Una comunità energetica funziona in modo complesso (perché le questioni energetiche lo sono sempre) ma produce tre effetti positivi facili da spiegare.

Ci sono varie formule, ma sono tutte accomunate dallo stesso principio: cittadini, istituzioni, associazioni e imprese si mettono insieme per produrre localmente energia, quasi sempre attraverso pannelli fotovoltaici, da condividere sul posto e scambiare con la rete.

Cosa significa

Il primo effetto positivo è fare energia da fonti rinnovabili, quindi contribuire al grande obiettivo della decarbonizzazione di questo paese. Il secondo è avere energia a basso costo e siamo in tempi in cui nessun risparmio sull'energia è troppo piccolo da essere irrilevante.

Il terzo, il più importante, il vero elemento originale di questo modello promosso dall'Unione Europea dal 2020: energia ricompensata da un incentivo pubblico, che la comunità può usare per i suoi scopi condivisi e che possono essere i più diversi, sostegno alle famiglie in povertà energetica, sistemazione di parchi e aree verdi, progetti a sostegno delle persone in difficoltà.

Elettricità pulita con scopi sociali. Tra qualche anno in quartiere ci potrà essere un nuovo campetto di basket e chi ci gioca potrà dire: questo l'ha pagato la comunità energetica.

Buone pratiche

È ancora più facile capirlo partendo da un esempio: la scuola Moscati di Roma, nel quartiere Garbatella, ottavo municipio. È un tessuto sociale di consolidata partecipazione, dove c’era già un suolo civico pronto per questa idea. L’associazione dei genitori da tempo lavora per tenerla aperta fuori dagli orari canonici, facendone un soggetto attivo nel quartiere, anche dopo la fine della giornata o dell’anno scolastico.

Presto avrà una risorsa nuova: i pannelli sul tetto dell’edificio (per ora siamo alla fase degli studi di fattibilità, dovrebbe partire il prossimo anno): un centinaio di utenze si allacceranno alla comunità energetica e le risorse create con gli incentivi serviranno ad ampliare l’offerta formativa della scuola stessa.

«Questo progetto ha tutte le caratteristiche per cui è stato pensato il modello, non solo energia pulita e meno cara, ma anche frutto di attivazione dal basso, in grado di individuare gli scopi sociali migliori», spiega Manuele Messineo, membro del Comitato Cers, Comunità energetiche rinnovabili e solidali, che nasce proprio per promuovere una fitta rete di progetti di questo tipo, per una transizione energetica giusta e inclusiva. Cers viene da un intenso anno di formazione nella biodiversità sociale dei municipi di Roma, per spiegare che le comunità energetiche sono un modo per risparmiare in bolletta, ma anche per rafforzare la solidarietà nei quartieri e trovare nuove risorse per quelle iniziative che ne sono sempre alla ricerca: dalle case famiglia ai centri estivi per studenti.

Le transizioni ecologica ed energetica saranno il frutto di due spinte. La prima viene dall'alto, grandi piani di finanziamento nazionali e sovranazionali (Pnrr, Ers, Fit for 55), da un reticolo di leggi, norme, divieti che a volte sembrano tagliole su abitudini decennali e interi settori, come l’automotive, che non potrà più vendere auto a benzina, diesel o ibride tra poco più di dieci anni.

L’altro pezzo di transizione verrà dal basso, l’auto-organizzazione delle comunità, delle città, dei paesi e dei quartieri, dai bisogni di quella parte di cittadinanza che prova a vedere nella decarbonizzazione un’opportunità per ripensarsi, per cambiare, per riattivare energie sociali che sembravano sopite e stordite.

Non si può fare a meno di nessuno dei due flussi: i grandi disegni pubblici e finanziari offrono la scala necessaria al cambiamento, i piccoli progetti locali lo plasmano sulle esigenze delle persone, gli danno un volto umano e gli offrono una materia decisiva per una trasformazione così rapida, il consenso sociale.

