Con La dismissione Ermanno Rea ha raccontato la storia della chiusura dell’Ilva di Bagnoli, a Napoli, una vicenda che mi è cara e vicina, il mio nonno paterno lavorava lì, operaio addetto alle gru.

Il protagonista del romanzo, Vincenzo Buonocore, entra anche lui all’Ilva come operaio, negli anni Novanta diventa l’uomo della dismissione, voce narrante per conto di Rea e smantellatore capo della fabbrica, che muore e chiude il sogno industriale di Napoli.

Spiega Buonocore che: «L’arte di smontare è molto più complessa del suo rovescio, nel senso che quel rovescio, da parte di chi smonta, deve essere costantemente presupposto. Se si smonta, lo si fa perché si vuole poi subito rimontare ciò che è stato smontato: senza problemi, come in presenza di un kit nuovo di zecca. Questo significa che nell’atto di smontare deve essere presente l’atto omologo contrario, deve essere presente l’ansia e la gioia di chi edifica e non, Dio ne scampi, la rabbia e l’angoscia di chi smantella».

Questa utopia della dismissione fatta con la cura cauta di chi deve smontare il mondo e rimontarlo ci mostra qualcosa di più grande dell’immensa acciaieria morente di Bagnoli. La transizione ecologica deve provare a essere esattamente questa cosa qui, equilibrio che a Napoli non è riuscito, smontare e rimontare nello stesso gesto, «distruzione creatrice», smantellare pezzi di mondo con la prospettiva che tutto sarà ricostruito, in modo diverso, in un altrove diverso, sulla base di un noi diverso.

La dismissione è anche il racconto dell’invenzione di un processo. Nessuno costruisce fabbriche con l’idea che debbano essere smontate e smontabili, nessuno ha costruito questo mondo da 422 parti di CO2 per milione con l’idea che andasse dismesso. La transizione è il manuale di istruzioni di se stessa, la faticosa costruzione di un metodo per cambiare la società senza distruggerla.
Questo è il numero 113 di Areale, l’introduzione è stata lunga, buon sabato, iniziamo.

Deviare il sole e altre tecno fantasie

Il tecno ottimismo è l’idea che una soluzione tecnologica ci salverà da noi stessi e dalle crisi che creiamo. Capitale, ingegno e ricerca: secondo un tecno ottimista non serve altro. La geoingegneria è una delle idee manifesto dei tecno ottimisti, è il loro sogno lucido (lì dove il nucleare è la loro battaglia quotidiana).

Decodifica necessaria: geoingegneria è l’insieme di soluzioni per deviare i raggi del Sole attraverso particelle di aerosol spruzzate nell’atmosfera per mezzo di aerei allo scopo di rinfrescare un pianeta che si riscalda (oltre a essere il motivo per cui un treno è costretto a viaggiare all’infinito in una Terra congelata in Snowpiercer, ma è un’altra storia).

È comunque uno di quei concetti che – di solito senza gran successo, come il metaverso – migrano nelle policy e nei piani industriali direttamente dagli scaffali della fantascienza.

Mi ha colpito la recente lettera di un gruppo di scienziati, guidati da James Hansen, che chiedono di rivalutare seriamente l’idea della geoingegneria. In sostanza dicono che siamo ormai vicini al punto di non ritorno, che sarà «sempre più improbabile» rimanere sotto la soglia di aumento di temperatura di 2°C, e che quindi dobbiamo valutare tutto, anche deviare la luce del Sole.

Hansen è uno degli scienziati più credibili al mondo, la sua audizione al Senato Usa nel 1988 è il primo grande punto di contatto tra scienza del clima e politica. L’idea di fondo di questa lettera è: «Dal momento che le decisioni su implementare o non implementare la SRM saranno probabilmente prese in considerazione nel prossimo decennio o due, una robusta valutazione scientifica deve essere fatta più rapidamente possibile».

(SRM vuol dire solar radiation management, il nome tecnico e presentabile della geoingegneria). Tra gli aspetti da valutare non ci sono solo quelli tecnologici (si può davvero fare?) ma anche quelli politici, legali ed etici (è davvero giusto andare lungo questa strada?).

