell’Unep. Gap come distanza, una distanza che ormai è una voragine, tra le promesse della politica e l’atmosfera satura di gas serra. Il messaggio chiave di questo rapporto è uno ed è brutale: con le politiche e gli impegni dei governi, oggi non esiste una strada credibile per contenere l’aumento delle temperature entro l’ultima soglia considerata sostenibile dalla scienza, +1,5° C rispetto all’era pre-industriale, e anche che quella massima dell’accordo di Parigi, +2°C, ci sta scivolando via.

In copertina al rapporto Unep sul gap tra emissioni e promesse c’è una finestra con una scala mezza rotta per arrivarci. È la metafora visiva scelta per raccontare il punto in cui ci troviamo, in fuga da una crisi e con chance reali ma precarie di farcela. I numeri: con le politiche attuali la traiettoria di aumento della temperatura porta a uno spaventoso +2,8°C. Con gli impegni dettagliati ma non ancora attuati arriveremmo a +2,4°C. Lo scenario diventa meno cupo se consideriamo gli impegni a lunghissimo termine (tra 2050 e 2070). Rispettandoli arriveremmo a +1,8°. Ma questi ultimi sono degli auspici più che impegni veri e propri, annunciati senza dettagli concreti su come arrivarci.

La realtà che ci racconta l’Onu è quindi che al momento la destinazione climatica dell’umanità è un aumento delle temperature tra 2,4°C e 2,8°C. È importante capire cosa significano questi numeri. Ce lo spiega Giacomo Grassi, uno degli autori dello studio, senior scientific officer al Centro di ricerca comune della Commissione europea: «Quando parliamo di un massimo di 2°C previsto dall’accordo di Parigi, parliamo di temperature medie su tutta la Terra, compresi gli oceani, che si riscaldano meno in fretta. Sulle terre emerse siamo già tra 1,7°C e 1,8°C. Un aumento superiore a 2°C delle temperature medie corrisponderebbe a +4°C, +5°C nelle aree più sensibili delle terre emerse, come l’Italia. Concretamente vuol dire sperimentare un raddoppio del riscaldamento che stiamo già vivendo in questi anni». Ogni frazione di grado in più ci porta in un mondo più pericoloso, più vulnerabile a siccità, ondate di calore, eventi estremi che si stanno verificando già oggi in condizioni che tra un paio di generazioni rimpiangeremo come freschissime.

Servono cambiamenti drastici a ogni livello: la fornitura di energia elettrica, l’industria, i trasporti, gli edifici, il cibo, i sistemi finanziari. Un concetto chiave, che non si può mai sbagliare a ricordare, è che ogni singola frazione di grado conta. Ogni frazione è un salto verso l’ignoto e l’indesiderabile. Ci sono settori più avanti e altri più indietro: la trasformazione dell’energia, dei trasporti e degli edifici sta avvenendo, come ci dicono i dati Iea, ma è troppo lenta. Deve andare più veloce.

L’elettricità, grazie alle fonti rinnovabili, è il settore più avanzato, i costi di solare ed eolico stanno crollando, ma ci sono ostacoli e resistenze nello status quo. Per gli edifici la tecnologia esiste, ma deve essere applicata su larga scala. Industria e trasporti (soprattutto quelli pesanti): serve ancora ricerca tecnologica. E poi l’industria del cibo, della quale si parla ancora troppo poco in termini di mitigazione, visto che parliamo di un terzo delle emissioni. Secondo Unep servono cambi nelle nostre diete, un’immediata riduzione degli sprechi, la decarbonizzazione della catena del valore e dei trasporti. Se l’industria del cibo rimane quella di oggi le sue emissioni raddoppieranno da qui a metà secolo.

Le risorse finanziarie da mettere in campo: servono tra i 4 e i 6 triliardi di dollari ogni anno. Per salvare la Terra è necessario tra l’1,5 e il 2 per cento di tutte le risorse finanziarie globali. E devono essere indirizzate, queste risorse: servono tassonomie più efficienti, serve un prezzo globale per il carbonio, bisogna mobilitare le banche centrali e creare club di paesi in cooperazione tra di loro per trasferire fondi e tecnologia, secondo modelli già in parte sperimentati dopo Cop26 (come il caso Sudafrica).

Pochi giorni fa l’Agenzia internazionale dell’energia aveva dato un barlume di ottimismo: nel 2022 le emissioni hanno iniziato a crescere meno del previsto. È la prova che le soluzioni – rinnovabili ed elettrificazione – funzionano. Serve solo attuarle in modo molto più drastico, rapido e massiccio.

«Non abbiamo più la possibilità di aggiustamenti incrementali», ha detto Inger Andersen, direttrice dell’Unep. «Ora serve modificare il sistema dalle radici». Il tempo a disposizione inizia a essere poco: per tenere vive le speranze di lasciare una Terra vivibile ai bambini nati quest’anno le emissioni devono dimezzarsi in otto anni. «L’Europa, da questo punto di vista, sta facendo la sua parte», commenta Grassi.

Questi dati arrivano nei primi giorni di un governo che potenzialmente gestirà per conto dell’Italia cinque degli otto anni decisivi. Nel suo discorso Meloni ha mostrato di vedere l’energia in termini di costi e approvvigionamenti (sfide reali e fondamentali). La comunità scientifica affida a tutti, quindi anche al governo italiano, il mandato politico e morale di considerarne anche le conseguenze per emissioni e clima. Perché presto il tempo sarà scaduto.

Per questa settimana è tutto. Se hai domande, dubbi, bisogno di parlare, scrivimi a: ferdinando.cotugno@gmail.com. Per parlare con Domani, lettori@editorialedomani.it. A presto!

Ferdinando Cotugno

© Riproduzione riservata