La rivolta dei gilet gialli in Francia contro un aumento del costo del diesel nel 2018 mostra qual è l’alternativa, come può essere ricevuta una transizione percepita come senza volto, calata dall'alto per decreto. Le comunità energetiche sono un tassello fondamentale di questa umanizzazione del cambiamento. Lo spiega bene Gianluca Ruggieri, che come vice-presidente della cooperativa È Nostra è uno dei principali conoscitori di questo pezzo della transizione.

«Nella stessa Sardegna che si oppone aspramente ai grandi progetti eolici perché li vede come neocoloniali ed estrattivisti, c'è una domanda fortissima di nuove comunità energetiche dal basso». Sempre rinnovabili sono, ma su una scala molto più digeribile.

È ancora troppo poco

Oggi i numeri sono ancora piccoli: 17 comunità energetiche attive, più una quarantina di configurazioni di autoconsumo collettivo (formula giuridica diversa, principi simili). Però non dobbiamo considerarle un fenomeno puramente simbolico e sociale: secondo il ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin in Italia potrebbero sorgerne qualcosa come quindicimila in pochi anni, il tetto è di 4GW, che è una scala significativa dei consumi elettrici nazionali.

Secondo un’analisi del centro studi Delft metà della transizione in Europa può essere fatta grazie a varie forme di autoconsumo privato o industriale (di cui le comunità energetiche sono un pezzo importante), Legambiente stima che un terzo degli obiettivi di decarbonizzazone del settore elettrico al 2030 potrebbero essere raggiunti così.

I ritardi

Arne Dedert/picture-alliance/dpa/AP Images

A due anni dal primo recepimento della direttiva europea, con un decreto del governo Draghi che aveva permesso solo la nascita di pochissimi soggetti, stiamo ancora parlando di un cambiamento potenziale e non in atto perché le norme definitive non sono ancora arrivate, anche se sono attese a breve. Il ritardo è stato dovuto al cambio di governo, al negoziato con la Commissione europea sugli incentivi, alla generale lentezza della transizione.

I decreti attuativi sono fondamentali per capire la scala dei progetti ammessi, i dettagli su come e chi accede agli incentivi e una vasta gamma di questioni tecniche che – per la materia energetica – sono decisive.

Su questo ritardo amministrativo si possono ovviamente fare anche letture politiche: «È stato oltre un anno perso, un ritardo imbarazzante», commenta Katiuscia Eroe, responsabile energia per Legambiente.

«Ci è costato caro in termini di sviluppo, di lotta al caro energia, di emissioni, anche di perdita di interesse, il rischio è che la gente si esalti, si prepari e poi si stufi di aspettare. Non si può fare a meno di notare quanto è stato tutto più spedito quando si trattava di scrivere le regole per i nuovi rigassificatori. L’attuale governo e il precedente hanno dimostrato chiaramente qual è la loro scala di priorità».

Oggi il mondo delle comunità energetiche (Cer è la sigla tecnica) è composto da una piccola avanguardia, sulla scala di poche decine di persone per comunità, che è partita usando le regole provvisorie, e poi da un movimento molto più ampio, sulla scala delle migliaia di membri per Cer, che ha intenzione di partire nei prossimi anni, dentro il quale c’è un po’ tutto.

Il catalogo ce lo offre Ruggieri di È Nostra, partner di alcuni di questi progetti. «C’è il classico mondo dell’economia critica e solidale, i gruppi di acquisto, i piccoli comuni delle aree interne, c’è un grande attivismo nel mondo cattolico, ci sono gli ambientalisti classici, e tutti i soggetti che lavorano col disagio sociale nei territori. E poi sì, c’è anche gente che si aspetta di vedere chissà quali benefici economici, tema sul quale c’è più aspettativa che realtà. Con le comunità energetiche si risparmia, ma non al punto da far si che questo sia il motore principale, che rimane invece l'aspetto sociale».

Con i decreti attuativi, le comunità energetiche potranno diventare più grandi, passare dalle cabine secondarie, che servono poche decine di utenze, a quelle primarie, scalando a gruppi che possono essere di migliaia di soggetti e coprire interi quartieri.

