Ciao!

Terzo dispaccio quotidiano di Areale dal Climate Social Camp e dal Meeting europeo di Fridays for Future a Torino. Siamo a metà strada, è arrivato il temporale, le temperature si sono abbassate, si respira.

La delegazione più piccola (e più importante): Mapa

È il contesto che crea il senso delle storie. Intorno abbiamo: la campagna elettorale, con suo famelico metabolismo, la guerra in Ucraina, la durissima estate climatica italiana. Ma eventi come questo camp, con tutti i loro difetti (l’assemblearismo orizzontale, i turni di parola multi-lingue, il disordine generale e spontaneo) hanno anche un grande pregio, la capacità di potersi in parte sottrarre al contesto. Non esistono solo l’agenda da imporre e quella da subire, ma ci sono anche gerarchie politiche più ampie: cosa è davvero importante? Qual è la storia che raccontiamo? A nome di chi parliamo? È per questo che la formula più importante, citata e ribadita di questi giorni nella bolla di Torino è Mapa. 

Mapa sta per most affected people and areas, i popoli e i territori più colpiti dalla crisi climatica. I più vulnerabili, i meno responsabili, i meno attrezzati, quella metà dell’umanità che secondo l’Ipcc vive in rischio climatico immediato. Il movimento per il clima nasce internazionalista, magari sembra un’eredità novecentesca, una resurrezione del terzomondismo, ma l’approccio contemporaneo ha un senso diverso e ha a che fare con la struttura e la scala della sfida del riscaldamento globale.

Il problema del clima è che le cause sono sempre locali: le emissioni di una fabbrica, di un’azienda, di una città, di paese, ma le conseguenze sono globali, l’atmosfera non riconosce confini, come la terra, né si divide come il mare in spazi marittimi e acque internazionali. L’atmosfera terrestre è una sola. Le emissioni e l’aumento di concentrazione della CO2 e degli altri gas serra colpiscono chi le ha causate come chi non le ha causate.

Le conseguenze globali sull’atmosfera poi hanno ricadute locali, come in un circuito dove alla fine si torna al punto di partenza. Emissioni locali, riscaldamento globale, guai locali. Questi guai climatici dipendono dalla geografia, dall’orografia, dalle specifiche condizioni meteo, dalla forma fisica di un paese, ma anche dalla sua economia, dalle sue infrastrutture e così via.

Nella struttura di questo problema parliamo di tempesta globale, barche locali: se vivi in un paese con un basso reddito pro capite sono quindi probabili due cose. Uno: che hai contribuito pochissimo al riscaldamento globale. Due: che ne stai affrontando le conseguenze peggiori.

Tutto questo al Climate Social Camp è rappresentato da questo piccolo manipolo di Mapa, numeri piccoli (meno di una ventina di persone, da tutto il mondo, in rigoroso regime di autofinanziamento), grande valore simbolico. È un processo per apprendimento ed errori. Tra il 2018 e il 2019 il movimento per il clima ha iniziato a porsi un problema coloniale come quello dell’atmosfera e del riscaldamento globale, salvo scoprire di essere anch’esso coloniale come il problema che voleva risolvere. Lì inizia il processo, condividere la voce, creare spazio, decolonizzarsi, e nel frattempo combattere con soglie d’attenzione strette e fragili e con la tentazione sempre viva della scorciatoia.

In fondo il mondo aveva più o meno imparato ad ascoltare Greta Thunberg, e ora bisogna spiegare qualcosa di più complesso: il punto non è Greta, il punto è per esempio Patience Nabukalu, attivista ugandese del movimento contro l’oleodotto Eacop, infrastruttura totem in Africa orientale che lega le battaglie del sud e del nord globale. Si può ragionare su questo, chiedersi se lo svuotamento del potere carismatico della leadership sia una strategia buona o sbagliata, ma è una scelta politica.

«Guardatevi intorno alle manifestazioni, ai summit, agli incontri. Cercate le persone più coinvolte dalla crisi climatica e fate parlare prima loro», ha detto Nabukalu. «Come potete parlare di questa emergenza senza noi Mapa?».