Per la geoingegneria questa lettera è un’apertura di credito enorme. Nel testo c’è una traccia di pessimismo, quasi di disperazione, il prendere in considerazione l’imponderabile, perché nient’altro sta funzionando, la fine del decennio si avvicina e nessuna «rapida trasformazione della società» è ancora in atto.

Le particelle di aerosol in grado di bloccare i raggi del Sole potrebbero in effetti (per quel poco che ne sappiamo) raffreddare la temperatura sulla Terra di 1°C, o anche più. È lo stesso meccanismo che segue le grandi eruzioni vulcaniche. Il problema è che si tratta di un effetto passeggero, la geoingegneria non è un proiettile che si può usare una volta sola, è un proiettile che va usato in modo permanente.

E questo ci porta in un territorio completamente ignoto, sia di costi che di governance: chi ha l’autorità per decidere in modo responsabile e condiviso su un’alterazione di questo tipo del funzionamento della Terra?

Non c’è solo il gruppo di scienziati guidati da Hansen. Il governo degli Stati Uniti sta finanziando ricerche. L’Onu ha chiesto ulteriori studi, in un rapporto dell’Unep c’è scritto che la geoingegneria sembra essere «l’unico metodo noto per raffreddare la Terra nel giro di pochi anni». Il freno di emergenza, insomma. Il punto è che non sappiamo niente delle conseguenze di un’applicazione di questa tecnologia sulla scala richiesta, compresa la risposta alla domanda sul «termination shock»: cosa succede al clima se all’improvviso finiscono i soldi o le condizioni politiche e bisogna fermare l’esperimento di colpo?

È per questo motivo che c’è un altro fronte, altrettanto credibile, di scienziati che chiedono un bando totale alla geoingegneria. In fondo c’è solo una limitata quota di ignoto che ci possiamo permettere. Deviare la luce del Sole solo perché non riusciamo a cambiare il nostro sistema energetico e di produzione è probabilmente oltre quella quota. La grande domanda che la prospettiva della geoingegneria ci pone, dopo tutto, è questa: fin dove siamo disposti a spingerci per tenere in vita il nostro attuale sistema di produzione e consumo?

Fino a sparare aerosol contro il Sole tutti i giorni dell’anno per sempre?

Sarà una delle grandi conversazioni politiche globali della seconda parte del decennio.

Due aggiunte alle geografia del litio

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Due notizie recenti dal fronte del litio, uno dei più delicati della transizione energetica: senza litio a sufficienza non ci sono batterie, senza batterie non c’è elettrificazione, senza elettrificazione non c’è transizione. La geografia del litio è la geografia del futuro (anche se prendono piede e arrivano i primi prototipi di batterie al sodio).

Finora (ne avevo parlato qui) questa geografia era un esteso triangolo tra America Latina (Cile, Argentina e potenzialmente Bolivia), Australia e Cina. La notizia è che la mappa del litio si è accesa in due punti nuovi, perché sono state appena scoperte enormi riserve di questo metallo critico in due paesi grandi e difficili: Iran e India.

Il governo iraniano ha comunicato la settimana scorsa di aver scoperto un immenso giacimento di litio nella provincia di Hamedan, nell’ovest del paese. Le stime: 8,5 milioni di tonnellate. È un numero da prendere con cautela, sia per la fonte sia perché non conta solo di quanto litio disponi, ma anche la tua la capacità di estrarlo.

Il caso Bolivia è emblematico, dal momento che hanno le riserve più grandi al mondo ma nessuna capacità industriale per produrlo. Quella iraniana sarebbe comunque la più grande riserva al mondo fuori dall’America Latina.

Secondo i dati del US Geological Survey, le riserve globali sono di 89 milioni di tonnellate. L’Iran oggi potrebbe avere un decimo del metallo chiave della transizione. Una scoperta che cambia la partita.