A quel punto la comunità energetica ha davvero il potenziale di diventare un soggetto chiave della transizione. E qui è interessante il caso Roma, forse la città italiana dove c’è più fermento e meglio si è compreso il potenziale di questa trasformazione.

Gli obiettivi della capitale

Quando nel 2021 Roberto Gualtieri è diventato sindaco di Roma, ha chiamato Edoardo Zanchini a guidare l’ufficio clima della capitale. Zanchini da vice-presidente di Legambiente si era occupato dell’onda nascente delle comunità energetiche e ha convinto il sindaco a farne un pilastro delle politiche energetiche della capitale.

A partire dalle scuole come la Moscati di Garbatella. «Il patrimonio edilizio della città è immenso, fino alle medie Roma ha 1200 scuole, senza contare tutti gli altri edifici pubblici», dice Zanchini. L’idea è trasformare i tetti dei palazzi di Roma in una fonte energetica diffusa, il nuovo petrolio della capitale, abilitando la nascita di centinaia di comunità.

Il comune partirà dalla rete dei quindici municipi di cui è composta la capitale, con l’idea di avviare una comunità energetica per municipio, quasi sempre su una scuola, con l’idea di usare le prime quindici come laboratorio e innesco di un modello.

«Le comunità energetiche sono difficili da gestire, per questo sarà utile una sperimentazione, per la quale stiamo preparando una gara. I municipi sono importanti perché sanno meglio del comune come funziona il territorio, quali sono le realtà da aiutare con gli incentivi, come guidare il cambiamento. L’ufficio clima ha una funzione di supporto e indirizzo», spiega Zanchini.

È questo il modello di una transizione che accoglie una spinta dal basso e le offre l’alveo giusto per muoversi senza snaturarla. E serve anche a proteggere la parte sociale e di cambiamento da altri appetiti.

I tetti oggi sono attraenti anche per i grandi operatori energetici, che cercano spazio per i progetti più massicci, «utility scale» come si dice in gergo, e il comune avrà il compito di trovare il giusto equilibrio tra le spinte solidali e quelle dell’economia, su un numero di tetti che è vasto ma non infinito.

La concorrenza per lo spazio – la principale risorsa consumata dalle rinnovabili – sarà un trend di questo decennio e le comunità energetiche saranno un buon laboratorio di risoluzione di questi conflitti, a Roma come nel resto d'Italia.

Progressi a fatica

AP

Nel 2002, quando l’Italia entrava nell’euro, c’erano 2000 impianti idroelettrici, 1000 termolettrici fossili, 100 eolici, 10 fotovoltaici. Circa venti anni dopo, abbiamo 6000 impianti eolici e 1,2 milioni fotovoltaici, con una quota enorme legata all’autoconsumo individuale, quelli da balcone o da villetta. È in questo contesto che vanno inquadrate le comunità energetiche.

Una fondamentale differenza tra mondo fossile e uno rinnovabile è che un sistema energetico fossile è fatto da pochi nodi centralizzati e controllati, mentre uno rinnovabile è molto più diffuso, i cittadini possono consumare e produrre energia allo stesso tempo. Spesso si paragona il pannello all’orto da balcone con cui integrare la spesa al supermercato.

Le comunità energetiche sono la versione sociale e solidale di questa tendenza, l’orto di quartiere per l'energia. Una loro crescita potrebbe fare da volano all'autoconsumo e ha un potenziale di sbloccare, secondo Legambiente, 19mila posti di lavoro in sette anni, tra installatori, manutentori e startup.

«È una delle cose più interessanti dell’energia di comunità – spiega Katiuscia Eroe – libera creatività e fantasia da parte dei territori, li rende finalmente protagonisti di qualcosa che hanno sempre subito». È in questa logica che il Pnrr prevede un finanziamento di 2,2 miliardi di euro per le Cer nei comuni sotto i cinquemila abitanti, una scelta che ha senso nell’ottica della sempre vaticinata e mai realizzata rinascita delle aree interne ma che penalizza territori con analoghe difficoltà, come le periferie urbane.