In questo manipolo di portavoce ed esploratori c’è Michellin Sallata, del popolo indigeno dei Toraja, uno dei 4mila gruppi etnici (nella maggior parte non riconosciuti, in alcuni casi apertamente perseguitati) dell’Indonesia. Ha 25 anni, un corpo minuto, gli occhi incendiari, parla piano ma forte, non è andata alla Cop26 di Glasgow perché non le hanno concesso il visto, è in Italia con un permesso limitato, sette giorni e poi dovrà tornare in Indonesia, non i canonici 90 giorni di libera circolazione nell’area Schengen.

«Limitare le mie possibilità di movimento in Europa è stata una precisa scelta del governo italiano e di quello indonesiano», spiega, seduta sull’erba del Campus Luigi Einaudi. La sua lotta è iniziata quando ha capito che non in tutto il mondo devono sempre bollire l’acqua prima di berla, regalo avvelenato delle cartiere sull’isola di Sulawesi. È entrata nei Fridays for Future Indonesia tre anni fa. «Il movimento per il clima è cambiato, in questi anni, sta diventando più inclusivo, ci sono cose della crisi climatica che capisci solo se cresci da persona indigena in un paese come l’Indonesia».

Sallata porta a Torino la rivendicazioni della Global Alliance of Territorial Communities, una coalizione di comunità indigene e locali (queste ultime spesso sono indigeni della diaspora, che hanno perso territorio e tradizioni nel corso dell’ultimo secolo) dall’America centrale, l’Indonesia, il Brasile, il bacino dell’Amazzonia e quello del Congo. È una rete di reti locali di 24 paesi diversi, che vivono e proteggono 958 milioni di ettari di foreste tropicali (per fare un termine di paragone: estensione dei boschi italiani: 12 milioni di ettari). Metà di queste terre sono territori ancestrali senza diritti di proprietà, burocrazia contemporanea e land grabbing che vincono per inerzia su tutto il resto.

La logica politica di preservare questo lavoro di custodia invece di disperderlo è diventata col tempo anche una verità scientifica. Nel 2020 un rapporto Fao sulle comunità indigene del Sudamerica aveva misurato come fossero loro il metodo più efficace di conservazione e azione climatica sul campo. La loro tutela permette un risparmio di emissioni fino a 42 volte più elevato di qualsiasi progetto di cattura e stoccaggio della CO2. La Fao chiedeva ai governi la stessa cosa che chiede la Global Alliance: affidare ai popoli indigeni la governance delle foreste (oggi ne controllano solo il 12,6 per cento in Sudamerica), rafforzarne i diritti territoriali, coinvolgerli nell’azione climatica.

Con Michellin, sull’erba del Campus di Torino c’era Nansedalia Ramirez, dello stato di Guerrero in Messico, anche lei 25 anni, un quarto di secolo su questa terra pieno di azione e consapevolezza politica, partite con gli incendi forestali nella sua comunità, Ejido Cordon Grande, «devastazione che uccide tutto, la flora, la fauna, noi, il suolo».

Sono raddoppiati in cinque anni nello stato di Guerrero, da 45mila ettari bruciati nel 2017 e 95mila nel 2021. La devastazione forestale in Messico è legata anche al commercio illegale di legname, a sua volta collegato al narcotraffico. Cocaina e legnami pregiati. La battaglia della sua gente è simile a quella necessaria anche in Italia: gestione sostenibile delle foreste. «Uso, convivenza con gli umani e protezione del bosco possono andare insieme». Anche Ramirez fa parte dell’alleanza globale delle comunità locali.

Un’altra delle battaglie chiave, annunciata a Cop26 ma ancora lontana dall’essere operativa, è quella sulla finanza. Perché persone come lei sono alla fine del tubo, e alla fine del tubo non arriva mai nulla. Solo l’1 per cento di quella per il clima arriva a comunità come quella di Ramirez . Spesso perché nelle donazioni e nei flussi tutto si perde nella rete di intermediari nazionali. L’alternativa, ed è un’alternativa decisiva, perché senza risorse non c’è protezione, è la creazione di un network di accesso diretto ai finanziamenti. Strada lunga, ma c’è già il nome: Shandia.

Anche per oggi dal Climate Social Camp è tutto, se hai osservazioni o domande o se sei qui, scrivimi: ferdinando.cotugno@gmail.com.

A domani,

Ferdinando Cotugno

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