Un’altra è stata quella annunciata con altrettanta enfasi dall’India nelle regioni di Jammu e Kashmir (altra area geopoliticamente delicatissima, al confine col Pakistan, sempre sull’orlo di una guerra tra potenze nucleari): secondo il Geological Survey of India ci sono 5,9 milioni di tonnellate di litio qui, tra Islamabad e le montagne incantante del Ladakh. Nuove scoperte portano nuove opportunità, anche di abbassare quelle stime di un aumento dei costi del litio del 500 per cento, come previsto da McKinsey, ma anche nuovi rischi ambientali e politici. Vedremo.

L’angolo cieco del cibo

Anche se le emissioni di gas serra dal sistema energetico si azzerassero oggi, sarebbero sufficienti quelle della produzione alimentare per farci superare la soglia di controllo di un aumento di temperatura di 1.5°C rispetto all’èra pre-industriale. Inoltre: le emissioni della produzione e dell’uso di fertilizzanti superano la somma di quelle dello shipping via mare e dell’aviazione globali.

Sono i risultati di due diverse ricerche pubblicate di recente, e dimostrano come oggi, in mondo dominato dal discorso sull’energia, il cibo sia il grande angolo cieco della crisi climatica. Un paradosso, aggravato dal fatto che di sistemi alimentari  non si parla nemmeno nelle Cop, le conferenze delle parti dell’Onu per combattere i cambiamenti climatici. Altro segnale, l’accordo di Parigi prevede che ogni paese compili autonomamente i propri Ndc, i piani nazionali di riduzione delle emissioni: in solo un terzo degli Ndc globali si parla di sistemi alimentari.

La prima ricerca è stata pubblicata su Nature Climate Change e ha calcolato che il nostro modo di produrre e consumare cibo rischia di costare al mondo – da solo – un ulteriore aumento di temperatura di +0.7°C in uno scenario di crescita di popolazione che rallenta, e di +0.9°C in uno scenario di crescita di popolazione che non rallenta, da sommare allo +1.1°C attuale già raggiunto. In entrambi i casi, i soli sistemi alimentari ci porterebbero in una zona di grande pericolo, tra +1.5°C e +2°C, senza considerare tutto il resto (energia, trasporti, eccetera).

Il problema è che del resto almeno si parla tanto, mentre di cibo in chiave climatica ancora troppo poco. Il 75 per cento di queste emissioni alimentari derivano dai prodotti che emettono più metano, il gas serra più potente, in particolare dagli allevamenti e, in misura minore, dalle risaie. La metà di questi rischi di aumento di temperature potrebbero essere tagliati riducendo il consumo di carne nei paesi più industrializzati sotto i livelli di guardia per la salute consigliati dalla Harvard Medical School.

Il problema è che la traiettoria attuale sembra essere quella opposta: il consumo di carne rischia di aumentare del 70 per cento entro metà secolo. «La nostra analisi dimostra chiaramente che i regimi alimentari attuali e i metodi di produzione non sono compatibili con uno scenario di sicurezza climatica», dicono gli autori dello studio.

La ricerca sull’impatto dei fertilizzanti è stata invece pubblicata su Nature Food ed è il più grande studio mai condotto sul loro contributo all’aumento globale delle temperature. Finora le analisi di impatto avevano tagliato questo settore in due, misurando solo i danni causati dalla produzione di fertilizzanti o solo quelli causati dal loro utilizzo. Questo studio ha invece per la prima volta usato una metrica in grado di coprire tutto il loro ciclo di vita, dalla produzione all’immissione negli ecosistemi, dalla fabbrica al campo.

È la prima volta che vediamo una fotografia così ampia ed è il momento in cui ci rendiamo conto che, dal punto di vista delle emissioni di gas serra, la combinazione di tutti gli aerei in volo e tutte le navi cargo in mare sono al di sotto dei danni causati dalla produzione e dell’uso di fertilizzanti. I numeri sono impressionanti.

Parliamo di 2.6 gigatonnellate di carbonio nell’atmosfera ogni anno: di queste circa la metà – 1,31 gigatonnellate – sono fertilizzanti chimici. È il 5 per cento di tutte le emissioni globali, più di tutta la produzione di materie plastiche. Il 2 per cento di tutta l’energia del mondo – prevalentemente da combustibili fossili – serve ad alimentare questi processi. Se spacchettiamo questa montagna di emissioni, vediamo che un terzo vengono dalla fase di produzione e due terzi dalla fase di applicazione agricola, principalmente dopo la loro interazione col suolo, che rilascia nell’atmosfera protossido di azoto, un altro gas a effetto serra.