«Uno dei grandi problemi è l’accesso al credito», dice Zanchini, «perché servono dai 20mila ai 50mila euro per partire e per tanti soggetti è una cifra difficile da trovare, e il rischio è che su questa torta ci mettano le mani soprattutto le aziende energetiche, che sicuramente non hanno problemi di spesa, disperdendo il significato sociale delle comunità energetiche».

Tra ritardi, limiti di potenza e penalizzazione di alcuni soggetti, si può dire che il governo attuale e quello precedente hanno incoraggiato e allo stesso tempo frenato le comunità energetiche, in modo che fossero qualcosa di innovativo ma non radicalmente trasformativo del sistema.

Un ecosistema sociale che potrebbe intrecciarsi nei prossimi anni con la crescita delle comunità energetiche è quello delle cooperative. Non a caso LegaCoop ha creato un portale chiamato Respira, per unire domanda e offerta energetica all’interno del mondo cooperativo, che in Italia è una fetta non piccola di economia: 10mila realtà, un valore produttivo di 82 miliardi di euro, mezzo milione di occupati. LegaCoop vuole fornire strumenti a un pezzo di transizione che è ancora terra di conquista da rivendicare, trasformandole di fatto in cooperative energetiche.

I vantaggi li espone il presidente Simone Gamberini. «Dare alla propria comunità energetica uno statuto cooperativo è un modo per strutturare l'auto-organizzazione, tutelarne il patrimonio e l’intergenerazionalità. E poi è un’opportunità strategica di rafforzare la forma cooperativa». LegaCoop vuole fornire strumenti per passare dal la piccola scala un po' informale delle associazioni di quartiere a forme più stabili. Questa idea è meno attrattiva per le piccole comunità energetiche di oggi ma potrebbe esserlo per quelle medie di domani.

C’è una cosa che dice Gamberini e che fa capire quanto questo modello sia appetibile. «Il rischio è che le Cer fatte dai comuni diventino le cooperative energetiche del sindaco, tutte costruite intorno alla sua figura».

Una buona sintesi della situazione la fa una persona che non è né un ambientalista né un politico, ma Giuseppe Rebuzzini, ceo di Mer Energia Italia, operatore energetico europeo in crescita nel nostro paese (1 mld di euro di fatturato nel 2022), attivo nel mercato del gas, delle rinnovabili e della mobilità elettrica. Insomma, l’occhio clinico del business: «A oggi abbiamo una grande opportunità con limitazioni abbastanza evidenti. Come paese ci siamo dati obiettivi ambiziosi senza avere i mezzi per raggiungerli. Sui grandi impianti i colli di bottiglia autorizzativi sono ancora tutti lì, e servono semplificazioni. Sui piccoli impianti, comunità energetiche incluse, servono incentivi più strutturati. Altrimenti i 70 GW che ci siamo dati come obiettivo al 2030 sono irrealizzabili. Per arrivarci bisogna sostenere anche i progetti dal basso, che possono essere un quarto della transizione della produzione di elettricità».

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Educare i cittadini

Infine, le comunità energetiche, come tutti i sistemi che rendono meno netta la linea tra utente e produttore, sono un anche un grande progetto di educazione energetica nazionale. Per questo motivo Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) è al lavoro per sperimentare strumenti di auto-monitoraggio dei consumi che possano aiutare le persone a essere più consapevoli di come funziona, come si usa e come viene sprecata l’energia.

Uno dei nuovi strumenti su cui Enea è al lavoro è una piattaforma digitale, basata sulla blockchain, per aiutare le comunità a distribuire gli incentivi in modo più esatto.

Questa piattaforma, chiamata Cruise, permetterà anche lo sviluppo di economie locali basati su monete energetiche virtuali, per scambiarsi sulla piccola scala della comunità competenze, beni e servizi di ogni tipo.

Una specie di baratto digitale basato sull'energia consumata e prodotta. Come dice Zanchini: «Le comunità energetiche non sono come il superbonus: ci risparmi qualcosa, ma non più di tanto. Però hanno obiettivi sociali, e sono un passaggio culturale, una potenziale rivoluzione degli stili di vita».

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