Secondo la ricerca, più dell’80 per cento di queste emissioni potrebbero essere tagliate rendendo i processi più efficienti, attraverso una serie di misure di mitigazione che sarebbero teoricamente applicabili da subito e che permetterebbero di dimezzare la domanda di fertilizzanti sintetici della metà entro metà secolo. Un altro passaggio decisivo, che però richiede innovazione tecnologica soprattutto sul fronte dell’idrogeno, sarebbe quello di alimentare la produzione di fertilizzanti da fonti rinnovabili e non da fonti fossili.

Un’altra neve è necessaria

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Ad Aprica, una località sciistica in provincia di Sondrio (1.180 metri di altitudine), la temperatura media è aumentata di un incredibile 3.9°C rispetto al 1961. Quasi il quadruplo della media globale. A Livigno sono +3.7°C, a Gressoney in Val d’Aosta sono +3.4°C, a Formazza, in Piemonte sono, +3.3°C. Su 224 comuni montani d’Italia situati nei comprensori sciistici, ben 24 hanno subito un aumento di temperature superiore a 3°C negli ultimi sessanta anni.

Sono dati che vengono dalla nuova edizione di Nevediversa di Legambiente, un rapporto annuale che ci ricorda come buona parte dell’industria del turismo invernale italiano, nella forma che ha oggi, sia senza futuro. A maggior ragione in un inverno dove al nord è mancata quasi metà della neve, e l’innevamento artificiale è passato da integrazione occasionale a elemento strutturale del settore, con costi che si sono moltiplicati: nel 2022 un metro cubo di neve artificiale in Italia costava 2 euro, nel 2023 poteva arrivare a costare 7 euro.

Nevediversa è innanzitutto un’opera di censimento, una spoon river degli impianti di montagna abbandonati, ma si può leggere anche come il romanzo di un’altra dismissione o aspirante tale, molto più disordinata di quella sognata da Vincenzo Buonocore per Bagnoli, un declino generale per un settore costruito economicamente e socialmente per un altro clima e che si trova costretto a operare in condizioni in molti casi semplicemente impossibili.

Nell’ultimo anno in Italia sono stati dismessi 15 impianti sciistici, il totale è arrivato a 249, tre sono stati temporaneamente chiusi (e il totale arriva a 138), 33 sono in accanimento terapeutico (totale 181), cioè consumano più risorse per rimanere aperti di quelle che producono rimanendo aperti, praticamente un atto di fede. A questi si aggiungono anche 84 impianti aperti a rubinetto, quando si riesce, un po’ si e un po’ no, decide il meteo, decide il clima.

In totale sulle montagne italiane ci sono 652 (una cifra incredibile) strutture turistiche morte, moribonde o in fin di vita. Dovrebbe essere un monito. Quello che è morto non si può salvare, ma almeno si può iniziare a investire in modo diverso, per non riempire le montagne di altre future piste zombie. Invece tra tre anni c’è l’Olimpiade invernale e da poco è partita anche la costruzione della nuova pista da bob. L’inverno in Italia deve essere reimmaginato da zero: è questo il tema di Reimagine Winter, una mobilitazione su Alpi e Appennini, domenica 12 marzo, per dire che un altro inverno è possibile, ma deve partire da un’assunzione di senso di realtà. Qui ci sono tutti i luoghi di mobilitazione.  

Anche per questa settimana è tutto, stai bene, passa un buon weekend, per parlarci l’indirizzo è ferdinando.cotugno@gmail.com. Il 23 marzo Extinction Rebellion organizza a Milano una assemblea dei giornalisti, una specie di tavolo di confronto tra attivisti, scienza (ci sarà il Climate Media Center) e stampa per trovare insieme le parole giuste per affrontare tutto questo. Io ci sarò, se vuoi più informazioni scrivi a me o contatta XR Milano

A presto!

Ferdinando Cotugno

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